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OMELIA per la festa di SANTA CHIARA
Faenza - Monastero S.Chiara, 11 agosto 2014
11-08-2014

Nel cercare qualche indicazione per la riflessione all’omelia di questa Messa mi sono imbattuto in un curioso profilo di S. Chiara a cura delle Clarisse Urbaniste d’Italia, dal quale mi piace prendere qualche spunto. L’intento di chi ha esteso il testo è quello di tracciare la Carta d’identità di S. Chiara. Per capire il tono del documento basti considerare come è stato indicato lo stato civile: innamorata e la professione: Sorella povera.

 Continuando in questo tono più avanti trovo dei suggerimenti più profondi, fra i quali scelgo tre aggettivi.

 Intrepida. Fin dall’inizio Chiara si rivela una donna forte e determinata, capace di contrastare l’intera famiglia pur di attuare il suo sogno di vita evangelica. Sapendo di dover fronteggiare la resistenza dell’intero casato, fugge nella notte lasciandosi alle spalle ogni sicurezza.
Più tardi lotterà con tenacia anche con il Papa per difendere la povertà ed il suo legame con i frati minori, senza mai venir meno al rispetto e all’amore verso la Chiesa, di cui si sente figlia.
Una volta papa Gregorio IX aveva proibito ai frati di recarsi nei monasteri a predicare senza il suo permesso. Subito Chiara mandò via anche i frati che portavano le elemosine, affermando che non voleva ricevere il pane materiale se non poteva avere quello spirituale.
Attraverso ciò che noi chiameremmo “sciopero della fame”, ottenne così la revoca del divieto.
Chiara fu la prima donna a scrivere una Regola per donne: fino ad allora, infatti, le fonti legislative per i monasteri femminili erano state redatte da uomini. Con la sua tenace determinazione, Chiara riuscì ad ottenerne l’approvazione da papa Innocenzo IV.

Possiamo trovare la fonte di questo coraggio nella sua unione con Dio: “Io sono la vite, voi i tralci, chi rimane in me e io in lui porta molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla… Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto”. La forza viene dalla comunione con Dio sia per fare la sua volontà, sia per chiedere nella preghiera il suo aiuto ovviamente non per appoggiare i nostri capricci, ma per la diffusione del Regno di Dio. Potremmo anzi dire che le donne nella Chiesa mettono in risalto due principi: Dio preferisce i piccoli e i deboli, e noi abbiamo bisogno di rimanere nell’amore di Cristo.

 Dirà San Paolo: Il Signore mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. E concluderà: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2 Cor 12,9s). La rinuncia all’uso della violenza non coincide con l’abbandono del coraggio e della forza, come anche la vita di S. Chiara ha mostrato, ma significa ricorrere alla forza della mitezza, della pazienza e della benevolenza, frutti dello Spirito Santo. E tutto questo unito all’amore, che, dirà Papa Giovanni Paolo II, è proprio del genio femminile, in quanto “la donna non può ritrovare se stessa se non donando l’amore agli altri” (Mulieris dignitatem, n.30).

 Nel riflettere ancora su questo il Papa fa il confronto tra la verginità della donna non sposata e la maternità della donna sposata, e scrive: “Il punto di partenza di questa analogia è il significato delle nozze. La donna infatti è sposata sia mediante il sacramento del matrimonio, sia spiritualmente mediante le nozze con Cristo. Nell’uno e nell’altro caso le nozze indicano il dono sincero della persona della sposa verso lo sposo”. E per finire la riflessione si deve dire che se frutto dell’amore coniugale è il dono della vita, frutto dell’amore verginale è l’amore di Cristo e dei fratelli, a cominciare dai più deboli.

 Il profeta Osea nel ricordare quello che Dio ha fatto con il suo popolo, ricorda anche la necessità di entrare nel deserto in solitudine con Lui perché Egli possa parlare al nostro cuore e ravvivare l’amore come fanno gli innamorati.

Gioiosa. Dalla preghiera Chiara attingeva una gioia profonda che si irradiava attorno a lei. Anche se fu segnata da fatiche e prove (fu inferma per 29 anni), le sue lettere ci testimoniano una inesauribile e profonda letizia: “Sono ripiena di gioia e respiro di esultanza nel Signore…”.

 A volte sembra incredibile come i Santi riescano a parlare di gioia, in mezzo a tutte le difficoltà della vita. Ci può aiutare a comprendere come questo sia possibile, l’osservazione che abbiamo sentito in S. Paolo: “Il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria: noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne” (2 Cor 4,17s).

La gioia non va ricercata nelle vicende materiali, anche quelle belle, che nella migliore delle ipotesi passano; la gioia si può trovare nelle realtà invisibili che ci sono fin da adesso (amore, pace, bontà, giustizia, …) e soprattutto nelle realtà che ci proiettano nella vita divina (fede, speranza, carità, misericordia, comunione con Dio,…). A volte noi ci preoccupiamo del futuro: delle nostre comunità religiose e parrocchiali, delle nostre opere… I cristiani non sono la gente del futuro, ma dell’eternità; è questa che ci può dare consolazione. Pensiamo alla grandezza della testimonianza del mondo invisibile che viene dalla vita consacrata, uno dei contributi più necessari al nostro tempo. Basti pensare all’imbarazzo di parlare della morte senza nominarla, nel tentativo di esorcizzarla non pensandoci. E invece si muore.

 Accogliente. Il Testamento che Chiara ha lasciato alle sue Sorelle “presenti e future” contiene un’esortazione che ci lascia intuire come fosse impostata la vita fraterna a San Damiano:
“Amandovi a vicenda nell’amore di Cristo, dimostrate al di fuori con le opere, l’amore che avete nell’intimo, in modo che, provocate da questo esempio, le Sorelle crescano nell’amore di Dio e nella mutua carità
”.

 Un’altra delle sfide del nostro tempo è la fraternità, una relazione cioè che rende possibile la vita nella comunità familiare, religiosa e cristiana in genere. S. Chiara invita le sue sorelle ad amarsi con l’amore di Cristo e a mostrarlo con le opere. Non invita cioè ad avere dei sentimenti affettuosi, ma a mostrare con le opere la reciproca accoglienza, l’aiuto vicendevole e la custodia della serenità nella comunità perché sia bello vivere insieme. Come sono contagiose in senso negativo le gelosie, le invidie e le maldicenze, così si può essere provocati dall’esempio per crescere nell’amore di Dio e nella mutua carità.

 Giustamente oggi siamo venuti per celebrare la festa di S. Chiara con le nostre sorelle che la venerano come patrona anche del loro Monastero, e chiediamo di far tesoro anche noi dell’esempio di S. Chiara, per imitare la sua testimonianza di coraggio, di gioia e di fraternità.

OMELIA per l’ANNIVERSARIO DELLA NASCITA della Ven. BENEDETTA BIANCHI PORRO
Sirmione - 8 agosto 2014
08-08-2014

La liturgia di oggi ricorda San Domenico, fondatore dell’Ordine dei predicatori. In questo giorno, 8 agosto 1936 Benedetta Bianchi Porro nasceva a Dovadola, provincia di Forlì, e morirà poi il 23 gennaio 1964 qui a Sirmione. Siamo dunque nell’anno 50° della sua morte.

Il ricordo di San Domenico non vuole essere solo un accostamento nella data, ma mi piace fare un piccolo confronto tra la nostra Venerabile e quel grande Santo, non tanto perché tra di loro tutti i santi un po’ si rassomigliano, ma perché mi pare che entrambi abbiano avuto a cuore il far conoscere il più possibile il Signore Gesù, mediante un apostolato che poi ha assunto in Benedetta una modalità tutta singolare.

Il Papa Francesco sta sollecitando la Chiesa sulla nuova evangelizzazione. Ha iniziato la sua esortazione con le parole: “La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù”. Se questa fu l’esperienza che fece a suo tempo S. Domenico con i suoi frati nel portare il Vangelo ai nuovi eretici che allora si stavano diffondendo in Europa, questa è stata anche la testimonianza di Benedetta quando si è resa conto che sarebbe stata quella la sua missione voluta dal Signore. La nuova evangelizzazione non comporta certamente un messaggio evangelico nuovo, ma il sapere andare incontro alle situazioni nuove di oggi e alle domande che anche l’uomo di oggi si pone, soprattutto quelle drammatiche sul perché del dolore, sul senso della sofferenza, sulla realtà di Dio.

La vita di Benedetta in una famiglia benestante, pur avendo dovuto attraversare il periodo della guerra e del dopo guerra trascorre come quella delle ragazze della sua età. È sui 16/17 anni che inizia a manifestarsi la sordità, il primo sintomo del male che la bloccherà completamente. Le prime reazioni non furono facili, soprattutto quando progressivamente si rese conto che doveva abbandonare tutto ciò che sperava di poter fare nella vita, a cominciare dagli studi di medicina che le servirono solo, dirà poi, a diagnosticare la sua malattia.

Alcuni anni passano negli studi, nel cercare di affrontare i mali mano a mano che si manifestano, e nel coltivare le amicizie, in particolare di alcune  ragazze di Gioventù studentesca che le sono vicine. Di una di esse, Nicoletta Padovani, dirà un giorno: “E’ lei che ha acceso in me la fiaccola della fede”.

Nell’estate del 1959 un sacerdote di Ferrara, don Elio Giuseppe Mori, che veniva qui a Sirmione per cure, mette per iscritto alcuni pensieri frutto di vari colloqui: “Cara Benedetta, voglio affidare a questo foglio quello che avrei dovuto dirti poco fa… Dio può ben capirti. Anche Gesù in croce non poteva più agire né parlare. Ma la sua croce era il momento più valido della sua vita. Anche la tua croce assomiglia alla sua; ne è una continuazione…Non desiderare di morire, ma di vivere. Lascia che Dio conduca la tua vita, ma non pensare che la tua vita sia inutile perché non puoi agire, parlare e fare…”.

Insieme a un cammino nella fede, per Benedetta c’è anche un cammino nella consapevolezza di ciò che Dio le stava chiedendo, cioè della sua vocazione, e di conseguenza della sua missione.

Nel cammino di fede le furono di molto aiuto il dialogo e la corrispondenza con le ragazze di G.S., con le quali condivideva problemi, scoperte e ricerca sui misteri di Dio, aiutandosi con il Vangelo e letture degli scrittori sacri. Dirà un giorno alla mamma: “Mammina, io credo all’Amore disceso dal Cielo, a Gesù Cristo e alla sua Croce gloriosa!! Sì, io credo all’Amore. Mi sembrava di avere qualcosa di altro da dirti: infatti… tu mi dirai che io in Gesù ci sono nata. Sì, ma prima lo sentivo così lontano, ora invece so che Dio è dappertutto, anche se noi non lo vediamo, addirittura il regno di Dio è in noi!”. Febbraio 1961.

La consapevolezza della sua vocazione e della sua missione di apostolato verso gli altri, mi piace legarla ai due pellegrinaggi che Benedetta fece a Lourdes.

La prima volta ci andò nel giugno 1960 e ricorda così: “Il Signore proprio là a Lourdes mi fece capire la ricchezza del mio stato… Mi piace dire ai sofferenti, agli ammalati che, se noi saremo umili e docili, il Signore farà di noi grandi cose. La Madonna mi ha donata la rassegnazione cristiana”. Riconoscere davanti a Dio che anche nello stato di sofferenza in cui Benedetta si trovava,  ella possedeva il grande tesoro della fede che la illuminava sul mistero della giustizia di Dio, davvero è una cosa grande.

Qualche mese dopo Mons. Mori le scriverà ancora: “Non misurare la tua vita col metro della sofferenza, pensando che abbia valore solo quello che ti costa. Il valore di ogni cosa è l’amore. Cerca di amare Dio con l’amore di una figlia. Quando stai bene gli sei vicina come quando stai male… non sei al mondo per soffrire ma per amare. Offri ogni pena come ogni gioia. La tua condizione attuale è la più vicina a Dio” (settembre 1960).

Nel marzo 1962 Benedetta scrive ad una amica: “Nessuno è inutile, a tutti Dio ha assegnato un compito”. Un anno dopo ad un’altra amica scrive parlando del proprio compito, “che non deve essere solo quello di scrutarmi dentro, ma di amare la sofferenza di tutti quelli che vivono e  vengono attorno al mio letto e mi danno e mi domandano l’aiuto di una preghiera”. Si può dire che quanto più il cammino della croce si fa duro, tanto più cresce l’attenzione premurosa verso gli altri.

Ricordando il viaggio a Lourdes del giugno 1963 scriverà: “Ed io mi sono accorta più che mai della ricchezza del mio stato e non desidero altro che conservarlo. È stato questo per me il miracolo di Lourdes quest’anno”.  E qualche mese dopo scriverà a Nicoletta: “Dio ci dà le cose non solo per noi, ma perché si possa anche distribuirle agli altri. Qualche volta mi rattristo perché mi pare che così, nel mio stato, io non sia utile per nessuno ed allora vorrei che avvenisse l’Incontro. Ma forse queste sono tentazioni, perché io più vado avanti, più ho la certezza che ‘grandi cose ha fatto in me Colui che è potente’ e l’anima mia glorifica il Signore”.

Davvero nel breve tempo della sua vita Benedetta ha comunicato la fede e la certezza dell’amore di Dio a tante persone sofferenti, facendo della sua vita un vero apostolato. Credo che si possa dire che Benedetta è un dono per il nostro tempo, che sta arrivando invece a legittimare la soppressione della vita degli ammalati terminali o che sono in stato di incoscienza. Si tratta di far capire la “ricchezza dello stato di chi soffre”, che non è inutile, e può far scoprire che nella vita ciò che conta non è star bene, ma sapere amare Dio e il prossimo.

Voglio concludere riportando un breve commento di Benedetta alla affermazione centrale del brano del vangelo di oggi: “Se qualcuno vuole venire dietro e me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Benedetta mette queste parole in bocca a Gesù e aggiunge: “Prendi la tua croce e seguimi. Non cercare di spiegare il perché. Lascia il tuo criterio, ma accetta il mio” (ottobre 1963).

Dio in ogni tempo manda i suoi profeti, adatti ad annunciare il Regno in quel particolare momento storico; sta a noi riconoscere i messaggeri che passano sui monti ad annunciare la pace, portata dall’amore che nasce dalla croce di Cristo e che giunge fino a noi mediante la testimonianza dei suoi Santi.

OMELIA per la solennità del CORPUS DOMINI 2014
Faenza - Chiesa S. Giuseppe. 19 giugno 2014
19-06-2014

Le parole di Gesù che abbiamo ascoltato nel Vangelo di Giovanni non ammettono replica di sorta. Le sue affermazioni sono perentorie, riprese e ripetute con insistenza, come a dire: ‘Le cose che vi dico vanno accolte per la fiducia che avete in chi ve le dice; non si tratta di capire, ma di cogliere con gioia la bellezza del dono che vi sto annunciando’.

Proviamo a pensare a ciò che in realtà Gesù ha fatto donando Sé stesso nell’Eucaristia, proprio partendo dal mistero della Sua presenza reale, che è l’oggetto della Solennità del Corpus Domini, mentre il Giovedì santo nella Cena del Signore celebra il Sacrificio di Cristo nel segno sacramentale.

Non dobbiamo infatti dimenticare che il Mistero dell’Eucaristia è anzitutto il Sacrificio di Cristo che viene perpetuato in Sua memoria, con il quale si annuncia la morte e la risurrezione di Cristo, al quale noi partecipiamo con la Comunione eucaristica; ma è anche mistero della presenza del Signore, tutti i giorni, fino alla fine del mondo.

Perché mai Gesù avrà scelto il pane e il vino come segni del suo mistero di amore e di presenza? Perché avrà voluto che il pane e il vino, una volta trasformati nel Corpo e nel Sangue Suo fossero da noi consumati come cibo, quando ci accostiamo per comunicarci di Lui nella Messa?

Il vangelo di Giovanni afferma senza esitazione la volontà di Gesù a questo riguardo: ‘Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna’ perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda’ questo è il pane disceso dal cielo”.

I segni scelti da Gesù, il pane e il vino, li troviamo nell’ordinarietà dell’esistenza, come alimento per la vita dell’uomo. Con questi elementi Gesù mantiene la realtà del dono della sua vita sia nel sacrificio al Padre, sia nell’essere alimento per la nostra vita di figli di Dio.

Quando sentiamo il sacerdote pronunciare le parole di Gesù: ‘Questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi’, dobbiamo pensare che guardando, toccando e mangiando quel pane noi di fatto guardiamo, tocchiamo e mangiamo ciò che ci mette in contatto con il Corpo glorioso di Cristo. Come nel mistero dell’Incarnazione il Verbo di Dio prese la natura umana per entrare nella nostra storia, così anche oggi il Cristo glorioso presso il Padre si fa presente in mezzo a noi con il segno del Pane e del Vino. Non sono un segno indicatore, ma una realtà vera. La Liturgia ha questa capacità di farci penetrare oltre il tempo e lo spazio, e mediante le preghiere e i riti metterci in contatto con il Cristo glorioso del cielo.

Se Gesù avesse detto ai suoi apostoli quando lo guardavano salire al cielo: ‘Quando volete pensare a me, guardate in alto: io vi vedrò’, noi saremmo rimasti contenti e convinti che ciò si sarebbe realizzato. Gesù invece ha voluto continuare la sua presenza sulla terra in modo diverso di prima, ma vero e reale.

Possiamo noi dire che questo a Lui non è possibile?  Gesù non ha risposto alle difficoltà che gli hanno fatto i suoi ascoltatori, perché non avrebbero capito. L’alternativa che ha posto è stata solo una: ‘Credete in me, fidatevi e sarete felici’.

Davvero solo un cuore divino poteva pensare ad un modo così singolare e fuori dalla portata umana, per essere vicino a tutti coloro che lo desiderano, senza bisogno di spostarsi come dovevano fare gli abitanti della Palestina. E nello stesso tempo per incontrarlo così ci invita a riunirci in assemblea santa di Dio, ad essere cioè Chiesa riunita dalla sua parola, a vivere l’incontro con Lui non in una solitudine intimistica, ma nella gioia di una assemblea in festa. È quanto ci ha ricordato San Paolo con la forza del suo linguaggio: ‘Il calice della benedizione, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?’. La risposta è ovviamente affermativa, perché il Sangue di Cristo è stato versato sulla Croce realmente anche per me e ora io entro in rapporto con esso perché ne possa raccogliere tutta l’efficacia.

Così il pane che noi spezziamo è comunione con il Corpo di Cristo, presente nel sacramento; e questa comunione ci riunisce nel Corpo mistico del Signore, che è la sua Chiesa: ‘Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane’. E con questo abbiamo scoperto qual è il fine dell’Eucaristia: tenerci in comunione con il Signore risorto, per essere uniti tra noi nel suo Corpo che è la Chiesa.

Il momento tipico della festa del Corpus Domini è la processione, cioè la manifestazione pubblica della comunità ecclesiale, non come esibizione trionfalistica, ma come umile testimonianza di quello che siamo, popolo in cammino verso il Regno, che porta con sé la fonte della sua speranza: l’Eucaristia.

Ci metteremo in cammino pregando e cantando per dire anzitutto a noi stessi che la nostra vita in Dio ha bisogno della preghiera, e per dire a tutti che Dio cammina con noi e con tutti coloro che lo cercano. Poi vorremo dire che ciò che avviene nella Chiesa è per il bene di tutti; fintanto che c’è chi prega, fintanto che la parola di Dio è proclamata, fintanto che c’è la Messa, fintanto che c’è la carità vissuta abbiamo motivo di sperare.

Siamo grati ai nostri fratelli e alle nostre sorelle che si rendono disponibili per il Ministero di distribuire la Comunione, portandola anche ai malati, cioè a coloro che più hanno bisogno di essere sostenuti nella fede e nella speranza. Ringrazio i nuovi ministri che ora verranno istituiti e anche coloro che oggi hanno rinnovato la loro disponibilità.

Grazie Signore perché sei rimasto con noi e ci accompagni perché vuoi bene a tutti e ci attendi come fratelli nella tua casa

OMELIA per la DEDICAZIONE del NUOVO ALTARE DELLA CATTEDRALE
Faenza - basilica Cattedrale, 6 giugno 2014
06-06-2014

‘Viene l’ora ‘ ed è questa ‘ in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità’. L’affermazione di Gesù nel Vangelo di Giovanni prefigura un tempo in cui non sarà necessario un tempio dove celebrare il culto all’unico vero Dio. Come mai allora ci siamo riuniti per dedicare al Dio del Cielo un altare, sul quale celebrare il Sacrificio eucaristico?

Quanto ha detto Gesù alla Samaritana ci porta a ricordare che il luogo nel quale su questa terra possiamo incontrare Dio non è il tempio materiale, ma l’umanità del Figlio di Dio fatto uomo. Dal momento dell’Incarnazione del Verbo, Dio si trova sulla terra; e dal momento in cui Cristo glorioso e risorto è asceso al Cielo, Egli è presente in mezzo a noi mediante lo Spirito Santo: ‘Non vi lascerò orfani’; ‘Ecco, io sono con voi fino alla fine del mondo’.

Nella Nuova ed eterna Alleanza il tempio non è il luogo della presenza di Dio, ma il luogo in cui si riunisce l’assemblea dei discepoli di Cristo, convocati dalla Sua parola, per rinnovare il memoriale della morte e risurrezione del Signore Gesù.

‘Fate questo in memoria di me’ ha detto Gesù ai suoi Apostoli. Oggi i presbiteri rispondono ancora a quel comando quando celebrano per la comunità dei credenti il mistero della fede. Non è quindi il luogo che santifica il rito, ma è la celebrazione dell’Eucaristia che rende lo spazio sacro idoneo a contenere l’infinito Mistero del Sacrificio di Cristo.

Nella chiesa dove avviene la santa convocazione dei fedeli, l’Altare è il centro di tutta la celebrazione; al mistero dell’altare porta la Parola di Dio; sull’altare si rinnova il Sacrificio di Cristo; dall’altare  si riceve il Pane della vita. L’altare quindi assume il doppio significato di Ara del sacrificio e di Mensa eucaristica.

Ancora più profondamente l’Altare è segno di Cristo, pietra angolare che sostiene tutta la costruzione della Chiesa; anzi, l’Altare è Cristo stesso, Unto di Spirito Santo, luogo dell’incontro con Dio. Il patriarca Giacobbe, dopo il sogno della scala che univa il cielo alla terra prese la pietra che si era posta come guanciale, la eresse come una stele e versò olio sulla sua sommità e disse: ‘Questa pietra che io ho eretto come stele, sarà una casa di Dio” (Gen 28,22). Con questo si vuol dire che è l’altare che costruisce attorno a sé il tempio fatto di pietre vive.

Con noi questa sera vogliamo le pietre più vive di tutte, cioè i nostri Santi: li invocheremo, perché siano con noi. Loro sono il frutto dell’Eucaristia celebrata e vissuta.

I Santi ci ricordano che ‘non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura. Per mezzo di Cristo dunque offriamo a Dio continuamente un sacrificio di lode, cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome’. L’inno di lode più bello è quello della comunione, che si vive nella Chiesa, segno e strumento di unità di tutto il genere umano. Anche l’altare, unico nella chiesa, è segno di unità per rafforzare nei fratelli il vincolo di carità e di concordia.

Dice S. Ignazio, scrivendo ai Filadelfiesi: ‘Preoccupatevi di attendere ad una sola eucarestia. Una è la carne di nostro Signore Gesù Cristo e uno il calice dell’unità del suo sangue, uno è l’altare come uno solo è il vescovo con il presbiterio e i diaconi’, affinché tutto quello che fate, lo facciate secondo Dio'(n. 4).

L’unità che si costruisce attorno all’altare attinge anche alla grazia della Parola di Dio, che ha il suo luogo nell’ambone, e trova nella Cattedra del vescovo il segno visibile dell’unità nella Chiesa particolare.

Così nell’unica Celebrazione eucaristica sono presenti i poteri messianici di Cristo: la profezia, nella proclamazione della parola; la regalità, nella guida della comunità; il sacerdozio nell’offerta del Sacrificio di Cristo. Tutto questo è richiamato nel testo degli atti degli apostoli: ‘Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere’.  Questo è il progetto  ideale di ogni comunità cristiana.

L’impegno della nostra Chiesa nel realizzare in questa Cattedrale l’adeguamento liturgico previsto dal Concilio vuole essere un auspicio per l’accoglienza di tutti gli insegnamenti del Vaticano II, per un rinnovamento in senso missionario della nostra Chiesa. Anche questo sia un segno efficace di conversione, radicata nella memoria di una Chiesa viva nelle sue opere, nelle attività dei laici, nella donazione delle persone consacrate e nell’impegno dei suoi presbiteri.

La consacrazione dell’altare è opera dello Spirito santo, mediante il Sacro Crisma preparato nella Messa del Giovedì santo. Lo Spirito che trasforma il pane e il vino nel Corpo e Sangue di Cristo, cambia il significato di questa pietra, destinandola all’offerta del Sacrificio di Cristo, vittima e sacerdote in eterno. Anche quando la celebrazione eucaristica è finita l’altare rimane come segno di fedeltà del grande Sommo sacerdote, sempre vivo per intercedere per noi.

Salutiamo anche noi l’altare con le parole di un’antica preghiera orientale: ‘Dimora in pace, santo altare del Signore. Io non so se ormai ritornerò a te o no. Il Signore mi conceda di vederti nell’assemblea dei primogeniti che sono in cielo; in questa alleanza io pongo la mia fiducia. Rimani in pace, altare santo e propiziatore; il Corpo e il Sangue che ho ricevuto da te siano per il perdono dei miei peccati, la remissione delle mie colpe e la mia sicurezza davanti al tremendo tribunale di nostro Signore e Dio per sempre. Dimora in pace, santo altare, mensa di vita e supplica per me il nostro Signore Gesù Cristo, perché non cessi di pensare a te, ora e nei secoli eterni. Amen’.

OMELIA per il giorno di PASQUA 2014 (sintesi)
20-04-2014

Il senso della Pasqua lo si coglie nella liturgia, cioè nel rivivere la grazia della risurrezione mediante alcuni riti e preghiere che rendono attuale il mistero.

Si tratta di un evento: Gesù, morto e sepolto, è risorto. È un fatto di cui si può prendere atto, credendo che è avvenuto, o lo si può rifiutare come inesistente.

Se Cristo è risorto, c’è un riflesso nella vita, che porta a coltivare una speranza, che è conseguenza della vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte.

Se questa è la Pasqua, più difficile è far capire questa realtà a chi non conosce le verità della fede cristiana. Allora ci si rende conto che si confonde la verità della Pasqua con una formula magica, alla quale si attribuisce una efficacia contro i mali di questo mondo; la Pasqua dovrebbe far scomparire tutto ciò che non funziona e non corrisponde ad attese pur legittime, ma limitate agli aspetti materiali della vita.

Per la verità il dono della Pasqua raggiunge tutto l’uomo, quindi anche gli aspetti temporali della sua esistenza, ma come conseguenza delle realtà spirituali e soprannaturali che lo coinvolgono. In altre parole, proprio attraverso l’unità della realtà dell’uomo, la salvezza di Cristo, che agisce direttamente sullo spirito umano, raggiunge anche gli aspetti concreti della sua vita.

Per dirla con una battuta, che è paradossale, ma non più di tanto: un piatto di cappelletti è più buono se è mangiato sapendo che siamo amati da Dio, e se siamo in pace con tutti i fratelli. Ovviamente il mistero pasquale è alla radice di queste ultime verità, mentre la soddisfazione tutta naturale di un cibo gustoso si inserisce bene nella vita umana. Il nostro guaio è che spesso ci si ferma solo a questi aspetti esterni, lamentandosi poi quando non riescono come desidereremmo.

La Pasqua ci ricorda invece che c’è una dimensione che entra nella nostra vita e che illumina e dà senso a tutto: viene prima, è più profonda e, pur appartenendo ad un aspetto invisibile, risponde ad un bisogno inespresso ma vero.

Se siamo attenti a tanti aspetti della nostra vita, è facile che venga il sospetto che la vita umana non possa consistere solo nel lavorare, faticare, mangiare, dormire, divertirsi un po’ e poi morire e tutto finisce lì; è troppo forte la spinta a vivere sempre.

Il guaio è che noi abbiamo capito che si debba vivere sempre nella vita temporale, mentre il solo modo per rispondere a questa attesa è la vita soprannaturale. Come sia questa vita è difficile da dire, perché non appartiene alla nostra esperienza; sappiamo però che Gesù risorto è in quella vita, e che noi vivremo come Lui; come vivremo non è stato rivelato, ma sappiamo che c’è. Per ora possiamo accontentarci, ed essere felici.

Senza dire che si vive meglio anche quaggiù. Se uno sa che con la morte finisce tutto, cerca di stare meglio che può qui, a scapito anche degli altri; e se non riesce a raggiungere le sue attese, sta male. Invece uno che sa che la vita vera viene dopo, e che questa è la preparazione a quella, cerca di fare del suo meglio, cerca di vivere nel rispetto degli altri con i quali dovrà vivere per l’eternità; e anche se qui ha delle prove, sa che finiranno, e si entrerà nella vita risorta.

Ecco perché la Pasqua è un motivo di speranza vera per tutti, purché mediante la fede accolgano quello che Gesù ha fatto e insegnato, e si lascino aiutare dai fratelli di fede e dalla grazia dei sacramenti.

OMELIA per la MESSA CRISMALE 2014
Faenza - Basilica Cattedrale, 17 aprile 2014
17-04-2014

L’incontro annuale del Giovedì santo nella Messa crismale che stiamo celebrando come presbiterio diocesano insieme al nostro popolo, ha un significato particolare sia come segno sacramentale, sia come momento spiritualmente molto intenso.

I parroci arrivano a questo giorno con il carico della visita alle famiglie, che per varie settimane li ha impegnati con una fatica fisica a volte ragguardevole, ma anche con il conforto dell’incontro con la propria gente, essendosi resi partecipi delle gioie e delle speranze, delle pene e delle angosce di tante famiglie. Giustamente quella visita è considerata un incontro pasquale di passione e di risurrezione, che in questo Triduo santo ognuno di noi saprà offrire insieme al sacrificio e alla vittoria di Cristo.

Il momento spiritualmente forte che ci è ora offerto è la rinnovazione delle promesse sacerdotali. L’origine della grazia del nostro ministero ha un fondamento che non viene mai meno, ed è il sacrificio del Signore Gesù offerto una volta per sempre; ma è la nostra partecipazione a questo ministero che può avere dei momenti di stanchezza.

Ci viene chiesto di rinnovare l’impegno che fu promesso da noi con giovanile slancio, quando consacrammo la nostra vita al Signore Gesù, sapendo che avremmo trovato tante difficoltà nei nostri limiti e nel contrasto con il mondo, ma anche tante soddisfazioni nella risposta alla sete di Dio che la nostra gente in varie occasioni  manifesta.

Rinnoviamo insieme come presbiterio le promesse fatte personalmente nell’Ordinazione, perché la fedeltà ad esse è legata anche alla comunione che riusciamo a vivere nel corpo presbiterale, nella nostra Chiesa diocesana.  Siamo richiesti con crescente insistenza ad entrare in una conversione pastorale in senso missionario, superando la tentazione del ‘si è sempre fatto così’, conversione che non può essere efficace se non è nello stesso tempo un segno di comunione nella Chiesa per la missione nel mondo.

Chiediamo ai nostri fedeli di pregare seriamente per la nostra conversione e di aiutarci a rinnovare noi stessi nella fedeltà a Cristo e agli uomini del nostro tempo, ai quali vogliamo offrire il nostro servizio con la freschezza della nuova evangelizzazione, nella quale ci sta conducendo Papa Francesco.

I nostri limiti non ci fermeranno, perché prima e più di noi agisce nel nostro ministero Cristo capo e pastore, di cui siamo indegnamente, ma efficacemente sacramento. Siamo stati consacrati con il segno del sacro Crisma, che anche oggi prepariamo in questa liturgia e mediante il quale, oltre a consacrare i bambini nel battesimo e a conformare a Cristo i ragazzi nella Cresima, quest’anno dedicheremo il nuovo altare di questa Cattedrale.

Nel linguaggio simbolico della liturgia l’altare è segno di Cristo, che convoca attorno a sé nell’unità la sua Chiesa; non sarà certo la bellezza o la preziosità di questo manufatto a rendere efficace il nostro ministero, ma ciò che esso rappresenta e significa, e soprattutto Colui che su questo altare si renderà presente per la nostra Chiesa.

Intanto oggi portiamo con noi il ricordo dei presbiteri del nostro clero che il Signore ha chiamato a sé in questo ultimo anno, fra i quali ricordo in particolare il vescovo Silvano Montevecchi.

Siamo anche vicini con la nostra preghiera e il nostro augurio fraterno ai presbiteri che celebrano ricorrenze significative della loro ordinazione: settantesimo anniversario per don Oreste Molignoni, sessantacinquesimo per don Carlo Matulli; sessantesimo per P. Aurelio Capodilista, cappuccino; cinquantesimo per don Mauro Banzola, Mons. Antonio Taroni ; venticinquesimo per don Paolo Bagnoli e don Luca Ravaglia.  Il popolo di Dio lodevolmente farà corona attorno ai suoi preti per ringraziarli in queste occasioni per il bene che hanno profuso con il loro ministero e con la loro generosità. Ricordiamo nella preghiera anche il neo-cardinale Gualtiero Bassetti, nato a Popolano, che ricorda quest’anno il ventesimo della sua ordinazione episcopale.

Preghiamo oggi anche per alcuni nostri confratelli assenti per malattia: il Signore li sostenga e li conforti nella parte più delicata della loro donazione a Cristo, perché si tratta di salire con Lui sulla croce.

Infine un pensiero per i missionari, che hanno avuto le radici nella nostra Chiesa, e che sono stati inviati a dilatare il Regno di Dio: essi sono il segno della forza evangelizzatrice della Chiesa che li ha generati alla fede e che continua a sostenerli con l’aiuto e la preghiera.

Un pensiero affettuoso e pieno di speranza rivolgiamo ai nostri seminaristi che ci consentono di guardare avanti con fiducia: il Signore non ci abbandona. Preghiamo per loro, per le loro famiglie, per i formatori; preghiamo per coloro che il Signore sta chiamando e si trovano nella delicata situazione di rispondere, con la trepidazione propria della loro età. Siamo tutti coinvolti in questa avventura. Le preghiere per le vocazioni al presbiterato che quest’anno vengono chieste, vogliono orientarci con decisione a farci carico anche per il futuro dei sacerdoti che dovranno spezzare il pane e la parola ai piccoli e ai poveri.

Saluto i ministranti, presenti a questa Concelebrazione e li ringrazio per il servizio liturgico che fanno nelle loro comunità. Siate fedeli, perché siete fortunati a seguire le celebrazioni più da vicino, favorendo con il vostro contributo la loro bellezza ed efficacia.

Carissimi sacerdoti, sono ormai dieci anni che condividiamo la vita e le sorti di questa Chiesa di Faenza-Modigliana affidatami dal Signore tramite il Papa Giovanni Paolo II, che la Chiesa si prepara a riconoscere nella santità della sua vita. È un tratto di storia che affidiamo al futuro di questa Chiesa amata e servita con tanti limiti, ma sempre volentieri. Il Signore la benedica e la protegga, e doni a tutti noi la sua misericordia.

In occasione delle elezioni
15-04-2014

Mi preme ricordare che sempre, ma soprattutto in prossimità delle elezioni, non si devono dare i locali della parrocchia (nemmeno se sono in uso a terzi) per iniziative di propaganda politica. Non è una ragione per fare eccezione nemmeno il fatto che in paese non esistono altri spazi. La sensibilità a questo riguardo è a fior di pelle, e non ci devono essere confusioni, perché si finirebbe per portare le divisioni entro la comunità cristiana. Così pure i sacerdoti sono invitati a non prestarsi a iniziative che possono apparire a sostegno dell uno o dell altro schieramento, o di un qualche personaggio politico. La formazione all impegno sociale e politico bisogna farla in tempo non sospetto, e secondo la dottrina sociale della Chiesa.
                                       + Claudio Stagni, vescovo

OMELIA per il Servo di Dio DANIELE BADIALI
16-03-2014

La seconda domenica di Quaresima è sempre caratterizzata dal racconto della Trasfigurazione, il mistero che annuncia la gloria di Cristo nella sua Risurrezione. Ma prima della gloria la Trasfigurazione ci presenta il coinvolgimento  di ogni discepolo che vuole seguire Cristo. Si tratta della risposta alla chiamata di Gesù.

Il primo a rispondere a Dio nella storia della salvezza fu Abramo: ‘Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò’.  Abramo mostra concretamente la sua fede in Dio lasciando la propria patria e andando verso un luogo noto solo a Dio. Anche Gesù chiama a seguirlo quelli che egli vuole e, in un’altra situazione, prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li conduce in disparte, su un alto monte.

San Paolo afferma: ‘Egli ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia’. La vita cristiana è sostanzialmente una continua risposta al Signore che ci ha chiamati e ci chiama, ‘affinché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo’ (Ef 4,13). Il Concilio, nella Lumen Gentium parlerà in modo esplicito della universale vocazione alla santità nella Chiesa.

Tutti santi, ma ognuno secondo il progetto personale che Dio fin dall’inizio ha per ciascuno di noi, lungo un percorso che sarà conosciuto del tutto solo alla fine. E intanto agli apostoli sul Tabor  vengono date alcune indicazioni che, seppure in misura diversa, valgono per tutti.

Gesù mostra la sua gloria insieme a Mosè ed Elia, la legge e i profeti, che, dirà S. Luca, ‘parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme’ (Lc 9,31); è un modo velato, ma non tanto, per dire che è attraverso la croce che si giunge alla gloria.

Pietro voleva rimanere in quella situazione di gioia, ma ‘una nube luminosa copre tutti con la sua ombra’; è la nube che nasconde e rivela la presenza di Dio, nella condizione che ci è concessa ora, finché siamo nel tempo.

E c’è un’altra esigenza ricordata dalla voce che esce dalla nube: ‘Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento.  Ascoltatelo’.

E alla fine gli apostoli, dopo che Gesù li ha invitati a non temere, ‘alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo’. È lui la via che conduce alla vera vita.

Vediamo ora la vocazione nella vita di P. Daniele, come lui l’ha avvertita e come ha cercato di rispondere. È lui stesso che in parte racconta l’inizio del suo cammino, scrivendo al vescovo Tarcisio Bertozzi per chiedere di essere ammesso tra i candidati al diaconato e presbiterato (pag. 83s).

‘Fare la storia della mia vocazione non è facile. Da una parte ritrovo la radice dell’educazione cristiana ricevuta sin da piccolo in famiglia. Questa radice antica la riconosco bene ora a distanza di anni, e mi rendo conto quanto sia stata importante’. Coerentemente insieme al Battesimo i genitori hanno favorito, mediante l’educazione, il percorso di vita cristiana che da esso inizia.

Poi c’è un altro snodo decisivo, che P. Daniele conosce bene. ‘L’altro fattore importante, scrive ancora, è stata l’attività svolta a favore dei più poveri nel movimento giovanile dell’Operazione Mato Grosso iniziata all’età di 16/17 anni. Questo lavoro mi ha portato ad approfondire il senso del donare la vita con i giovani per i più poveri attraverso l’impegno concreto, il lavoro e il sacrificio. Sentendomi chiamato ad una vita di donazione per i più poveri mi sono lasciato vedere da don Ugo De Censi fondatore dell’Operazione, il quale ha intravisto in questo mio desiderio una chiamata del Signore’. Possiamo dire che il Signore aveva preparato il suo agguato per prendere con sé anche Daniele, che ha capito. Anche per lui vale la risposta di Geremia:  ‘Tu mi hai sedotto Signore e io mi sono lasciato sedurre’ (Ger 20,7).

Daniele poi parte per il Perù. ‘In questo periodo di due anni vissuto a Chacas aiutato da don Ugo si è fatto sempre più chiaro in me il desiderio di poter donare la mia vita al Signore come sacerdote in mezzo a quella gente povera’.

Il cammino più impegnativo comincia proprio quando da prete deve fare da padre a tutti coloro che lo cercano e che lui deve aiutare ad incontrare Gesù. La vocazione continua nell’ascoltare Gesù: ‘È una grande fatica restare uniti a Gesù, quando tutto intorno a te va in senso contrario. Bisogna dare via tutto, ascoltare la voce di Gesù e metterla in pratica’ (pag.158).  Scrive ad un amico seminarista: ‘Il Signore ti ha dato la vocazione, il sì dipende da te non da altri’ Io ti assicuro che vale la pena, non cambierei vita, anche se costa sacrifici e penitenze e ci si trova incompresi dal mondo attuale che vuole l’uomo al centro e sempre pronto a godere e a manovrare la propria vita” (pag. 167).

E a un certo punto si chiede: ‘Come fare tornare la nostra gente a Dio?? Quel Dio che ha fatto cambiare la vita ad Abramo, ai profeti, agli Apostoli”(pag. 175).

È molto preso dalla sua missione di parroco, che vive nella responsabilità più profonda, quella di portare le anime a Dio. ‘Così, ora, sono chiamato ad essere padre di questa povera gente’ Non ho scelto io di essere padre, la gente mi chiama padre. Mi ritrovo addosso una parte di cui avverto in pieno la mia incapacità. Come condurre questa gente a Dio? Ma se sono io il più perduto in questo mondo, che tradisce ogni giorno il Dio della vita per false luci che si è costruito da solo credendo di poter fare a meno di Dio! Alla fine sento solo il desiderio di convertire la mia vita per incontrare un giorno Gesù’ (pag. 357s).

Eppure l’esperienza spirituale di P. Daniele non gli fa vedere altro che Gesù; è questo il suo assillo quotidiano, di cui si trova traccia in molte sue lettere.  Scrive: ‘Mi ritrovo col solo desiderio di cercare Gesù e di obbedire alla sua volontà’ (pag. 160); ‘Se non fosse per Gesù non sarei qui’ (pag. 126); e ancora: ‘Ogni passo è fatto solo nel nome di Gesù, perché Lui entri nel nostro cuore, Lui ne sia il padrone’ Sento che solo così posso sperare di incontrarlo alla fine della mia vita! Quanto lo desidero, non vorrei vivere a lungo per non tradirlo più di quanto stia facendo già e per poterlo incontrare presto. Vorrei essere in piedi, vigilante a questo incontro” (pag. 177).

E l’incontro arriverà nel marzo 1997. È l’ultima chiamata. ‘Tu rimani, vado io’ è una scelta di generosità istintiva. P. Daniele sta rispondendo a Dio che in quel momento lo stava chiamando, come fece un giorno con Abramo e con tutti i suoi discepoli: ‘Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela, dai tuoi amici verso la terra che ti indicherò, verso la patria che è nei cieli”

E padre Daniele partì, come gli aveva ordinato il Signore.

OMELIA per la GIORNATA MONDIALE della PACE (1 gennaio 2014)
01-01-2014

2014 gennaio 1 Giornata della pace

 

‘ Gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo’. Gesù, cioè Salvatore, ‘egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati’ (Mt 1,21).

 

La solennità della Maternità divina di Maria ci porta ogni anno a celebrare la Giornata della Pace, è un modo molto concreto di vedere le conseguenze del mistero di Dio nella nostra vita.

 

‘Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio nato da donna’ perché ricevessimo l’adozione a figli’. Il Figlio di Dio è nato da una donna, la Vergine Maria, per diventare nostro fratello. Papa Francesco ha titolato il suo primo messaggio: ‘Fraternità, fondamento e via della pace’. Possiamo dire che è ripartito dall’inizio, dal progetto di Dio sull’uomo, per il bene di ogni persona e di tutta l’umanità. Poi nella seconda parte dello stesso messaggio verranno ricordate conseguenze più particolari; ma se vogliamo mettere un fondamento vero alla pace, in modo che resista ad ogni insidia, si deve riscoprire il vero rapporto tra di noi e con Dio.

 

Riascoltiamo la prima riflessione del Papa nel suo messaggio: ‘La fraternità è una dimensione essenziale dell’uomo, il quale è un essere relazionale. La viva consapevolezza di questa relazionalità ci porta a vedere e trattare ogni persona come una vera sorella e un vero fratello; senza di essa diventa impossibile la costruzione di una società giusta, di una pace solida e duratura. E occorre subito ricordare che la fraternità si comincia ad imparare solitamente in seno alla famiglia, soprattutto grazie ai ruoli responsabili e complementari di tutti i suoi membri, in particolare del padre e della madre. La famiglia è la sorgente di ogni fraternità, e perciò è anche il fondamento e la via primaria della pace, poiché, per vocazione, dovrebbe contagiare il mondo con il suo amore’.

 

La riflessione sulla fraternità incomincia dall’esperienza viva di questa condizione: fratelli si nasce in famiglia, e in famiglia si impara a vivere da fratelli. Il disegno di Dio su ciascuno di noi, pur avendo come fine la salvezza e la felicità personale, ci mette subito nella situazione concreta di farci crescere insieme come fratelli, imparando a vivere in relazione nella famiglia, per riuscire poi a vivere in relazione nella società.

 

Contro questa realtà c’è l’individualismo e l’egoismo dell’uomo. Su di essi si costruiscono l’invidia, l’ingordigia, la lotta per possedere sempre di più e in ultima istanza la guerra.

 

Continua il Papa: ‘Appare chiaro che anche le etiche contemporanee risultano incapaci di produrre vincoli autentici di fraternità, poiché una fraternità priva del riferimento ad un Padre comune, quale suo fondamento ultimo, non riesce a sussistere. Una vera fraternità tra gli uomini suppone ed esige una paternità trascendente. A partire dal riconoscimento di questa paternità, si consolida la fraternità tra gli uomini, ovvero quel farsi ‘prossimo’ che si prende cura dell’altro’. Non per niente Gesù ci ha insegnato a pregare Dio chiamandolo ‘Padre nostro’.

 

Si capisce allora perché ci sia un gran d’affare per negare l’esistenza di Dio da parte dei potenti di questo mondo, per essere liberi nel perseguire i propri interessi: sfruttamento dei paesi poveri, eliminazione di quanti pretendono di avere la loro parte alla tavola del mondo, sfruttamento delle risorse naturali di materie prime e di energia, fino all’uso della guerra.

Infatti il Papa si chiede: ‘Gli uomini e le donne di questo mondo potranno mai corrispondere pienamente all’anelito di fraternità, impresso in loro da Dio Padre? Riusciranno con le loro sole forze a vincere l’indifferenza, l’egoismo e l’odio, ad accettare le legittime differenze che caratterizzano i fratelli e le sorelle?’. E trova la risposta nelle parole di Gesù: ‘Poiché vi è un solo Padre, che è Dio, voi siete tutti fratelli (cfr Mt 23,8-9). La radice della fraternità è contenuta nella paternità di Dio. Non si tratta di una paternità generica, indistinta e storicamente inefficace, bensì dell’amore personale, puntuale e straordinariamente concreto di Dio per ciascun uomo (cfr Mt 6,25-30). Una paternità, dunque, efficacemente generatrice di fraternità, perché l’amore di Dio, quando è accolto, diventa il più formidabile agente di trasformazione dell’esistenza e dei rapporti con l’altro, aprendo gli uomini alla solidarietà e alla condivisione operosa’.

In questo modo si trova la via della pace, che parte dalla conversione del cuore dell’uomo, per arrivare al cambiamento della società e delle sue strutture, fino ad un rapporto di fraternità tra i popoli.  Non sembri troppo utopistica questa prospettiva, perché pur essendo vero che la perfezione della carità si potrà raggiungere solo nel Regno dei cieli, è vero che c’è un lungo cammino di avvicinamento che è affidato anche a noi, con l’aiuto di Dio.

Il Papa poi affronta alcuni temi precisi, nei quali viene chiesta la nostra solidarietà fraterna: sconfiggere la povertà; ripensare ai modelli di sviluppo economico e a un cambiamento negli stili di vita; rinunciare alla via delle armi e andare incontro all’altro con il dialogo, il perdono e la riconciliazione; superare la corruzione, la diffusione della droga, il traffico degli esseri umani, l’abuso contro i minori, la schiavitù, la tragedia dei migranti; custodire e coltivare la natura a beneficio di tutti, comprese le generazioni future.

‘Una convivenza fondata soltanto sui rapporti di forza non è umana’L’uomo però si può convertire e non bisogna mai disperare della possibilità di cambiare vita’. Anche Dio ha fiducia di riuscire a cambiare il cuore dell’uomo: ‘E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio’ Quindi non sei più schiavo, ma figlio’.

Non siamo cioè più schiavi di noi stessi, del nostro egoismo, delle ambizioni perverse che sfruttano gli altri, delle nostre cattiverie, se ci lasciamo guidare dallo Spirito di Cristo.

Maria, Madre del Figlio di Dio e nostra madre, ci aiuti a vivere sempre da veri fratelli tra noi. La testimonianza che i discepoli di Cristo devono dare al mondo, potrà essere l’inizio del realizzarsi della speranza che è nata con la venuta del Salvatore. Continuiamo a invocare: ‘Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace’.

 

OMELIA del NATALE del SIGNORE (sintesi)
Faenza - Basilica Cattedrale, 25 dicembre 2013
25-12-2013

La nascita del Signore ci ha fatto conoscere la bontà e l’amore di Dio per noi. Di fronte a certi fatti a volte noi ci vergogniamo di essere uomini: Dio non si è vergognato di farsi uomo e di mescolarsi tra di noi. Questo vuole anche dire che la natura umana è capace di accogliere Dio: noi cioè possiamo diventare figli di Dio. ‘A coloro che lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio’, dice S. Giovanni. Quindi il nostro problema è solo quello di accoglierlo, di lasciarlo abitare nel nostro cuore, cioè nelle facoltà che ci conducono alla verità e all’amore.

Lasciare fare a Dio nell’indicarci ciò che è bene o è male, ciò che è vero o è falso non significa limitare la nostra libertà, ma affidare la nostra libertà a colui che sa benissimo che cosa stiamo cercando, e vuole impedirci gli errori che abbiamo sempre fatto. Anche perché i nostri errori possono causare sofferenze in tanti altri, quasi non bastassero quelle che vengono da sole.

Pensiamo alle difficoltà dei nostri giorni, che sono sotto gli occhi di tutti. Le più evidenti sono quelle economiche per molte famiglie: la perdita del lavoro, la chiusura delle aziende, la diminuzione di disponibilità finanziaria. Poi ci sono le malattie gravi, i tumori, le malattie della vecchiaia, gli incidenti. Il Natale ci fa sentire il contrasto con queste situazioni, segno che avvertiamo che il Signore è venuto proprio per liberarci da tutti i mali.

Noi preferiremmo non avere bisogno di essere aiutati, perché questo comporta sempre una certa umiliazione. Ma forse si tratta di vedere come il Signore vuole liberarci.

Il nostro primo istinto è quello di reagire cercando di superare le difficoltà che si presentano; e questo fa parte del nostro modo naturale di reagire: non bisogna lasciarsi sopraffare, servendoci dei mezzi di cui possiamo disporre. Questo modo del resto può anche rafforzare la nostra volontà e renderci più resistenti di fronte a nuovi problemi.

Ma vi sono anche limiti e fatiche che non si riescono a vincere, e in questi casi è importante vedere se queste esperienze non possano avere un significato che a noi, fino a quel momento, era sfuggito. È questo un cammino più delicato, ma molto prezioso. In fondo è quello che ha fatto il Signore facendosi uomo per salvarci dal peccato e dalla morte.

Quando facciamo dei sacrifici, stiamo aiutando il Signore a salvare noi e il mondo. Forse non ce ne accorgiamo e facciamo fatica a capire, ma Lui lo sa e questo dovrebbe bastare.

La sofferenza e il dolore, anche se a volte possono suscitare una ribellione, dovrebbero però farci diventare più buoni, perché vediamo quali sono le cose davvero che contano: la pace, l’amore, il perdono, la speranza’ Chiediamo questi doni al Signore Gesù, perché il Natale porti i suoi frutti più preziosi.