Author: pasienrico

Via crucis per le donne crocifisse

Faenza, venerdì 8 marzo 2019

La via Crucis per le donne crocifisse che si celebra questa sera vuol’essere un segno di solidarietà e di preghiera in favore delle donne vittime di tratta, prostituzione. Avviene in coincidenza con la giornata della donna che, a sua volta, vuole ricordare come nella storia umana, benché abbia un ruolo specifico e fondamentale nei confronti della vita, dello spirito e della cultura, la donna spesso viene calpestata nella sua dignità e impedita di dare il suo apporto decisivo.

La violenza sulle donne è strada di umiliazione dell’umano. Più che offesa dei diritti è offesa della donna in quanto persona nella sua unità di corpo e spirito, strettamente congiunti. È autolesionismo antropologico e umanitario. È offendere l’umanità stessa, fatta da due metà di cielo, che sono complementari, chiamate ad integrarsi e a sostenersi mutuamente. Se la metà del cielo che è la donna, con il suo genio femminile, è resa schiava, viene considerata come un mero strumento per l’altra metà, e addirittura è sottoposta alla tratta, umiliata, anche l’altra metà dell’umanità ne subisce gravissimo danno: viene impoverita, imbarbarisce, degrada. Finisce la comunione interpersonale, il mutuo aiuto nella reciprocità, la pari dignità, l’uguaglianza, che è alla base di uguali diritti. Dove c’è schiavitù non c’è umanità e civiltà. Senza donne libere e responsabili, l’umanità, come ogni frutto buono ad essa collegato, è pregiudicata. Viene meno: l’essere donna secondo pienezza, nella molteplicità delle modalità; la maternità libera e responsabile; la maternità spirituale della donna vergine; la famiglia, basata sull’unità di un «noi» ove vige l’uguaglianza nella ricchezza della diversità dei sessi; la tenerezza che custodisce e fa fiorire; la pace, che è soprattutto donna; la generazione della vita sotto il cuore di una madre e, con essa, la gioia di essere amati.

Nessuno ha il diritto di togliere la dignità all’altro, alla donna. Chi lo fa – specie se colei che si fida di chi dovrebbe esserle di aiuto viene spogliata del suo essere umano e ridotta a cosa -, è spietato, disumano, vigliacco. Tutti hanno diritto alla vita, ad una vita dignitosa e piena. Preghiamo e lavoriamo perché questi diritti siano considerati, da parte di tutti, doveri. Non dimentichiamo che l’umanità, nell’unità delle due metà che la costituiscono, è destinata alla maternità di un genere umano che supera se stesso, a generare più che se stesso, ossia Dio. Maria, Madre di Dio, ci aiuti.

+ Mario Toso

Mercoledì delle ceneri

Faenza, basilica cattedrale 6 marzo 2019

Cari fratelli e sorelle, eccoci all’inizio di una nuova Quaresima, cioè 40 giorni per rinnovarci in Cristo, per partecipare più profondamente alla passione d’amore del Figlio di Dio, per vivere una vita da risorti, ossia da persone vittoriose sul peccato e sul male. La Quaresima è quel periodo che la Chiesa ci mette a disposizione per preparare una nuova primavera per le nostre vite e per le nostre comunità, per portare frutti sul piano dell’annuncio, della catechesi, della testimonianza, della carità.

Il pianto per i peccati, il digiuno – la legge del digiuno “obbliga a fare un unico pasto durante la giornata, ma non proibisce di prendere un po’ di cibo al mattino e alla sera: alla legge del digiuno sono tenuti tutti i maggiorenni fino al 60° anno iniziato; la legge dell’astinenza proibisce l’uso delle carni, come pure dei cibi e delle bevande che, ad un prudente giudizio, sono da considerarsi particolarmente ricercati e costosi; i1 digiuno e l’astinenza, nel senso sopra precisato, devono essere osservati il Mercoledì delle Ceneri e il Venerdì della Passione e Morte del Signore Nostro Gesù Cristo; l’astinenza va osservata in tutti i singole venerdì di Quaresima -, l’elemosina, la preghiera a cui siamo invitati, sia dal profeta Gioele sia dal Vangelo di Matteo, non sono fine a se stessi, bensì sono funzionali a metterci maggiormente in comunione con chi è l’Uomo Nuovo, cioè Gesù Cristo, e con la sua incarnazione, per far nuove tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra. La Quaresima è per la Pasqua, perché diventiamo persone risorte, vittoriose sul male; perché collaboriamo a rendere attuale quell’incarnazione di Cristo che deve portare, mediante noi, una umanità nuova nelle famiglie, nelle scuole, nelle istituzioni, nella politica e nell’economia, nella cultura.

Il profeta Gioele ci sollecita ad un cammino di conversione personale e comunitaria. Tutti – piccoli e grandi, presbiteri, christifideles laici, religiosi e religiose, famiglie e comunità parrocchiali – siamo chiamati a ritornare a Dio con il cuore, e non con pose, non con atteggiamenti teatrali, con gesti meramente esteriori. Occorre cambiare, prima di tutto il centro della nostra persona, i nostri pensieri, la mentalità, i sentimenti e, poi, le azioni nei confronti di Dio e del prossimo. In sostanza dobbiamo diventare persone sempre più buone dentro. Dobbiamo essere giusti non per essere ammirati, per ricevere il plauso degli altri, la loro approvazione. Il bene va compiuto non per interesse, bensì perché il bene  è bene. La nostra perfezione morale e spirituale sta nell’attuare il bene per amore di Dio, non perché ce ne viene un tornaconto.

L’elemosina, ossia la nostra offerta a Dio e ai poveri, non va praticata facendoci pubblicità, facendo suonare la tromba per attirare l’attenzione della gente. Gesù, invece, chiede addirittura il distacco della stessa persona dal suo gesto, perché l’offerente diventi ignoto, sconosciuto al pubblico. Il gesto dell’elemosina dev’essere esclusivamente per amore del Padre. Così, il Signore esorta a non pregare pubblicamente, come fanno gli ipocriti, in piedi nelle chiese, agli angoli delle piazze, per farsi vedere e ricavarne una buona reputazione. Egli esorta, piuttosto, a pregare nel segreto della propria stanza, per aprire il cuore al Padre, perché Lui veda ciò che è nascosto in esso. La preghiera dev’essere destinata soltanto a lodare e a supplicare il Padre, a consegnare il cuore a Lui, non a fare mostra di sé. Cristo non si oppone certamente alla preghiera pubblica, ma alla sua strumentalizzazione, per farsi ammirare. Dio non ascolta coloro che usano tante parole e ripetono preghiere all’infinito, perché Egli sa ciò di cui abbiamo bisogno prima ancora che apriamo bocca. Non bisogna forzare la mano al Padre con molte preghiere e gesti. Si tratta, invece, di aprirgli il cuore e di avere fiducia in Lui. Anche il digiuno va vissuto nel «nascondimento», al pari dell’elemosina e della preghiera. Quando si digiuna non si deve mostrare un volto emaciato, assottigliato, per far capire agli altri quanto soffriamo. L’importante è invece che digiunando ci ricordiamo di Dio e gli facciamo spazio nella nostra vita.

Si è detto che Gioele invita sia i singoli sia il popolo intero alla conversione, nell’immedesimazione con il con l’Uomo Nuovo, venuto in questo mondo per realizzare una nuova creazione. Cosa vuol dire, più in concreto, che il popolo intero deve convertirsi e partecipare alla Pasqua di Gesù Cristo? Significa che come comunità diocesana siamo chiamati a partecipare, con tutte le componenti che la costituiscono – associazioni, aggregazioni, unità pastorali, consigli, vicariati, parrocchie – alla missione di Gesù. Egli è venuto per redimere, per divinizzare l’umanità, per realizzare una umanità in comunione con Dio Padre. In tale maniera, il Signore Gesù fa dell’umanità un popolo nuovo, un popolo di pellegrini che, mentre camminano verso la città celeste, trasfigurano la terra che attraversano. La presenza del Figlio di Dio in mezzo a noi ci costituisce fermento del Padre nella storia.

Dunque, la quaresima è un periodo di conversione anche per la nostra Diocesi che, per essere maggiormente a servizio dell’incarnazione di Gesù Cristo, deve impegnarsi ad essere sempre di più famiglia di persone sante ed immacolate, viventi nella carità. La nostra Diocesi è chiamata non a diminuire il proprio ardore nella missione, bensì a continuare la gloriosa tradizione di santità che l’ha caratterizzata nei secoli scorsi, ma anche la tradizione di liberazione e di umanizzazione del sociale.

La quaresima, vissuta con spirito di umiltà, dovrebbe, pertanto, rendere la nostra Diocesi una Chiesa più bella, gioiosa, audace, capace di incidere nel territorio, sulla cultura, sulle leggi. Per raggiungere simili traguardi occorre che, mediante conversione, ritorniamo a riscoprire la nostra appartenenza a Cristo, a creare nuova cultura partendo dal nostro vivere Cristo. Senza la chiara e lucida consapevolezza di essere di Cristo, di essere suoi, non possiamo trasfigurare l’umano, non possiamo generare nuovi umanesimi e aiutare la vita sociale a rimanere  entro l’alveo di un’esistenza morale e civile.

Il segno austero delle ceneri che saranno poste sul nostro capo è monito severo che ci ricorda la nostra radicale fragilità. Siamo su questa terra come pellegrini, incamminati verso un altro mondo. Non abbiamo qui una dimora permanente. Per le stesse ragioni le ceneri sono invito a vivere con coerenza la nostra identità, la nostra missione: essere Chiesa del Verbo incarnato; prolungare la sua incarnazione affinché possa proseguire la sua opera di redenzione e di trasfigurazione delle persone e delle cose. Abbiamo bisogno dello Spirito di Gesù che ci accompagni nel deserto per vincere le tentazioni, il loro attacco ad una vita d’amore. Il combattimento spirituale, il digiuno, la preghiera siano un’ascesi che ci trasforma non in persone tristi, bensì gioiose nel dono pieno di noi stessi.

+ Mario Toso

Incontro di preghiera per animatori: profilo dell’animatore

Russi, 1 marzo 2019

  1. Premessa

Care giovani animatrici ed animatori, benvenuti in questa Chiesa dedicata alla Madonna dei sette dolori. Questa sera riceverete un mandato, come lo ricevettero i discepoli del brano evangelico che avete ascoltato (cf Mt 28, 16-20). Sentivi, pertanto, scelti per un  grande impegno: essere per gli altri, specie per i ragazzi e le ragazze che incontrerete la prossima estate nei campi dei Grest, dei Cre, ma non solo. Con essi, per essi vivrete un’esperienza di servizio. Sarete Chiesa giovane per i più piccoli, per farli divertire, pregare, rendendoli più capaci di fare il bene. Questa sera ci fermeremo a fare alcune riflessioni sulla figura dell’animatore. Dapprima tenteremo di dire cosa non è l’animatore, ossia lo definiremo per via negativa. In un secondo momento ne parleremo definendolo positivamente.

  1. Il profilo dell’animatore

 

  • Partiamo da cosa non è

L’animatore non è l’animatore di un villaggio turistico, con il compito di intrattenere e coinvolgere gli ospiti in attività di gioco, di divertimento, di ginnastica, semplicemente per rendere il soggiorno più piacevole.

L’animatore non è nemmeno colui che occupa il proprio tempo in attività del tempo libero con lo scopo di raggranellare dei soldini, per vivere più dignitosamente.

Non è uno alla ricerca della propria autorealizzazione, quanto piuttosto si sente impegnato a far crescere gli altri umanamente e cristianamente.

Non è una persona spenta, sbiadita, demotivata, cupa, semmai uno che è appassionato e amante della vita, colmo di gioia che contagia.

Non è una persona che accentra tutto su di sé e considera i ragazzi e le ragazze come persone da selezionare e legare a sé, rendendole quasi una sua proprietà, funzionali alla sua felicità.

  • Definizioni positive dell’animatore

L’animatore è:

  • una persona che desidera donarsi, impegnarsi, perché i più piccoli possano crescere gioiosi e divenire, a loro volta, capaci di dono, gioiosi. Pertanto, è uno che sa accogliere, coinvolgere, fa giocare, organizza varie attività, responsabilizza, crea un ambiente sereno, di amicizia, famigliare.
  • una persona che sa operare insieme ad altri, sa fare squadra con gli altri animatori. Tutti insieme gli animatori condividono sogni, un progetto, uno Spirito: vivono assieme il più possibile, organizzano le giornate, ne verificano lo svolgimento, si riservano momenti di preghiera e di riflessione, di incontro vero con Gesù il Signore, per offrirsi a Lui, per mettersi a sua disposizione con entusiasmo, sull’esempio di Colei che all’invito dell’angelo rispose con un «Eccomi!».
  • una persona che si coltiva, si prepara, vuole essere «professionale», anche nell’organizzare un gioco, nell’arbitrare, nel comunicare. È fedele alla parola data, sa relazionarsi con le famiglie, con la parrocchia. Non ama la mediocrità, non fa sconti immotivati sull’impegno. Sa correggere in bel modo, senza offendere, senza scoraggiare, bensì spronando.
  • una persona che sente di avere delle responsabilità È cosciente che gli sono affidate altre persone che devono crescere nella libertà, nella fraternità, nell’amicizia, nella fede.
  • Ha il senso dell’appartenenza alla propria comunità parrocchiale e civile. Sente il dovere di agire a nome e per conto di essa.
  • Sa essere persona di speranza, che ha sempre fiducia nei ragazzi, anche quelli che sembrano meno dotati per questa o quell’altra attività o disciplina. Sa scorgere le doti positive di ognuno e mette ciascuno in condizione di svilupparle.
  • Non perde il contatto con Colui che lo manda, e lo ama colmando ognuno del suo amore perché ne diventi annunciatore, dispensatore.
  • Coltiva il metodo educativo preventivo – si tratta di un metodo che non è repressivo, ossia che fa ricorso alle punizioni, bensì crea le condizioni affinché i ragazzi non siano attratti dal male ma dalla bellezza del bene -, come quello di don Bosco, stando in mezzo ai giovani, con simpatia, ascoltando quanto i ragazzi confidano, chiedono, impegnandoli intensamente. Non raramente i ragazzi e le ragazze che si ha l’opportunità di incontrare provengono da famiglie che non hanno sempre il tempo per l’ascolto, per dare quelle risposte che i ragazzi si attendono. L’animatore è colui che può darle, specie se è un educatore preparato.
  • Si impegna a comunicare il suo affetto, con amorevolezza, senza essere appiccicaticcio. Don Bosco soleva ripetere che non basta amare i giovani. Occorre che loro si accorgano di essere amati. Il suo metodo, non a caso, poggiava sul trinomio: ragione, religione, amorevolezza. Un tale trinomio va rivalutato e reinterpretato proprio nell’attuale contesto socio-culturale che tende ad emarginare la ragione pensante. Oggi domina, infatti, la ragione calcolante, strumentale, mentre dovrebbe vigoreggiare una ragione riflessiva, sapienziale.
  • Ricerca quel punto accessibile al bene che c’è in ogni ragazzo, anche il più irrequieto e monello. Facendo leva su quel punto si guadagna la fiducia dei ragazzi. Per questa via don Bosco ha saputo trasformare dei giovani sfaccendati, volgari e rissosi in giovani apostoli.

Cari giovani, molti di voi non sono alla prima esperienza. Hanno già partecipato a dei Grest o a dei Cre. Altri di voi è la prima volta che si impegnano a diventare animatori. Questo, a dire il vero,  è il terzo incontro formativo. Forse, lo riconoscete anche voi, è troppo poco. Però, da qui all’estate c’è ancora tempo per continuare la preparazione, per pregare. Fatevi aiutare dai vostri formatori e anche dai vostri parroci. Il Signore Gesù vi accompagni. Sappiatelo incontrare nell’Eucaristia, nel sacramento della riconciliazione. Diventate sempre più innamorati di Gesù Cristo. Solo così riuscirete ad innamorare i vostri ragazzi di Lui.

+ Mario Toso

San Pier Damiani 2019: assemblea diocesana

Faenza, Basilica cattedrale 21 febbraio 2019

Benvenuti a questo momento ecclesiale di incontro e di riflessione anzitutto sulla figura di san Pier Damiani e, poi, sul Report che è il risultato di una preparazione voluta per accompagnare l’indizione e la celebrazione del Sinodo diocesano dei giovani. Abbiamo ritenuto che questo 21 febbraio, giorno della nascita al cielo di san Pier Damiani, fosse il più indicato per la presentazione e la consegna di tale Report sulla condizione giovanile nel ravennate e nella nostra Diocesi!

Si tratta di un momento vertice per il Sinodo dei giovani: Sinodo della Chiesa locale con i giovani, per i giovani. Come appena detto verrà presentato e consegnato, in particolare, il Report avente come titolo Prove di sintonia. Giovani e Chiesa in un’interpretazione sinodale (libreria universitaria.it edizioni, Limena 2019). Esso raccoglie i risultati dell’indagine condotta dall’Istituto Universitario Salesiano di Venezia con l’aiuto dei nostri responsabili della pastorale vocazionale e giovanile e degli stessi giovani della Diocesi, specie nei momenti di focus group. Dall’indagine, strutturata come specifica fase di ascolto, attraverso tre azioni di ricerca (survey telefonico, focus group, questionario a campionatura), è derivato il suddetto Report, che avrete fra poco tra mano. Esso non è riducibile a mero ed asettico studio sociologico. È qualcosa di più. Infatti, si tratta di un lavoro ministeriale agli obiettivi del Sinodo, che nasce dalla sollecitudine pastorale della nostra Chiesa di Faenza-Modigliana. E ciò a partire dall’urgenza del rinnovamento dell’approccio ai giovani, al fine di  responsabilizzarli nell’essere Chiesa per i giovani, giovani per i giovani. Proprio per questo non va accolto come uno strumento qualsiasi, che riguarda genericamente più diocesi. Esso riguarda la nostra, in specie. Va accolto, dunque, come una testimonianza di vita ecclesiale, colta nei suoi aspetti positivi ma anche in quelli critici. Non va considerato una mera descrizione del dato di fatto, ma anche delle esigenze e delle opportunità di  evangelizzazione e di riorganizzazione delle pastorali vocazionale e giovanile. Pertanto, il Report non va preso in consegna per essere riposto nella piccola biblioteca parrocchiale o di famiglia per abbellire l’ambiente. Esso va tenuto sul proprio tavolo di lavoro. Va spesso consultato, letto in gruppo, studiato, presentato e spiegato ai catechisti, agli animatori, ai formatori, ai responsabili delle associazioni, aggregazioni. Va, in certo modo, seminato e incarnato nel territorio. Cari giovani, dovete, allora, utilizzarlo come uno strumento di lavoro pastorale e pedagogico, per rendere il vostro compito di costruttori della Chiesa e della società più appropriato, commisurato alla stessa realtà dei giovani, ai bisogni delle famiglie, delle comunità parrocchiali, delle associazioni, degli Uffici pastorali diocesani, degli Oratori.

Desidero fin d’ora ringraziare tutti coloro che, in un modo o nell’altro, hanno collaborato alla realizzazione dell’indagine, sino alla stampa del volume, che appare agile e fruibile. In fondo al volume vi è un elenco delle persone che meritano un ringraziamento particolare, ma questa è anche l’occasione per ringraziare tutti, senza dimenticare nessuno, per la partecipazione appassionata e convinta.

 

Ho detto poco fa che la presentazione del Report è stata voluta in coincidenza con l’anniversario della morte di san Pier Damiani. Infatti vi sono più ragioni che ci inducono a farlo. Ne ricordo due. Anzitutto, perché non solo fu un grande protagonista del rinnovamento della Chiesa dei suoi tempi, mediante l’organizzazione e la promozione della vita eremitica, fondando nuovi eremi e monasteri nelle Marche, nell’Umbria, nella Toscana e nella nostra Romagna. Ai suoi occhi il monachesimo ordinario appariva come un minimum, una via larga. Al contrario, l’eremitismo rappresentava per lui la via stretta e difficile, a cui allude il Vangelo. In secondo luogo, perché in lui la vocazione alla vita di solitudine, avente come obiettivo l’accrescimento del desiderio di Dio – l’eremita, al dire dello stesso san Pier Damiani, punta a diventare intimo di Cristo, ad accoglierlo nella sua cella, a tendere sempre di più verso di Lui – gradualmente sfocia nell’amore per la Chiesa, in un impegno assiduo per renderla più bella e santa, luce del mondo. E così, lui eremita, divenne anche iniziatore e promotore di un potente movimento di riforma della vita dei vescovi, del clero, oltre che dei christifideles laici. Detto altrimenti,la crescita spirituale, guadagnata nell’eremo lo aprì all’amore per la Chiesa, lo fece sentire Chiesa, parte di essa. Egli, eremita, amante della vita solitaria, sentì in sé un apparente contradditorio impulso ad interessarsi della vita della Chiesa, il cui popolo vive seminato nei villaggi, nelle città. E così intraprese lunghi viaggi, entrò nelle curie, nelle corti imperiali, nelle metropoli ove pulsava la vita commerciale e politica del suo tempo.

Per amore della sua Chiesa, seppur tra ripensamenti, accetta la nomina a cardinale vescovo di Ostia, compie diverse missioni di pace, di ricomposizione della comunione di città, vescovi, imperatori con la Sede di Pietro. San Pier Damiani, dunque, non si limitò a condurre una vita di preghiera e di penitenza nella solitudine, per assecondare la sua inclinazione mistica.

Obbedendo al Papa, che lo chiamava a servire la Chiesa fuori dall’eremo e a dirimere importanti questioni ecclesiali e civili, ci insegnò la via della pienezza della vocazione cristiana. Questa non consiste solo nel rimanere statici in ciò che ci è più congeniale e scegliamo all’inizio della nostra giovinezza. Nella vita cristiana occorre essere disponibili ad andare ove Dio chiama, ad obbedire ai successori degli apostoli. Ci può essere, cioè, il momento in cui, anche attraverso il discernimento ecclesiale, occorre essere pronti a partire, a far “esodo”, a uscire dalla propria terra di elezione, come fece Abramo, nostro padre nella fede.

 

Cari giovani sinodali, ecco allora un grande insegnamento che deriva dalla riflessione sulla vocazione e sulla vita di san Pier Damiani. Urgenze della storia e chiamata ecclesiale, sono le coordinate di una vocazione autentica, che superano i nostri gusti personali, le nostre inclinazioni prime. Spesso siamo concentrati sulla crescita del nostro «io», sull’autorealizzazione. La maturità cristiana passa, invece, attraverso l’essere disponibili a servire Cristo anche là ove uno non avrebbe mai pensato di andare. In linea con quanto detto potrebbe essere che il vescovo di una diocesi convochi e, mediante responsabilizzazione, invii dei giovani ben preparati in missione, in una parrocchia diversa dalla propria, a svolgere il ministero del catechista.

San Pier Damiani non rimane ancorato alla forma della vocazione coltivata agli inizi, facendola diventare un assoluto: o così o niente. Obbedisce al successore di Pietro, ossia papa Stefano IX – al papa era stato consigliato di far leva sul punto debole di Pier Damiani: l’obbedienza -, senza peraltro rinnegare la sua vocazione monastica primigenia: diventa attivo rimanendo, però, interiormente contemplativo, lì ove era chiamato.

Benedetto XVI scrisse che san Pier Damiani è stato uno dei più grandi riformatori della Chiesa: “egli si consumò, con lucida coerenza e grande severità, per la riforma della Chiesa del suo tempo”. Le parole di papa Benedetto ci fanno comprendere che la prima grande riforma, è avvenuta in lui stesso. Ha accettato come uomo e come monaco cristiano, attraverso l’obbedienza alla chiamata del Signore, a «riformarsi», ad accogliere dalle mani del Signore una «nuova forma» di vita.

 

Tutti noi, giovani, adulti, anziani, religiosi e religiose, diaconi e presbiteri, abbiamo bisogno di uscire da noi stessi, dai nostri particolarismi, dalle nostre presunte “missioni”, per il bene della Chiesa.

Abbiamo bisogno di metterci in profondo ascolto della volontà del Signore. Questa sera lo stiamo facendo. Mediante il Sinodo cerchiamo di capirla e di accoglierla, per vedere la direzione della missione, del cambiamento che ci indica Cristo, che è Verbo incarnato per essere la nostra Via e Verità.

 

Il suo Spirito d’amore ci porterà, allora, in direzioni nuove e sconosciute, forse non scelte all’inizio del nostro impegno ecclesiale. L’importante è che siano scelte in comunione con la Chiesa, con Gesù Cristo. Accogliamo con amore Lui, l’unica via di una piena maturità umana e di una conversione alla vera riforma personale ed ecclesiale. Conformiamoci a Cristo, l’uomo nuovo, l’uomo che donandosi fino alla morte inaugura la grande riforma dell’umanità e della storia.

 

Non è, forse, così la vita di ogni uomo e donna che accoglie un figlio, che cerca un lavoro, che fatica, che gioisce, e affronta le belle e brutte sorprese della vita? Esse sono la mano provvidente del Padre che cura i suoi figli per farli crescere secondo la piena maturità di Cristo. Le sfide storiche e gli orientamenti ecclesiali, che emergeranno alla conclusione del Sinodo saranno la mano del Padre che ci condurrà, come ha fatto con Pier Damiani, alla piena maturità umana e cristiana. Ad essa aneliamo intimamente, anche se non sempre coscientemente.

Concludiamo con una breve preghiera: «San Pier Damiani, intercedi per noi. Insegnaci a desiderare la gioia piena. Vivendo in  piena comunione con Cristo e la sua Chiesa affrontiamo le sfide del nostro tempo alla luce del Vangelo perché diventino vie della nuova evangelizzazione della nostra Comunità ecclesiale di Faenza-Modigliana».

+ Mario Toso

Vescovo di Faenza-Modigliana

Anniversario dell’istituto salesiano Rainerum a Bolzano

Chiesa di san Domenico, Bolzano 9 febbraio 2019

Caro sig. Ispettore don Igino Biffi, caro Direttore don Ivan Ghidina, cari confratelli, personale docente, educatori e giovani, la celebrazione degli 80 anni di presenza dei salesiani a Bolzano presso l’Istituto Salesiano Maria Ausiliatrice-Rainerum Salesiani Don Bosco è l’occasione per ringraziare Dio Padre per il bene compiuto grazie al suo aiuto in questo territorio. È l’occasione, inoltre, per riflettere sul prezioso tesoro di santità e sul prodigio di pedagogia che è san Giovanni Bosco, padre e maestro dei giovani. In teatro, di fronte a salesiani che in passato hanno operato in questa istituzione e agli ex-allievi, abbiamo già assistito alla parte commemorativa, grazie anche ad una ricerca storica messa a punto dai giovani del terzo anno della scuola superiore (2017-2018) in collaborazione con varie istituzioni cittadine, aiutati dal prof. ing. Luigi Coffele. Qui ci fermiamo, in particolare, a rivivere, alla luce della Parola di Dio e della tradizione salesiana, il carisma don boschiano, nel contesto del nostro tempo, spesso caratterizzato da «giorni nuvolosi e di caligine» (cf Ez 34, 11-31) per noi e per i nostri giovani. Esso si presenta a noi come attualissimo, indispensabile per continuare il servizio della Congregazione salesiana alla Chiesa e alla società, specie alle nuove generazioni.In un clima culturale, che esalta la comunicazione e le interconnessioni, e che tuttavia ci porta, ad abitare paradossalmente mondi frammentati, di profonde solitudini – mondi tanto più fluidi e di spaesamento valoriale quanto più le identità sono miscelate, destrutturate -, comprendiamo la rilevanza e l’importanza di ambienti educativi e comunicativi ispirati dalla sapienza cristiana. Don Bosco ne comprese l’essenzialità già due secoli fa. Non a caso è andato incontro ai giovani poveri ed abbandonati, offrendo a loro una casa, un lavoro, una cultura, una fede incarnata. È stato definito, non paia fuor di luogo, vero intellettuale di massa. Il noto semiologo Umberto Eco, scomparso qualche anno fa, ha letto ed interpretato l’esperienza dell’Oratorio di don Bosco come una macchina perfetta di comunicazione che gestisce in proprio, riutilizza e discute i messaggi provenienti dall’esterno. In tal modo, il progetto educativo dell’Oratorio nasceva stando nel mondo, divenendo però alternativo (rispetto alle categorie dominanti del tempo), e quindi non conformista, apportatore di innovazioni educative, in sintonia con la dignità umana. Alla luce dell’esperienza educativa del santo piemontese, ecco come dovremmo comportarci con riferimento alla cultura digitale, ai nuovi mezzi di comunicazione che ci avvolgono con i loro messaggi troppo semplificati, e quindi poco veritieri, e ci condizionano senza che ce ne accorgiamo, abituandoci ad esserne meri fruitori, quasi spettatori passivi ad imbuto: fare delle nostre famiglie, delle nostre scuole, delle nostre associazioni, dei laboratori di una nuova cultura e comunicazione, a servizio della crescita integrale dei giovani. Dovremmo seguire, su un altro piano, ciò che gli Ordini mendicanti del Medioevo, francescani e domenicani – stiamo celebrando l’Eucaristia in questa chiesa ove i figli di san Domenico hanno irradiato il Vangelo e la cultura cristiana -, vollero fare con le loro università: istituire centri culturali ove confrontare ed illuminare i grandi problemi del tempo con la luce del Vangelo, coniugando fede e vita, libertà e verità. Certo, per riuscire in questo intento, per ridare giovinezza e vitalità al pensiero, in una società e in una cultura senescenti dal punto di vista intellettuale e spirituale, dobbiamo essere tutti più reattivi rispetto ai gravi problemi odierni, più solerti nel discernimento. Ma, soprattutto, siamo chiamati ad uscire allo scoperto, a non vivere come ruote di scorta rispetto ad altri, specie di chi organizza la società secondo prospettive lontane dai valori umani e cristiani. Siamo, cioè, chiamati a dare il nostro apporto necessario ed originale di credenti. Siamo chiamati a pronunciarci chiaramente, e ad impegnarci ad inscrivere nelle istituzioni i valori del Vangelo, come hanno saputo fare i cattolici del passato, assieme ad altri uomini di buona volontà. Anche oggi c’è bisogno di persone con schiena eretta, atte a vivere l’Amore della e nella verità, ossia una carità pastorale ed intellettuale che illumina le intelligenze ed accende i cuori di empatia nei confronti della vita buona e del Bello. Solo così si potranno forgiare nuove personalità, nuovi protagonisti nella vita sociale e politica. Ovvero cittadini capaci, a fronte di culture intrise di laicismo e di individualismo libertario, di proporre la promozione dei diritti individuali in connessione coi rispettivi doveri, di saper subordinare la ragione calcolante alla ragione pensante, la finanza alla politica.

Non solo la Chiesa ha bisogno dei giovani attivi e protagonisti, ma anche la società, la città, la cultura, la scienza, l’economia e la politica. I giovani costituiscono un potenziale di energie spirituali, umane e morali, davvero enorme, ma purtroppo sottovalutato e inutilizzato. Senza di essi è difficile il rinnovamento, non si può sperare in un futuro di speranza per la Chiesa e per la società. Essi non debbono essere considerati buoni solo per il consumo, e non per una crescita sostenibile, che deve avvenire secondo una logica del dono e della gratuità. Come già accennato, don Bosco mal sopportava città e quartieri popolati da giovani allo sbando, a rischio, senza un’occupazione, istruzione, senza Dio.

Ragione, religione ed amorevolezza era il trinomio su cui don Bosco imperniava la sua sapiente azione educatrice, liberatrice ed umanizzante. Cari confratelli salesiani, un tale trinomio va rivalutato e reinterpretato proprio nell’attuale contesto socio-culturale. Oggi domina la ragione calcolante, strumentale, mentre dovrebbe vigoreggiare una ragione riflessiva, sapienziale. Oggi, i nostri giovani, sentono poco l’appartenenza alla Chiesa ed interpretano spesso il cristianesimo come una religione «fai da te». Dovrebbero, invece, sperimentare un incontro filiale col Padre, disponibili ad andare ove lui manda a servire. Il pericolo odierno per i nostri giovani è immaginare la comunità ecclesiale come un ambiente estraneo o come l’ambiente ove ci si può ritagliare un angolino, ove si sta bene con pochi amici intimi, ignorando il bene più grande della comunità e del mondo. Oggi, nonostante l’essere iperconnessi, prevale l’indifferenza, la superficialità delle relazioni, l’utilitarismo. L’amorevolezza è sempre più rarefatta e sfuggente. Più aumentano le relazioni virtuali più cresce il bisogno di relazioni più personali, senza intermediazioni che creano deformazioni, ossia ricche di empatia e di convivialità, che dimostrano quanto la nostra persona è importante per gli altri.

In questa celebrazione eucaristica siamo sollecitati a vivere il trinomio educativo donboschiano in un contesto trinitario. L’esperienza dello Spirito santo, Spirito di Dio e di Cristo, figlio amatissimo del Padre, ci aiuterà a comprendere che il suo Amore non umilia la ragione bensì la sfida e la induce a trascendersi, e inoltre rende il nostro rapporto religioso un incontro con Dio, risposta d’amore al suo Amore, trasfigurazione della nostra amorevolezza umana in una presa in carico disinteressata dell’altro.

Con don Bosco viviamo nella gioia di essere di Dio e di donarlo ai giovani. Preghiamo per i giovani di questa istituzione affinché, guardando ai salesiani e a don Bosco, si appassionino nell’impegno di far crescere i loro coetanei: siano giovani per i giovani. Come l’uomo da leggenda, che è stato il «prete della gioia» – così l’ha definito qualche giorno fa papa Francesco, exallievo salesiano -, ha contribuito ad interpretare la genialità pedagogica del cristianesimo e a sviluppare un nuovo umanesimo giovanile nell’Ottocento, così noi operiamo per un rinascimento educativo della nostra società e per una civiltà che pone il digitale e le nuove tecnologie a servizio della comunione delle persone reali e concrete. «In conclusione, fratelli – come scrive san Paolo ai Filippesi – tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto» dei nostri pensieri e delle nostre sollecitudini (Fil 4, 4-9).

Maria Ausiliatrice ci benedica e ci assista.

+Mario Toso

Glorie: Madonna del fuoco, festa patronale

Glorie, 3 febbraio 2019

Cari fratelli e sorelle, conoscere l’origine della devozione alla Madonna del Fuoco, protettrice di Glorie è fondamentale per questa comunità parrocchiale. Il culto alla Madonna del Fuoco si sviluppò nel secolo scorso per opera di un proprietario di Villa Savoia e fu incrementato dai braccianti che, dalle colline forlivesi, specie da Terra del Sole, vennero a lavorare in queste zone per bonificare la Bassa. Il quadro qui venerato, che mostra alle spalle della Madonna e del Bambino il fuoco, allude  all’incendio che a Forlì, nella notte tra il 4 e il 5 febbraio 1428, devastò una scuola ove  si trovava l’immagine originale della Madonna del Fuoco, una xilografia impressa su un semplice foglio di carta fissato su una tavoletta. Nonostante le fiamme abbiano distrutto la scuola, l’immagine cartacea rimase illesa. La domenica seguente fu trasportata solennemente nella cattedrale di Forlì ove è conservata e tuttora venerata. Sarebbe bello, a questo proposito, che si potesse organizzare una visita all’immagine alla Madonna che è custodita a Forlì.

Spiegata per sommi capi l’origine del culto della Madonna del Fuoco a Glorie, va sottolineato che tale culto è dovuto, così narra la tradizione, all’opera di laici. Non so se interpreto bene. Forse bisognerebbe approfondire di più questo aspetto. Ma leggendo l’origine del culto della Madonna del Fuoco a Glorie mi è venuta in mente l’origine del cristianesimo nella Corea. Ebbene, nella Corea, il cristianesimo si impiantò in maniera singolare per opera dei laici, prima ancora che dei sacerdoti: alla fine del XVIII secolo. Alcuni eruditi coreani entrarono in contatto con i testi biblici in cinese portati nel loro paese da alcuni missionari occidentali ed iniziarono a studiare autonomamente la dottrina cattolica, senza l’aiuto di presbiteri.

Nel 1784 uno di loro, Lee Seung Hun, fu inviato a Pechino per essere battezzato dai missionari cattolici. Tornato in patria battezzò gli altri membri del suo gruppo, dando vita così alla Chiesa coreana senza alcun apporto esterno, in particolare senza l’apporto di sacerdoti che arrivarono solo più tardi. Nell’Ottocento la neonata Chiesa fu colpita dalle persecuzioni. Nel 1866 i cristiani coreani subirono il martirio più doloroso della loro storia: più di diecimila fedeli furono massacrati, la metà di tutti quelli esistenti nel Paese.

Perché vi ho parlato dei martiri coreani? Quello che desidero dirvi è che la fede cristiana nella storia della Chiesa, in Corea o in altre Nazioni, non è solo promossa da missionari sacerdoti, da suore, ma anche da fedeli laici. Il fatto che qui a Glorie il culto alla Madre di Dio si sia diffuso specie per opera dei braccianti forlivesi è senz’altro istruttivo per questa comunità che non gode più della presenza stanziale di un parroco. Indica quella via di educazione alla fede che non deve, specie oggi, andare perduta, quando le vocazioni sacerdotali e religiose diminuiscono e il proprio parroco, don Marco, deve accompagnare tre comunità. La diffusione della fede, l’educazione cristiana, non sono solo compito dei sacerdoti o delle donne, delle mamme, ma anche dei papà. In un contesto sociale e culturale che, come il nostro, è sempre più povero di senso del trascendente e del senso di appartenenza alla comunità cristiana e alla sua missione, l’esempio dei braccianti forlivesi arrivati sin qui, con le loro famiglie, è particolarmente importante. Chi veniva da Forlì o dai dintorni portava con sé non solo la vita e il lavoro, la famiglia, ma anche la fede, l’attaccamento alla Madre, la Madonna del Fuoco.

Se guardiamo bene, nell’immagine venerata in questa chiesa, Maria porta in braccio Gesù Bambino, Via, Verità e Vita. In questa domenica celebriamo la 41.a Giornata nazionale per la vita. Come dalle mani della Madonna accogliamo Gesù Bambino, che è la Vita, così accogliamo, serviamo, promuoviamo la vita umana. Custodiamo la dimora della vita, che è la terra, come hanno fatto i braccianti forlivesi, che sono venuti in questa zona per  bonificarne il territorio. Per avere futuro, sia come comunità ecclesiale sia come comunità civile, siamo chiamati all’accoglienza di Gesù Cristo e della vita umana. Questa  va accolta in maniera aperta, prima e dopo la nascita, in ogni condizione e circostanza in cui essa è debole, minacciata e bisognosa dell’essenziale. La difesa di chi non è ancora nato deve essere chiara, ferma e appassionata, perché è in gioco la dignità della vita umana, sempre sacra. Lo esige l’amore per ogni persona al di là del suo sviluppo. Gesù Cristo, che si è fatto carne, uno di noi, ci aiuti a capire il valore immenso di ogni persona, che non è solo un essere umano, bensì anche figlio, figlia di Dio. La Giornata per la vita ci veda impegnati nell’accoglierla, nel promuoverla, convincendoci che il miglior ambiente del suo fiorire è la famiglia. Impegniamoci anche nel consolidare la scuola materna, luogo in cui la vita è coltivata con un’educazione completa, che irrobustisce la pianticella della fede.

Buona festa a tutti!

+ Mario Toso
vescovo

RICORDO DI PADRE DOMENICO GALLUZZI

13 GENNAIO 2019

«Egli ha dato se stesso per noi – spiega san Paolo – per formare per sé un popolo, che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone» (Tt 2, 11-14). Nella domenica in cui celebriamo il Battesimo di Gesù, che ci ricorda che lo stesso Gesù Cristo viene a battezzarci in Spirito santo e fuoco (cf Lc 3, 15-16.21-22) e fare di noi un popolo santo di sacerdoti nel Sommo Sacerdote, ricordiamo la meravigliosa figura di padre Domenico Galluzzi, fondatore di questo convento claustrale.

Padre Domenico è vissuto avendo come ideale supremo quello di vivere il Sacerdozio di Cristo per essere santo non solo per sé, ma per santificare, come è proprio di ogni vera santità, che è aperta al dono, al servizio dell’evangelizzazione: «Santifico me stesso, per santificare gli altri», soleva ripetere. In vista di ciò aspirava ad essere una cosa sola con il Signore Gesù per aiutare i suoi fratelli presbiteri, ma non solo, a divenire cristoconformi, ossia capaci di rendere la propria vita una cosa gradita, sacra a Dio, al pari di Cristo.

Attratti dalla sua vita esemplare, dalla quale traspariva il volto misericordioso del Salvatore, padre Galluzzi era ricercato da diversi fedeli, religiosi e religiose, seminaristi e sacerdoti come confessore, guida spirituale per l’accompagnamento nella crescita della fede. Egli era sempre disponibile ed aveva un particolare carisma nel plasmare gli animi, orientandoli a crescere secondo la pienezza di vita a cui tutti siamo chiamati in Cristo. Vivificato dallo Spirito del Signore, padre Domenico desiderava dedicarsi a generare nelle persone l’immedesimazione con Cristo. Se il Verbo incarnandosi ha consentito all’uomo di essere realmente figlio di Dio, figlio nel Figlio, il progetto pastorale di padre Galluzzi, domenicano, si focalizzava su una missione particolare: rendere i propri fratelli e sorelle figli e figlie amantissimi del Padre inabitanti nel Figlio. Soprattutto i presbiteri erano al centro della sua sollecitudine pastorale e della sua preghiera. Perché? Non potevano non essere santi coloro che, in forza del loro ministero, impersonano Cristo e sono a servizio del popolo di Dio. I preti devono essere coloro che aiutano i loro fedeli a divinizzarsi in Cristo. Come è possibile che chi non è pienamente nel Signore riesca a mettere maggiormente a contatto i credenti con Dio? Come può il sacerdote, che peraltro non è Colui che salva, far gustare e mostrare ai suoi fratelli quella «vita nuova» che Gesù è venuto a portare all’umanità se egli stesso non riesce a viverla intensamente, convintamente? Il sacerdote è più se stesso, e più autentico testimone, quando diventa una cosa sola con il Signore, ossia quando vive intimamente in Cristo, come figlio nel Figlio. Più in concreto, l’obiettivo dell’ansia pastorale di padre Domenico era quella di ripristinare o di ricomporre, qualora fosse stato necessario, il volto oscurato o frantumato di Cristo nella vita dei sacerdoti. Mirava a ricostruire nei presbiteri l’immagine di Cristo crocifisso, ossia quella figliolanza divina, che si dona totalmente al Padre e ai fratelli salendo sulla croce, vivendo la stessa passione sacerdotale del Signore. I presbiteri sono maggiormente utili alla Chiesa e ai fedeli quando sono sacerdoti santi, ossia quando sono pienamente cristificati; quando con il loro apostolato accendono nell’anima dei fedeli l’amore sacrificale di Cristo. Solo così si estende il Regno di Dio. Solo così si rende più vitale il corpo di Cristo. Come santa Teresa del Bambino Gesù, padre Domenico era convinto che  uno sforzo di santità, un atto di perdono e d’amore sono come una piccola goccia di sangue che arriva sino alla periferia della Chiesa e nel cuore dei sacerdoti missionari che soffrono e può aprire i cuori di tante persone che ancora non conoscono Gesù. Nello stesso tempo, era convinto che una mancanza d’amore, di pazienza e di santità può diventare un macigno che impedisce l’avvento del Regno di Dio, l’incarnazione di Cristo nei cuori, nelle famiglie, nelle leggi e nelle istituzioni.

Padre Domenico visse intensamente il suo sacerdozio perché la vita d’amore di Cristo, vita bella e sublime, scorresse copiosa e gloriosa, nelle vene del Corpo di Cristo, che è la Chiesa. Proprio per questo pensò e volle l’Ara crucis, quasi «pronto soccorso» ante litteram, anticipando per certi versi il Magistero di papa Francesco, che parla di Chiesa come «ospedale da campo» per l’umanità. Ecco da dove è nata l’Ara crucis, quale pronto soccorso specialmente per i presbiteri! Come possono essere i ministri di Dio un pronto soccorso più efficace per il popolo di Dio se essi stessi cadono sul campo e il loro spirito missionario si affievolisce?

Padre Galluzzi incoraggia le suore dell’Ara crucis così: «Care figliole, il “Pronto soccorso” è il primo che deve dare testimonianza di abnegazione, di sacrificio. Il primo che deve vivere la Quaresima per la Pasqua degli altri. Non si può pensare di appartenere al “Pronto soccorso” se non si ha un grande spirito di abnegazione.

Siate davvero un “Pronto soccorso” e così vivrete una serena, gioiosa, tranquilla Quaresima nello Spirito di Gesù Eterno Sacerdote e con lo stile dei suoi santi. Così, o care figliole, mentre spiritualmente piangete e vi affliggete perché vorreste arrivare da un capo all’altro col vostro spirito d’abnegazione, avrete la certezza di far contento, soddisfatto il Cuore del vostro Gesù Eterno Sacerdote in quanto Egli vede in voi Se stesso che ha fondato il “Pronto soccorso” accettando la volontà del Padre che Lo voleva sacrificato sull’altare della Croce».

La missione delle suore claustrali dell’Ara Crucis è chiamata a conformarsi, secondo padre Galluzzi, all’opera del Buon samaritano, Gesù.

La Chiesa, che è in Faenza-Modigliana, è grata a padre Domenico e a questo monastero da lui fortemente voluto. L’Ara crucis risplende in mezzo a noi come sole che riscalda e vivifica le giornate apostoliche dei credenti e dei sacerdoti. Un continuo palpito d’amore anima la vostra comunità, care sorelle! Riconosciamo in voi un’immagine viva della Comunità trinitaria che inonda il mondo di uno Spirito sempre nuovo: lo Spirito di Dio, Spirito del Padre e del Figlio, uniti in un eterno abbraccio d’Amore. Padre Domenico continui a benedirvi e a proteggervi dal cielo dei santi.

+ Mario Toso

FESTA PATRONALE DI SAN POTITO

13 GENNAIO 2019

Il battesimo di Gesù che oggi celebriamo non ci ricorda solo la sua manifestazione come Figlio di Dio ma anche il nostro battesimo mediante il dono del suo Spirito. Tale dono ci rende e ci plasma figli nel Figlio, persone che vivono in Cristo, in Lui, per Lui, con i suoi stessi sentimenti. Mediante il nostro battesimo siamo, dunque, immessi nella vita di Cristo e della Trinità, Padre, Figlio e Spirito santo. Siamo chiamati a vivere dell’Amore di Dio, della sua Bontà, Bellezza e Verità, nella stessa famiglia di Dio. Chi è battezzato e cosciente della sua identità di cristiano respira con i polmoni di Cristo, vede e pensa come Lui, crede in tutto ciò che è positivo, lavora e spera perché tutti possano godere della vita di Dio, sull’esempio dell’impegno di Gesù Cristo.

In questo giorno del Signore desideriamo celebrare anche la festa del patrono di questa comunità: san Potito, che nacque a Sardica, una regione dell’attuale Romania. Lo ricordiamo come martire, ucciso proprio perché discepolo di Cristo, durante la quarta persecuzione dei cristiani sotto Marco Aurelio Antonino il 13 gennaio. Il suo culto sembra sia giunto sin qui grazie ai monaci basiliani. Questa comunità, dunque, non solo è fondata in Gesù Cristo, il martire per eccellenza, ma ha anche come suo patrono un cristiano martirizzato verso il 160 dopo Cristo. Ciò che per noi conta è che abbiamo, per questa porzione di Chiesa, come punto di riferimento soprattutto due persone, una il Figlio di Dio e l’altra un nostro fratello nella fede, che noi desideriamo amare ed imitare proprio nel loro atteggiamento di dono supremo di se stessi. La loro testimonianza ci sollecita ad un’esistenza convinta e coraggiosa, desiderosa di cambiare il mondo dando la propria vita, combattendo contro il male, la gente falsa, corrotta, amante del potere e della ricchezza, degli idoli. Sappiamo che Potito scelse fin da giovane di essere di Cristo schierandosi nettamente contro la gente malvagia che calpestava i propri simili, abbandonando la vita mondana. La sua scelta di essere cristiano venne contrastata dal padre, uomo pagano, molto ricco, che voleva distoglierlo dal suo proposito con ogni mezzo. La determinazione del giovane Potito era così ferma che lo stesso padre alla fine rinunciò a segregarlo e a privarlo del cibo.  Potito non poteva vivere senza Gesù. Spiegando al proprio padre le ragioni del suo amore per Cristo gli fece capire che non poteva essere felice senza essere del suo Signore. Non bastavano le ricchezze, i piaceri della vita a colmare il suo cuore. Ciò che desiderava Potito era, sopra ogni altra cosa, essere senza peccati, gradito a Cristo più che agli uomini, vivere assieme alle persone timorate di Dio.

In definitiva, ciò che guidava l’intrepido Potito era un particolare e fine intuito di Dio. Egli era attratto irresistibilmente da ciò che poteva rendere bella e sapida la propria vita. Non si accontentava delle cose futili, materiali, che non saziano lo spirito e non colmano di gioia l’esistenza. Innamorato di Cristo riusciva a portarlo anche ai non credenti, come alla moglie di Agatone, il principe del Senato. Questa, ammalata di lebbra, non appena si convertì a Cristo venne prodigiosamente guarita.

Impariamo da san Potito, patrono di questa Comunità, ad essere missionari. Il quadro che lo raffigura sullo sfondo di una città pagana in rovina ci ricorda che pure noi viviamo in un mondo che, dal punto di vista morale e culturale sta crollando, e che può essere risanato ritrovando Dio e quell’amore per Lui che ci consente di abbattere gli idoli contemporanei. Solo l’amore a Dio, alla Bontà, Bellezza e Verità supremi ci può aiutare ad abbandonare quell’individualismo libertario ed utilitarista, quell’autosufficienza che ci portano al disprezzo della verità e del bene. Chi assolutizza se stesso, il proprio «io» non riconosce i legami sociali, i diritti altrui, ma solo i propri. In una società in cui i cittadini riconoscono come metro di misura solo se stessi, il proprio «io», viene a destrutturarsi la solidarietà, ciò che unifica moralmente. Viene a mancare il rispetto per l’altro, per le istituzioni sia civili sia religiose. Un’etica libertaria corrompe la società e la civiltà. Nasconde il valore del bene comune. Affievolisce il senso del servizio alla comunità.

Questa festa patronale ci aiuti a recuperare la nostra identità cristiana e, con essa, la vocazione missionaria, l’impegno nel servizio al bene comune, che viene accresciuto da una spiritualità capace di sacrificio e di dono generoso per Dio e per gli altri, come ci ha anche insegnato Nilde Guerra.

+ Mario Toso

Cattolici e politica in epoca di populismi

Incontro con i politici

Faenza, sala san Carlo, 26 gennaio 2019

Premessa

Prima di affrontare il discorso sui populismi che devastano la politica e la vita democratica occorre premettere alcune considerazioni sul rapporto cattolici e politica. Ciò è necessario perché non pochi oggi, specie dopo le votazioni del 4 marzo scorso, ritengono che tale rapporto ponga una questione inutile e superata, in quanto il voto dei cattolici non esisterebbe più. Se non esiste, perché interrogarsi ancora? Ma è proprio così? Incominciamo, allora, col considerare alcune recenti affermazioni. Qualche illustre professore universitario ha affermato candidamente che il voto dei cattolici non esiste più perché la Democrazia cristiana è morta e sepolta. Così, alcuni, come Adriano Sofri, si sono affrettati a dire, proprio in coincidenza con il tonfo elettorale del PD dei mesi scorsi, che insieme a tale partito è sprofondato anche il cattolicesimo sociale. A fronte di simili affermazioni è facile dire, senza perdersi in infiniti ragionamenti e disquisizioni, che sinché sulla faccia della terra esisterà un solo cattolico ci sarà anche il voto cattolico, comunque venga speso. Il cittadino cattolico non può essere diviso in due, anche se in lui la fede va distinta, non separata, dal voto. Ciò premesso non è assolutamente inutile interrogarsi sul rapporto tra cattolici e politica, come si farà qui, presentando il saggio del sottoscritto a voi Signori sindaci ed amministratori, assieme al professore Ernesto Preziosi già deputato nel PD e vicepresidente dell’AC.[1]

  1. Cattolici e populismi

Sono diverse le ragioni per cui ai cattolici di oggi è richiesto un rinnovato impegno nella politica: sia per rifondarla rispetto alla sua prevalente coniugazione oligarchica e digitale che ne atrofizza lo spessore etico; sia perché nell’attuale contesto socio-culturale è urgente un ripensamento delle derive degli ordinamenti giuridici in senso positivistico e libertario, come anche un improrogabile ammodernamento delle istituzioni e delle burocrazie; sia perché sono in gioco problemi politici sovranazionali che influenzano inevitabilmente l’esistenza stessa delle singole Nazioni; sia perché occorre reimpostare decisamente l’attuale Comunità europea, specialmente sulla base di un nuovo impianto culturale personalista, senza dimenticare che i populismi avanzanti, come anche la ideologia relativa ad una democrazia puramente digitale, finirebbero per pregiudicare la soggettività dei popoli democratici, per consegnarli a centri di potere occulti o tecnocratici. Il rafforzarsi degli attuali populismi, con il loro portato culturale e prassico, obbliga necessariamente il mondo cattolico a prendere posizione, perché mettono a repentaglio sia la politica sia la democrazia rappresentativa, partecipativa, sociale, inclusiva, deliberativa. I populismi, quali atteggiamenti culturali e politici che esaltano genericamente il popolo, sulla base di forti riserve nei confronti della democrazia rappresentativa, al lato pratico giungono a massificare i popoli, rendendoli mero «oggetto» nelle mani di capi carismatici o di gruppi ristretti. I nuovi rappresentanti eletti in Parlamento e provenienti da gruppi movimentisti, dicono di agire nell’interesse e per conto del popolo sovrano ma, in fin dei conti, vengono ascoltati solo cittadini selezionati, bypassando i rappresentanti dei corpi intermedi, ignorando il senso esatto del principio di sussidiarietà. L’espressione «popolo», come anche la «sovranità» del popolo, sono spesso evocate per giustificare le proprie scelte anche se queste, in ultima analisi, non corrispondono alle istanze più profonde della gente, bensì agli umori temporanei che assicurano una presunta «legittimazione».

  1. I principali caratteri dei populismi

Ciò premesso, per comprendere meglio l’impegno di tutti i cittadini, compresi i cattolici, è bene elencare le principali caratteristiche che accomunano i populismi e che sollecitano una decisa reazione sulla base di una ragione pensante, riflessiva. I populismi appaiono caratterizzati da:[2]

  1. antipluralismo. Il pluralismo sarebbe un disvalore e il principio costituzionale che prevede e valorizza il ruolo delle minoranze, sia istituzionali che politiche, sarebbe ugualmente una minaccia. Le libertà, poi, sono esaltate a parole, ma nei fatti vengono compresse. Per esempio: la libertà di commercio, di capitale, di servizi e della persona, ecc.;
  2. disintermediazione, a motivo del loro atteggiamento verticista, contrario alla democrazia-partecipativa. Le forze populiste rigettano l’intermediazione di chi rappresenta altri cittadini portatori di interessi sociali, come gli ordini professionali o il sindacato. Mentre le principali Costituzioni democratiche prevedono la rappresentanza degli enti intermedi che interagiscono e mediano valori e interessi sociali con le istituzioni (famiglia, associazioni, Ong, partiti, sindacati, le varie Chiese e confessioni religiose), i populisti intendono incontrare direttamente i cittadini, ignorando chi li rappresenta e la loro appartenenza comunitaria. Preferiscono contattare i cittadini come soggetti individuali, interpellabili come protagonisti unici, magari mediante frequenti referendum, con i mezzi tipici di una democrazia digitale, che sonda i pareri e gli assensi attraverso dei semplici clic, con un «sì» o con un «no»;
  3. comunicazione autoreferenziale e strumentale: il contatto diretto con il popolo ruota attorno alla capacità del leader di incontrarlo, ascoltarlo e interpretarlo, come già detto, senza mediazioni politiche. Il leader, che si ritiene sopra la legge, ma anche superiore alla magistratura (si pensi a quanto è stato detto a proposito del caso della nave Diciotti: i ministri riceverebbero un mandato dal popolo, pertanto sono da considerarsi insindacabili e superiori rispetto ai magistrati in quanto questi ultimi non sono votati dal popolo: è noto, invece, che i ministri non ricevono alcun mandato diretto dagli elettori), comunica attraverso la cassa di risonanza dei social network o dei blog personali, utilizzando forme espressive semplici: frasi retoriche e brevi, soluzioni chiare di problemi complessi, attacchi diretti agli avversari. Questo modello comunicativo viene a costituire un nuovo “popolo” democratico, un popolo digitale, avente come capo un leader carismatico, un condottiero che fa appello all’emotività, alle paure e può bypassare la Costituzione;
  4. moralismo ancorato all’idea di un popolo puro. I rappresentanti populisti, allorché eletti, come già accennato, ritengono di essere al di sopra della legge, della Costituzione, degli organi democratici, perché legittimati direttamente dal «popolo puro» (rispetto ai rappresentanti corrotti) di cui si ritengono i veri ed unici interpreti. Per i populisti, le élites politiche, seppure élites pensanti, sono sempre e comunque corrotte: soltanto nel popolo risiedono la virtù e la purezza, la vera sovranità. Sotto questo profilo è curioso notare che le forze politiche che hanno costruito il consenso proprio sulla critica alle élite e alla casta non prendano atto del fatto che, una volta conquistato il potere, esse stesse diventano casta, élite ed establishment. Naturalmente questo atteggiamento è voluto ed è funzionale al perseguimento di una politica che deve sempre trovare “un nemico” per affermare la propria leadership e per giustificare difficoltà e fallimenti dell’azione di governo. Questo nemico, di volta in volta, può essere rappresentato dall’Europa, dai poteri forti, dai giudici, dalle ONG, dai giornali, ma certamente la casta rappresenta sempre un elemento di forte valore simbolico contro cui scatenare la polemica politica.
  5. Non a caso, in Italia il «sistema operativo» per la gestione interna e la scelta dei candidati del Movimento Cinque Stelle (M5S) è un portale web chiamato «Rousseau». Non si dimentichi che l’idea, piuttosto ingenua, di «volontà generale» e di «popolo innocente» espressa dal filosofo ginevrino ha permesso nella storia il potere di tanti generali che, invece di servire il popolo, se ne sono serviti.

 

Alla fine dei conti – nonostante alcune connotazioni «virtuose» che non possono essere ignorate, come  il voler «essere “democrazia della gente ordinaria” contro la politica istituzionalizzata […]; il prestare attenzione agli interessi dei molti contro quelli dei pochi; il valorizzare l’esperienza civica e politica del luogo piccolo, come il villaggio e il quartiere, contro una cittadinanza astratta e distante; la costruzione dal basso della volontà popolare senza intermediazione partitica; e infine, la concezione della sovranità popolare come sostanza del corpo politico, valore definito che precede e sta sopra le norme costituzionali e le procedure democratiche –[3] i populismi contemporanei mettono in crisi la democrazia rappresentativa, partecipativa, deliberativa (le decisioni  dovrebbero essere prese su basi etiche e non solo su basi tecniche, su sondaggi digitali!), nonché il ruolo dei Parlamenti, in cui si discutono e si mediano gli interessi alla luce del bene comune. Non si può negare, che per la prima volta in Italia, la legge di bilancio dello Stato è stata approvata senza di fatto essere stata letta e discussa nelle Commissioni e nelle Aule. Dai populismi il popolo è visto e considerato non tanto come soggetto composto da persone-cittadini morali, liberi, responsabili, pensanti, bensì come popolo-oggetto, strumentalizzato da lobby, che lo manipolano, e fanno credere di essere al servizio del suo sviluppo integrale. Questo si raggiungerebbe con politiche prevalentemente assistenzialiste più che attraverso politiche industriali, politiche attive del lavoro, di formazione professionale, peraltro senza troppo preoccuparsi di riformare il sistema finanziario e monetario attuale (incentrato su un capitalismo finanziario, per il quale il lavoro è una variabile dipendente dai mercati finanziari e monetari, e non è un bene fondamentale e, quindi, una priorità). Non emerge, per ora, l’idea di una chiara definizione e separazione, per gli intermediatori bancari di credito, dell’attività di gestione del credito ordinario e del risparmio da quello destinato all’investimento e al mero business; così non emerge, nei progetti dei populisti italiani, il proposito di giungere ad una decisa regolamentazione dei sistemi bancari collaterali (shadow Banking system) e dei paradisi fiscali. I movimenti populisti e sovranisti in parte tendono a mantenere i confini chiusi, isolandosi dagli altri popoli, coltivando prima di tutto gli interessi del proprio Paese, ignorando la sua interdipendenza, coltivando uno spiccato nazionalismo.

Per altro, bisogna riconoscere che le forze neopopuliste, se da una parte mostrano anche una certa capacità nel fare diagnosi sociali corrette, nel percepire le ragioni della protesta, da un’altra parte si mostrano deboli nell’elaborare una visione di Paese in termini comunitari e solidali, nel trovare soluzioni appropriate. Contemporaneamente evidenziano una fragilità culturale ed antropologica profonda che, mentre attinge abbondantemente dal neoindividualismo libertario ed utilitarista, inficia la stessa solidità morale di ogni progetto, fosse anche economico, giungendo così a svuotare dal di dentro la democrazia, indebolendo lo Stato di diritto, stravolgendo la persona, essere libero e responsabile, relazionale, aperto alla Trascendenza. Per conseguenza, sembra mancare alle forze neopopuliste un umanesimo integrale, per sé anti-ideologico che, mentre pone al centro la persona, e non tanto gli individui, alimenta incessantemente l’ethos di un popolo plurale, multireligioso, capace di convergere, mediante il dialogo pubblico, su una piattaforma pubblica di etica laica, ma non laicista e libertaria. Un nuovo umanesimo integrale genererebbe un popolarismo che solo può arginare ogni tipo di populismo.

Specie con riferimento a questo substrato antropologico ed etico dovrebbero sorgere tra i cattolici forti dubbi, confermati da diversi segnali politici che rivelano forme di intervento assistenzialiste, stataliste, che non valorizzano sistematicamente la sussidiarietà (i corpi intermedi appaiono bypassati) come anche la solidarietà (si è arrivati a raddoppiare l’Ires sul terzo settore, si è cioè giunti a tassare la bontà, come ebbe a dire lo stesso presidente della Repubblica Mattarella: per fortuna pochi giorni fa è stato cancellato il raddoppio), ma anche il diritto, in alcune decisioni di regolamentazione del flusso migratorio.

«Per arginare i populismi e cogliere il buono che esprimono occorrono processi di maggiore democratizzazione; la lotta alle disuguaglianze sociali mediante la redistribuzione dei redditi e del potere; ripensare le forme di partito e, più in generale, la partecipazione democratica a tutti i livelli per renderla una cultura. Un altro efficace antidoto delle classi dirigenti è scegliere e promuovere standard di vita sobri. In tempi di crisi, più che politiche di decrescita, sono urgenti le riduzioni degli sprechi. Anche sul piano delle istituzioni, occorre dare segnali di maturità. I populismi attecchiscono in quegli Stati che trascurano le riforme costituzionali. L’intreccio tra populismo e nazionalismo è reso possibile da un’Unione Europea debole e da un’eurozona fragile. La scelta, da parte della Francia, della Germania e di alcuni Paesi dell’Europa del Nord, di impedire che le istituzioni intergovernative e il Consiglio europeo potessero intraprendere politiche ha prestato il fianco ai populismi».[4]

In definitiva, da parte dei populismi, ai mali odierni della democrazia (separazione tra rappresentanti e rappresentati, elevato astensionismo elettorale, alti tassi di disoccupazione, di povertà e diseguaglianze, deficit di politica, carenza di una visione complessiva di Paese, mercatismo imposto dal capitalismo finanziario) si è voluto rispondere da più parti mediante ciò che i sociologi e i politologi chiamano «democrazia liquida». Ma la democrazia liquida, che si pone tra la democrazia rappresentativa e quella diretta, è effettivamente in grado di risolvere i problemi della vita democratica?

Quando si parla di «democrazia liquida» si intende un modello di democrazia recente che ha tentato di ravvicinare alla politica soprattutto le giovani generazioni. Dall’esperienza della democrazia liquida stanno, però, emergendo alcuni limiti che non aiutano a risolvere i problemi odierni della democrazia. Al contrario, sembrano aggravarli. Tra i limiti più rilevanti, e che paiono colpire maggiormente il M5S rispetto alla Lega, vanno rimarcati: il pericolo di un nuovo oligarchismo, di una «dittatura degli attivi» che accumulano un progressivo potere sul movimento: coloro che controllano i mezzi di discussione sono in grado di orientare e controllare i voti, il consenso e le decisioni; il pericolo del populismo: gli eletti sono obbligati al vincolo di mandato sulla volontà del leader a cui si deve prestare giuramento e fedeltà; la maggioranza degli elettori finisce, al lato pratico, per ignorare i dibattiti in Rete. In ultima analisi, la democrazia liquida, rischia di cadere in quegli stessi mali che vuole combattere. In definitiva, è democrazia che coinvolge apparentemente il popolo, mentre le cose vengono decise solo da un gruppo ristretto.

 

 

  1. Irrilevanza ed incidenza dei cattolici di fronte alle sfide odierne

 

Ricapitolando: siamo di fronte a populismi e a propensioni antidemocratiche, che alimentano l’indebolimento della morale pubblica (peraltro promosso dallo stesso PD sostenendo – basti pensare alle leggi sulle unioni civili, sul testamento biologico, sul divorzio breve, sulla liberalizzazione della droga –  un’etica prevalentemente libertaria) e la destrutturazione delle istituzioni di rappresentanza, ma siamo di fronte anche a politiche troppo in sintonia con veterocentralismi (cf proposta di nazionalizzazione di Carige), che nei confronti dell’organizzazione e della gestione del welfare non puntano sulla responsabilizzazione della società civile, del libero mercato, della biodiversità economico-finanziaria, dell’economia civile. A questo punto poniamoci una domanda: i cattolici, portatori di una cultura personalista e comunitaria, avente una matrice di ispirazione cristiana, mostrano, forse, inquietudine per il futuro del loro Paese, specie delle nuove generazioni, nei confronti del progetto Europa, almeno nel momento in cui si manifestano numerosi conati antieuropeisti e ci si trova nuovamente di fronte ad elezioni che, per la particolare contingenza storica, mostrano di essere rilevanti? Ma è possibile che il personalismo cristiano, peraltro sedimentato nella carta costituzionale del nostro Paese, non abbia più nulla da dire e non possa ambire ad essere riconosciuto nella sfera pubblica alla stessa stregua dei neoindividualismi e dei neoutilitarismi libertari oggi dominanti? Perché non si capisce che la ubriacatura culturale che fa parlare prevalentemente di diritti civili (spesso diritti-arbitrii) e quasi mai di doveri, e poco di diritti sociali ed economici, finirà per abbattere lo Stato di diritto come anche lo Stato di diritto sociale, che sono pilastri fondamentali della democrazia moderna? I cattolici non possiedono un pensiero pensante, frutto di una ragione sapienziale, che supera il semplice pensiero calcolante, inclinato all’utilitarismo, frutto di una ragione strumentale? Non hanno a disposizione, grazie alla Dottrina sociale della Chiesa, un sistema di beni-valori organizzati, a cui corrisponde un insieme di diritti-doveri che non possono collimare con l’individualismo assiologico e che solo mantenendo collegati i diritti coi doveri può difendere più efficacemente i diritti individuali?  È noto che se la difesa dei diritti individuali – civili e politici – è la nuova frontiera della politica, perché i cattolici continuano ad ignorare che il personalismo è la migliore e più efficace difesa dei suddetti diritti e non l’individualismo libertario? Perché continuare a militare in politica a rimorchio di tradizioni culturali che non appartengono alla propria identità, sparandosi sui piedi?

 

  1. Alcune vie che possono rendere i cittadini cattolici rilevanti ed incidenti

 

A fronte di fenomeni come il populismo e gli oligarchismi, che stravolgono la politica e la stessa democrazia, i cattolici odierni sono in grado di partecipare in maniera significativa ed incidente nel dibattito pubblico e nei parlamenti? Sono ancora in possesso, come avvenne in passato, di una cultura politica capace di affrontare le principali questioni relative alla crisi della politica e della democrazia, per poter offrire un valido apporto alla sua soluzione e alla realizzazione del bene comune? Non pochi osservatori del mondo politico sono giunti ad affermare, dopo le votazioni del marzo scorso, che queste hanno segnato il definitivo tramonto del movimento politico cattolico. I cattolici mostrano un certa rilevanza nel mondo sociale dell’assistenza, una buona presenza sul piano politico locale, ma appaiono praticamente ininfluenti sul piano politico nazionale. Siedono magari in parlamento, in uno o l’altro schieramento, ma sono disarticolati fra loro, frammentati. In altri termini, non appaiono in possesso di un progetto culturale organico e non dispongono di una base sociale organizzata in un nuovo movimento sociale e politico.

Quale la soluzione rispetto a questo stato di cose?

Quanto detto obbliga, senz’altro, alla riconsiderazione del rapporto tra cattolici e politica. Peraltro, gli ultimi pontefici hanno più volte sollecitato un nuovo impegno dei cattolici in politica. Varie questioni ed appuntamenti cruciali per il futuro del nostro Paese, non ultimo lo sfascio della politica, che è fondamentalmente caratterizzato da una crisi antropologica e culturale, inducono a pensare che non si può dilazionare la suddetta riconsiderazione. Occorre, forse pensare, più che a formare precipitosamente dei nuovi partiti ad ispirazione cristiana (cosa che non è proibita, anche se attualmente non sembra che ci siano le condizioni politiche ed ecclesiali sufficienti) ad impegnarsi piuttosto sul piano culturale ed educativo. Ciò che manca per le varie anime del mondo cattolico è un progetto culturale politico organico, capace di coagulare laicamente energie e forze anche liberali e di uomini di buona volontà, attorno a un progetto buono di Paese e di Europa. E, insieme, manca un mondo sociale che se ne faccia effettivamente portatore, sperimentatore, costituendosi in una rete o in un forum che fa incontrare, unifica e genera processi, ma che per ora escluda ogni aspirazione elettorale, mancandone, come già accennato, le condizioni di realizzazione.

Nel saggio che oggi si presenta, più che altro per provocare una riflessione, senza la pretesa di offrire ricette, non si difende l’idea di un partito cattolico. Peraltro, un partito cattolico non è mai esistito e non dovrebbe esistere. Lo ha spiegato molto bene don Luigi Sturzo nel secolo scorso. Egli scriveva ai suoi tempi che la religione è universale, la politica è parziale, e quindi non ci dev’essere confusione dei piani. Sturzo è stato contro il partito cattolico e contro l’idea di uno Stato cristiano. Così, non è mai esistito un partito cattolico se si pensa che la DC lo fosse. La DC non era un partito di soli cattolici. Anche nel saggio non si parla di partito di soli cattolici, nell’eventualità che i cittadini cattolici decidano di fondare un partito. Si parla di un eventuale partito di ispirazione cristiana, comprendente uomini di buona volontà, liberali cultori della giustizia sociale, cattolici, credenti protestanti o appartenenti ad altre religioni, ossia di un insieme di cittadini convergenti su una piattaforma di beni-valori condivisi.

Nel saggio si parla, tra l’altro, di alcune cause dell’ininfluenza ed irrilevanza dei cattolici, come anche della teoria della diaspora, che, al lato pratico, ha contribuito alla dispersione e alla inefficacia sul piano politico. Da più punti di vista la teoria della diaspora appare politicamente un assurdo, perché il bene comune e i vari beni politici vanno conseguiti collaborando insieme; perché l’unità sui valori è prima di ogni pluralismo, di ogni diaspora: l’unità è la sola a consentire al pluralismo di essere non solo legittimo, ma auspicabile e fruttuoso; perché la teoria della diaspora implica una duplice debolezza teorica e pratica. «Per un verso, essa – come ha affermato il professore Stefano Zamagni presentando il saggio a Bologna nel mese del dicembre scorso –  comporta che i cattolici si rassegnino ad essere minoranza ovunque essi si trovino inseriti e quindi accettino di scomparire politicamente, proprio come l’immagine del lievito lascia intendere. Col risultato che, poiché nei partiti democratici vige il principio di maggioranza, chi è minoranza mai potrà vedere accolte le proprie istanze, a meno di gesti compassionevoli o buonisti da parte della maggioranza. Bel paradosso, davvero! I cattolici entrano nei partiti per far avanzare un certo progetto politico che dice della loro identità, pur sapendo che mai riusciranno a far valere le loro ragioni. Né vale l’argomento – troppo spesso adombrato – secondo cui, su questioni di primaria importanza, i cattolici presenti nei diversi schieramenti potrebbero convergere in modo unitario invocando il “voto di coscienza” – un’ingenuità questa davvero imperdonabile che denuncia la totale non conoscenza di quanto ci viene insegnato da tempo dai cosiddetti modelli a massa critica. (Una volta avviato, un processo di trasformazione politica raggiunge il fine desiderato solo se il numero di coloro che ad esso aderiscono raggiunge una certa soglia, cioè la massa critica. Diversamente, il processo collassa o addirittura degenera). Per l’altro verso, l’opzione in questione avrebbe un esito a dir poco ridicolo: tutte le grandi matrici culturali e ideologiche presenti da tempo nel nostro paese avrebbero la possibilità di esprimersi e di confrontarsi dialetticamente sulla scena politica, eccetto la matrice di pensiero cattolico! La linea di pensiero liberale, quella radical-repubblicana, quella nazional-popolare e quella socialista sarebbero titolate a presentarsi con i rispettivi programmi al giudizio degli elettori, ma non quella dei cattolici, i quali “per dire la loro” dovrebbero bussare all’una o all’altra porta, per chiedere “ospitalità”».

Per le altre cause della irrilevanza dei cattolici in campo politico rimando al saggio che viene presentato ora dall’onorevole Ernesto Preziosi, in particolare al terzo capitoletto. Nei capitoli successivi ci si ferma a riflettere su: una nuova stagione di impegno dei cattolici in politica; l’apporto originale e necessario dei cattolici; l’Europa dei popoli; la grammatica comune della Dottrina o insegnamento sociale della Chiesa; l’accompagnamento pastorale delle persone; la risemantizzazione della laicità; il dialogo tra cattolici e laici; la rilevanza pubblica della Chiesa, la spiritualità dei cattolici impegnati in politica.

Grazie per aver accettato l’invito.

[1] Cf M. TOSO, Cattolici e politica, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa, Roma 2018.

[2] Per descrivere alcuni tratti comuni dei populismi contemporanei ci riferiamo a F. OCCHETTA, Populismi, in «La Civiltà Cattolica» (17 giugno-1 luglio 2017), pp. 547-559.

[3] Cf ib., p. 553.

[4] Ib., p. 556.

+Mario Toso

Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani

Faenza, convento delle Clarisse 25 gennaio 2019

La chiusura della Settimana di preghiera per l’Unità dei cristiani coincide con la Festa della conversione di san Paolo apostolo. Il tema centrale offerto alla nostra meditazione nella Settimana di preghiera è stato questo: «Cercate di essere veramente giusti» (Deuteronomio 16, 18-20). Che vuol dire in concreto, con riferimento al bisogno di realizzare l’unità dei cristiani? Occorre passare dalle parole ai fatti con azioni di unità, giustizia e misericordia. Occorre proseguire nella direzione di una comunione riconciliata. L’invito ad essere veramente giusti, come abbiamo pregato il 18 gennaio scorso, diventa impegno a vivere non solo una giustizia semplicemente umana, bensì a praticare una giustizia più che umana, una giustizia nuova, fondata cioè sull’amore di Dio. Solo una tale giustizia, dopo secoli di contrasti, aiuta a rapportarsi con gli altri cristiani, in modo da dare a ciascuno ciò che spetta alla loro altissima dignità di figli di Dio. Ai figli nel Figlio spetta una giustizia commisurata alla figliolanza divina e alla fraternità, che ci radicano nella vita in Gesù Cristo. Detto diversamente, l’unità si realizza non ponendosi su un gradino più alto degli altri, non riconoscendo la loro dignità di figli di Dio,[1] perché con questo modo di fare si creano distanze ancora maggiori, non si costruiscono ponti, bensì si scavano fossati. La soluzione alle divisioni e alle incomprensioni si trova convergendo su ciò che unisce e ci rende maggiormente membra gli uni degli altri, ossia su Gesù Cristo e il suo Vangelo.

In questa ultima giornata della settimana di preghiera siamo sollecitati ad essere costantemente persone e comunità di luce. I credenti, innestati in Cristo, luce del mondo, diventano, a loro volta, luce nel Signore, perché partecipano della sua vita in pienezza. La vita del Figlio di Dio è in se stessa luce: una luce che fa guarire dalla cecità interiore, illumina la mente e, quindi, fa vedere bene nelle profondità di Dio e della nostra stessa vita di credenti che si appartengono reciprocamente. Ecco un punto decisivo. Nel realizzare l’unità non si parte da una estraneità totale. Per procedere in un processo di unificazione è indispensabile riconoscere i propri errori e i propri limiti, ossia essere umili, capaci di superare le chiusure, per aprirsi, alla fine, a ciò che accomuna, all’accoglienza degli altri nel nostro «noi in Cristo», che godiamo grazie a Lui stesso. Un tale aprirsi è facilitato dal nostro previo appartenere a Dio Padre e a Cristo, a Colui che è pieno di vita, di verità e di amore, fonti di comunione spirituale e morale.

Il Figlio di Dio è Luce, proprio perché pienezza di vita. È vita vittoriosa sulla morte e sul peccato, vita che rifulge mediante la risurrezione. Paolo, che perseguitava i cristiani con caparbietà e crudeltà, è sbalzato da cavallo sulla strada di Damasco, proprio da una luce sfolgorante, accecante. È il Risorto che lo afferra, lo incontra, lo attira nella sua luce. Si rivela a lui come Signore pieno di vita gloriosa,  amore invincibile. E così lo trasforma da accanito persecutore in apostolo che si prende cura dei suoi fratelli, non solo dei suoi correligionari. L’incontro di Paolo con Cristo risorto, fuoco e passione di comunione e di unità, ci fa comprendere dove possiamo attingere forza, luce, capacità di perdono per superare le divisioni tra noi, tra cattolici ed ortodossi, tra protestanti, anglicani, Chiese della Riforma e Chiesa di Roma. Forse, in passato, ma ancora oggi, si è dato e si dà troppa importanza alle proprie vedute particolari, anziché a Cristo, all’unico Corpo mistico. Scismi, divisioni e scomuniche reciproche sono avvenuti e continuano ad esserci, perché nei vari cristiani e nelle varie Chiese non sempre alberga quell’amore al Padre comune, quella passione di comunione e di unità che è in Cristo Gesù. Se diventassero pienamente nostri ci aiuterebbero a vincere gli asti, le ripicche, a corroborare la fraternità, la fede.

Pregare per l’unità dei cristiani significa, al lato pratico, pregare perché tutti convergano e siano uno in Gesù Cristo e col Padre. Il nostro Salvatore, infatti, ha pregato così: «Che tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21). Per crescere nell’unità occorre assegnare il primo posto all’Amore con la A maiuscola. La divisione tra i cristiani è uno scandalo, è controtestimonianza rispetto a ciò che dobbiamo essere.

In un mondo frammentato, come cristiani siamo sollecitati a mostrare una comune testimonianza, per affermare la giustizia e per essere strumenti della Grazia guaritrice di Dio. Più ci radicheremo in Cristo più saranno ridimensionate  o tolte le incomprensioni, le ragioni delle divisioni. Solo quando noi ascendiamo verso un punto superiore di verità possiamo scorgere meglio le ragioni dell’unità. Saliamo, dunque, sul Calvario. Immedesimiamoci nel Sacerdote che muore per renderci un unico popolo. Celebriamo l’Eucaristia, sacramento dell’unità per eccellenza, con il coraggio di togliere tutto ciò che ci allontana dal Sommo pontefice, Cristo, Colui che si costituisce ponte di unità tra noi e con il Padre. Come ricordò alcuni anni fa papa Benedetto XVI i cristiani aggravano le loro divisioni per due ragioni fondamentali. La prima è la rinuncia da parte delle comunità di agire come corpo unito preferendo operare secondo il principio delle scelte particolaristiche e locali. La seconda ragione è data dalla preferenza data a quella comunità che meglio incontra i propri gusti personali. Il risultato? A un livello generale è riscontrabile la moltiplicazione di comunità separate. A un livello personale si manifesta un cristianesimo «fai da te». Ciò che si riscontra tra le varie Chiese spesso si verifica anche nelle nostre parrocchie, mediante la moltiplicazione di gruppi disarticolati e la coltivazione di un cristianesimo individualistico. Chi ama Cristo ama tutti e ricerca l’unità, sperimenta la forza trasfiguratrice del suo Spirito. Desideriamo diventare specialisti dell’unità ecumenica? Viviamo intanto e per prima cosa in maniera sinodale nelle nostre Diocesi. Chi è diviso al proprio interno difficilmente diventa protagonista dell’unità. Camminiamo insieme, nell’amore e nella verità. Dialoghiamo non per avere ragione noi e per far passare i nostri particolarismi, per imporre le nostre faziosità, ma per convergere verso la verità che è Cristo, che tutti ci unifica e trasfigura. Solo così saremo allenati ad accogliere i nostri fratelli divisi, a non essere estraniati reciprocamente. L’ecumenismo quale processo di progressiva conversione ed unificazione non è un optional, un qualcosa di facoltativo. Il Signore, infatti, ci vuole e ci convoca nella comunione e nell’unità di ciò che ci supera e, proprio per questo, ci arricchisce tutti: la sua Vita. Diventiamo un cuor solo ed un’anima sola per la gloria del Signore. Conserviamo l’unità dello spirito mediante il vincolo della pace. Riconosciamo ed amiamo un solo Dio e Padre, che è presente ed opera in tutti. Preghiamo per tutti coloro che credono e lavorano per un ecumenismo che muove passi concreti verso l’unificazione in Cristo Signore.

[1] «Coloro che credono in Cristo ed hanno ricevuto validamente il battesimo sono costituiti in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica. Sicuramente le divergenze che in vari modi esistono tra loro e la Chiesa cattolica, sia nel campo della dottrina e talora anche della disciplina, sia circa la struttura della Chiesa, costituiscono non pochi impedimenti, e talvolta gravi, alla piena comunione ecclesiale. Al superamento di essi tende appunto il movimento ecumenico» (Unitatis Redintegratio, n. 3).

+ Mario Toso