Cari giovani, la croce che vi verrà consegnata questa sera nel percorso della vostra professione di fede è segno dell’amore di Cristo. È segno di Cristo stesso, persona, Figlio di Dio, che ama sino a morire di croce. Questa rimanda a Colui che è morto per me, per noi. La croce che terrete tra mano mostra la misura dell’amore di Cristo per ciascuno. Egli ci ama in modo unico e personale. Ricevere la croce di Cristo che offre la sua vita per me vuol dire essere sollecitato a rispondere donandogli la mia. Così, la mia vita diventa un cammino di persona innamorata di Cristo, che Lo accoglie e Lo «vive», come soleva ripetere san Paolo: «per me vivere è Cristo».
Senza Cristo, allora, è come non vivere. Non dare senso a quello che faccio. Cristo è la persona più importante che ho. È più importante dei miei genitori e dei miei amici. È la parte migliore di me stesso. Anzi, di più. È il mio Tutto. Per cui, se mi dicessero rinuncia a Cristo, e se lo facessi, perderei me stesso, il senso della vita, la gioia. È facile, allora, comprendere come i primi cristiani per non perdere Cristo erano disposti a dare la vita, ad accettare il martirio.
Fecero così i martiri giapponesi Paolo Miki e compagni, 25 religiosi gesuiti.
Picchiati, mutilati ed umiliati pubblicamente durante il viaggio verso Nagasaki, nessuno rinnegò la propria fede in Cristo e il 5 febbraio 1597, pieni di entusiasmo, affrontarono il supplizio con una serenità ed una compostezza tali da sbalordire i loro persecutori. Chi benediva e lodava Dio con il canto dei salmi, chi recitava il Pater noster ad alta voce, chi pregava in silenzio e chi esortava i presenti ad una vita cristiana. Ma non solo. Dalla croce i 26 martiri, con gli occhi fissi al cielo, continuavano a perdonare i loro carnefici.
Un testimone oculare narra dettagliatamente il loro supplizio (un passo è riportato anche nella Liturgia delle ore) e dice: “Il nostro fratello Paolo Miki, vedendosi innalzato sul pulpito più onorifico che mai avesse avuto, per prima cosa dichiarò ai presenti di essere giapponese e di appartenere alla Compagnia di Gesù, di morire per aver annunziato il Vangelo e di ringraziare Dio per un beneficio così prezioso”, e dichiarò: “Giunto a questo istante, penso che nessuno tra voi creda che voglia tacere la verità. Dichiaro pertanto a voi che non c’è altra via di salvezza, se non quella seguita dai cristiani. Poiché questa mi insegna a perdonare ai nemici e a tutti quelli che mi hanno offeso, io volentieri perdono all’imperatore e a tutti i responsabili della mia morte, e li prego di volersi istruire intorno al battesimo cristiano”.
Questi furono i primi martiri cristiani in Giappone, dopo loro ce ne furono molti altri, perseguitati ed uccisi. Nel 1862 furono canonizzati da papa Pio IX.
I martiri ci esortano a essere fedeli alla nostra fede e, se è il caso, a perdere la vita a causa del Vangelo, come hanno fatto tutti quei giovani cristiani che sono morti recentemente nei paesi arabi, perseguitati e trucidati a causa di Cristo. I martiri giapponesi Miki e compagni hanno realizzato
la profezia di Tertulliano secondo il quale «il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani».
Chi ama Gesù Cristo più che se stesso, come il Bene più grande, è disposto a non disprezzarlo, nemmeno nella sua raffigurazione di Crocifisso appeso al muro o portato al collo con una catenina.
Per identificare quanti rimanevano segretamente fedeli al cristianesimo, in Giappone era disposta un’annuale «verifica della fede», che consisteva nel far calpestare un’immagine sacra cristiana davanti ai magistrati. Molti cristiani si rifiutarono e hanno scelto con coerenza il martirio.
Chi è credente e oggi è testimone di tanto odio contro i crocifissi nelle aule e nei luoghi pubblici non può che soffrire. Non riesce a capire come la propria fede non sia rispettata anche nei segni che la rappresentano. Cari giovani, occorre non aver paura di essere e di dirsi cristiani. Non ci si deve vergognare di portare al collo un crocifisso. Non possiamo accettare che nelle scuole pubbliche si pretenda che ci sia posto per tutte le religioni eccetto che per quella cristiana. Non dobbiamo accorgerci che nelle nostre aule c’è il crocifisso solo quando viene contestato, magari con la scusa che si tratta di un segno offensivo della libertà religiosa altrui. Ogni giorno andando a scuola preghiamo Gesù, dichiariamogli il nostro affetto.
Ma come già vi ho detto ciò che è massimamente importante è vivere Cristo.
Non bisogna dimenticare che lo stile dell’amore di Cristo è il servizio: Egli non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la vita in riscatto di molti (cf Mc 10, 45). Ebbene, caratterizziamoci, di fronte agli altri, proprio per questo. E cioè servendo le persone con lo stesso Spirito di Cristo.
Cristo ci mostra, mediante la sua umanità perfetta, l’amore che ci salva. Morendo di un amore totale per il Padre ci insegna a vincere il peccato e la morte. Ritrova la vita, mediante la risurrezione, dopo averla persa. Chi si umilia, ci ha detto il Vangelo di Luca, sarà esaltato (Lc 14, 1.7-14). Per questo, dobbiamo abbracciare e adorare la croce del Signore, farla nostra, accettare il suo peso come il Cireneo: per partecipare all’unica realtà che può redimere e trasfigurare tutta l’umanità (cf Col 1,24).
Ricevere la croce equivale a ricevere un mandato. Chi scopre che Gesù lo ama e lo chiama per nome, si sente inviato ad annunciarLo come Colui che ci ama fino a morire.
Cari giovani, rimanete fedeli a Gesù, state vicini a Lui. Mentre condividerete la sua vita non potrete non sentirvi chiamati a divenire “pescatori di uomini”, ossia annunciatori e testimoni del suo amore.