Solarolo - Chiesa di Felisio, 4 settembre 2016
04-09-2016
Sig. Sindaco, Signor Parroco,
Autorità civili e militari, Associazioni,
Cari fratelli e sorelle,
con il suo Vangelo Gesù ci presenta le condizioni per seguirlo. La prima: se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli e le sorelle, e perfino la propria vita, non è un vero discepolo (cf Lc 14, 25-33). Gesù non chiede di non amare i propri cari ma di amarlo di più rispetto a loro. E il risultato è anche un potenziamento dell’amore per i propri familiari. La seconda condizione per essere autentico discepolo è quella di portare la propria croce e di seguirLo. In sostanza, il discepolo è tale quando vive, come Gesù, un amore senza misure, che non si arrende, non tradisce, ma è fedele sino all’ultimo. Gesù desidera dai suoi discepoli che siano persone che non fanno le cose a metà, ma sono capaci di risposte libere e mature, sanno decidersi con determinazione e di prendere posizione, senza compromessi con ciò che è contrario a Lui. La terza condizione: la rinuncia a tutti gli averi per essere più liberi dall’ansia di possedere, dall’illusione di poter valere perché si è proprietari di tanti beni. Un uomo non vale per quanto possiede, o per il colore della sua pelle, ma per la qualità dei suoi sentimenti. La vita non dipende ultimamente dai beni che si hanno, seppure necessari, bensì dall’amore. L’essere prevale sull’avere. Oggi la Chiesa canonizza Madre Teresa di Calcutta. Una donna che ha mostrato di amare Cristo sopra tutto. Soleva ripetere: «Per me Gesù è il mio Dio, il mio Sposo, è il mio unico Amore, il mio Tutto». Seppe riconoscerlo nei poveri più poveri, per i quali abbandonò il proprio Paese, la sua professione di insegnante. Dio ha provato gioia nell’amare i diseredati, gli «scarti» della società mediante proprio la disponibilità e l’impegno di Madre Teresa. Ella ha, in certo modo, prestato il suo cuore e le sue mani a Dio, desideroso di raggiungere tutti, specie i più abbandonati. Il segreto dell’efficacia dell’opera di Madre Teresa era semplice: lasciare che Gesù prendesse pieno possesso della sua vita, così che Lui agisse in lei e attraverso di lei. Lei riteneva di essere una semplice matita nelle mani di Dio. Preghiamo santa Teresa di Calcutta perché ci aiuti ad essere discepoli autentici di Cristo.
Ricordiamo, poi, in questa S. Messa quella che è tristemente passata negli annali della storia come la strage del ponte Felisio (Solarolo, RA), perpetrata dai nazisti nei confronti di nove giovani contadini per rappresaglia. Nei mesi di agosto e settembre 1944 nella pianura ravennate era in atto una lotta clandestina, con numerosi attacchi e sabotaggi alla truppe d’occupazione.
Nella notte del 1 settembre a Solarolo, nei pressi del ponte sul Senio, qui vicino, si ebbe uno scontro fra partigiani e tedeschi in seguito al quale tre di questi ultimi rimasero uccisi. Il giorno successivo fu ordinato dai nazisti un grande rastrellamento nelle campagne circostanti con l’intento di arrivare ad una esecuzione esemplare.
Furono catturati i nove giovani contadini che, sommariamente interrogati tra minacce e torture, il pomeriggio stesso furono impiccati lungo la via Felisio e tenuti a lungo in macabra esposizione.
Quattro fascisti in divisa, che si tenevano a braccetto, narra una testimone, passeggiavano cantando canzoni oscene. Più in là, all’ombra di un albero, una tavolata imbandita con avanzi di cibo e bottiglie di vino.
La guerra, come è stato giustamente detto e ripetuto dai pontefici, è un’inutile strage. L’esecuzione sommaria e il modo barbaro dell’eccidio perpetrato qui a Felisio stanno a testimoniarci che essa può partorire abomini, fa dimenticare la fraternità – i fascisti non erano nazisti… ma italiani -, incattivire il cuore delle persone, rendendole disumane, senza pietà, crudeli all’inverosimile.
Perché ricordare tutto questo – ovvero l’insensatezza della guerra e l’abisso della malvagità umana – durante la celebrazione di una santa Messa? Sicuramente, per pregare per i defunti e i loro familiari, ossia per essere solidali nei confronti di chi è stato ingiustamente trucidato e di chi porta nel cuore il dolore di una somma ingiuria inflitta ai propri cari. Viene da chiederci: perché tanto odio e tanta brutalità verso inermi e innocenti? Che cosa può riparare una simile tragedia? Che cosa può rendere più lieve una così insopportabile offesa? Possono bastare le parole? Non di certo. Ancora una volta, dobbiamo riconoscere che solo il perdono – non certo perché pareggia i conti sul piano della riparazione, ma perché produce qualcosa di nuovo nelle relazioni e va al di là dell’umano – può porre le condizioni di una rinascita, di una ripartenza per le società dilaniate e devastate dai conflitti. Nel nostro caso si tratterebbe di offrire il perdono a spietati carnefici, che con ogni probabilità, hanno già sperimentato l’inesorabilità della morte «livellatrice» e si sono presentati di fronte a Dio.
Questo è quanto spesso ci rimane da fare: domandare perdono anche per coloro che non sono più in grado di chiederlo, nella speranza che quella giustizia che non è negata, anzi è presupposta dallo stesso perdono, si possa in qualche modo realizzare. Perdonare non significa assolutamente approvare l’assassinio, la guerra, i soprusi. È porre soprattutto un atto che affida i carnefici alla misericordia del Padre e che pone le condizioni di una nuova relazione tra le persone e i popoli. Cristo dall’alto della croce proferì: «Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23, 34). Nonostante subisse ingiuria e morte, Egli ebbe la forza di pregare per i suoi uccisori e desidera per loro il meglio, e cioè che capiscano il loro errore e si ravvedano. In quell’atto di perdono deve inserirsi il nostro. Perdonare non è essere deboli. Non è rinunciare alla giustizia, all’impegno per la costruzione della pace. È affidarsi ad una logica superiore, ad una visione più ampia della semplice legalità. È continuare a credere nella possibilità che l’uomo ha di rialzarsi e di riabilitarsi nonostante la sua fragilità.
Quale giustizia possiamo, dunque, pretendere e volere per questi nostri giorni che appaiono insanguinati da una terza guerra mondiale a pezzetti? Quella semplicemente umana? Ma può essa rigenerare interiormente le persone che uccidono i propri fratelli? L’esperienza ci dice che solo la misericordia di Dio, ricevuta e vissuta, fa rinascere e rivivere le persone, le rende capaci di amore e di giustizia. È mediante il perdono, ossia mediante il dono di un di più della semplice vita umana, che le persone rientrano in se stesse, riconoscono la loro colpa e, in certo modo, risuscitano e vivono in fraternità e in giustizia. Perdonando – che non vuol dire dimenticare le esigenze della giustizia: l’amore per l’altro implica che ci si renda discepoli della giustizia: come si può, infatti, amare una persona se non le si riconosce ciò che le spetta? – è più facile instaurare un mondo ove tutti si riconoscano e si amino come amici, vivendo in pace, prendendosi cura gli uni degli altri. Partecipando al Sacrificio di Cristo condividiamone l’impegno di costruire un mondo nuovo senza l’uso della violenza, ma con l’amore e il perdono. Facciamo comunione con il suo Spirito d’amore. Facciamo scelte giuste e coerenti con la nostra fede che ci fa vivere in comunione con Cristo.
Autorità civili e militari, Associazioni,
Cari fratelli e sorelle,
con il suo Vangelo Gesù ci presenta le condizioni per seguirlo. La prima: se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli e le sorelle, e perfino la propria vita, non è un vero discepolo (cf Lc 14, 25-33). Gesù non chiede di non amare i propri cari ma di amarlo di più rispetto a loro. E il risultato è anche un potenziamento dell’amore per i propri familiari. La seconda condizione per essere autentico discepolo è quella di portare la propria croce e di seguirLo. In sostanza, il discepolo è tale quando vive, come Gesù, un amore senza misure, che non si arrende, non tradisce, ma è fedele sino all’ultimo. Gesù desidera dai suoi discepoli che siano persone che non fanno le cose a metà, ma sono capaci di risposte libere e mature, sanno decidersi con determinazione e di prendere posizione, senza compromessi con ciò che è contrario a Lui. La terza condizione: la rinuncia a tutti gli averi per essere più liberi dall’ansia di possedere, dall’illusione di poter valere perché si è proprietari di tanti beni. Un uomo non vale per quanto possiede, o per il colore della sua pelle, ma per la qualità dei suoi sentimenti. La vita non dipende ultimamente dai beni che si hanno, seppure necessari, bensì dall’amore. L’essere prevale sull’avere. Oggi la Chiesa canonizza Madre Teresa di Calcutta. Una donna che ha mostrato di amare Cristo sopra tutto. Soleva ripetere: «Per me Gesù è il mio Dio, il mio Sposo, è il mio unico Amore, il mio Tutto». Seppe riconoscerlo nei poveri più poveri, per i quali abbandonò il proprio Paese, la sua professione di insegnante. Dio ha provato gioia nell’amare i diseredati, gli «scarti» della società mediante proprio la disponibilità e l’impegno di Madre Teresa. Ella ha, in certo modo, prestato il suo cuore e le sue mani a Dio, desideroso di raggiungere tutti, specie i più abbandonati. Il segreto dell’efficacia dell’opera di Madre Teresa era semplice: lasciare che Gesù prendesse pieno possesso della sua vita, così che Lui agisse in lei e attraverso di lei. Lei riteneva di essere una semplice matita nelle mani di Dio. Preghiamo santa Teresa di Calcutta perché ci aiuti ad essere discepoli autentici di Cristo.
Ricordiamo, poi, in questa S. Messa quella che è tristemente passata negli annali della storia come la strage del ponte Felisio (Solarolo, RA), perpetrata dai nazisti nei confronti di nove giovani contadini per rappresaglia. Nei mesi di agosto e settembre 1944 nella pianura ravennate era in atto una lotta clandestina, con numerosi attacchi e sabotaggi alla truppe d’occupazione.
Nella notte del 1 settembre a Solarolo, nei pressi del ponte sul Senio, qui vicino, si ebbe uno scontro fra partigiani e tedeschi in seguito al quale tre di questi ultimi rimasero uccisi. Il giorno successivo fu ordinato dai nazisti un grande rastrellamento nelle campagne circostanti con l’intento di arrivare ad una esecuzione esemplare.
Furono catturati i nove giovani contadini che, sommariamente interrogati tra minacce e torture, il pomeriggio stesso furono impiccati lungo la via Felisio e tenuti a lungo in macabra esposizione.
Quattro fascisti in divisa, che si tenevano a braccetto, narra una testimone, passeggiavano cantando canzoni oscene. Più in là, all’ombra di un albero, una tavolata imbandita con avanzi di cibo e bottiglie di vino.
La guerra, come è stato giustamente detto e ripetuto dai pontefici, è un’inutile strage. L’esecuzione sommaria e il modo barbaro dell’eccidio perpetrato qui a Felisio stanno a testimoniarci che essa può partorire abomini, fa dimenticare la fraternità – i fascisti non erano nazisti… ma italiani -, incattivire il cuore delle persone, rendendole disumane, senza pietà, crudeli all’inverosimile.
Perché ricordare tutto questo – ovvero l’insensatezza della guerra e l’abisso della malvagità umana – durante la celebrazione di una santa Messa? Sicuramente, per pregare per i defunti e i loro familiari, ossia per essere solidali nei confronti di chi è stato ingiustamente trucidato e di chi porta nel cuore il dolore di una somma ingiuria inflitta ai propri cari. Viene da chiederci: perché tanto odio e tanta brutalità verso inermi e innocenti? Che cosa può riparare una simile tragedia? Che cosa può rendere più lieve una così insopportabile offesa? Possono bastare le parole? Non di certo. Ancora una volta, dobbiamo riconoscere che solo il perdono – non certo perché pareggia i conti sul piano della riparazione, ma perché produce qualcosa di nuovo nelle relazioni e va al di là dell’umano – può porre le condizioni di una rinascita, di una ripartenza per le società dilaniate e devastate dai conflitti. Nel nostro caso si tratterebbe di offrire il perdono a spietati carnefici, che con ogni probabilità, hanno già sperimentato l’inesorabilità della morte «livellatrice» e si sono presentati di fronte a Dio.
Questo è quanto spesso ci rimane da fare: domandare perdono anche per coloro che non sono più in grado di chiederlo, nella speranza che quella giustizia che non è negata, anzi è presupposta dallo stesso perdono, si possa in qualche modo realizzare. Perdonare non significa assolutamente approvare l’assassinio, la guerra, i soprusi. È porre soprattutto un atto che affida i carnefici alla misericordia del Padre e che pone le condizioni di una nuova relazione tra le persone e i popoli. Cristo dall’alto della croce proferì: «Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23, 34). Nonostante subisse ingiuria e morte, Egli ebbe la forza di pregare per i suoi uccisori e desidera per loro il meglio, e cioè che capiscano il loro errore e si ravvedano. In quell’atto di perdono deve inserirsi il nostro. Perdonare non è essere deboli. Non è rinunciare alla giustizia, all’impegno per la costruzione della pace. È affidarsi ad una logica superiore, ad una visione più ampia della semplice legalità. È continuare a credere nella possibilità che l’uomo ha di rialzarsi e di riabilitarsi nonostante la sua fragilità.
Quale giustizia possiamo, dunque, pretendere e volere per questi nostri giorni che appaiono insanguinati da una terza guerra mondiale a pezzetti? Quella semplicemente umana? Ma può essa rigenerare interiormente le persone che uccidono i propri fratelli? L’esperienza ci dice che solo la misericordia di Dio, ricevuta e vissuta, fa rinascere e rivivere le persone, le rende capaci di amore e di giustizia. È mediante il perdono, ossia mediante il dono di un di più della semplice vita umana, che le persone rientrano in se stesse, riconoscono la loro colpa e, in certo modo, risuscitano e vivono in fraternità e in giustizia. Perdonando – che non vuol dire dimenticare le esigenze della giustizia: l’amore per l’altro implica che ci si renda discepoli della giustizia: come si può, infatti, amare una persona se non le si riconosce ciò che le spetta? – è più facile instaurare un mondo ove tutti si riconoscano e si amino come amici, vivendo in pace, prendendosi cura gli uni degli altri. Partecipando al Sacrificio di Cristo condividiamone l’impegno di costruire un mondo nuovo senza l’uso della violenza, ma con l’amore e il perdono. Facciamo comunione con il suo Spirito d’amore. Facciamo scelte giuste e coerenti con la nostra fede che ci fa vivere in comunione con Cristo.