OMELIA nel X anniversario della scomparsa del vescovo TARCISIO BERTOZZI

Faenza, Basilica Cattedrale, 20 maggio 2006
24-05-2006

A dieci anni ormai dalla prematura scomparsa del Vescovo Francesco Tarcisio Bertozzi, il nostro ricordo si fa sempre più riconoscente al Signore per il dono grande che è stato per la nostra Chiesa diocesana la persona e il ministero di questo Vescovo.
La Parola di Dio che la VI domenica di Pasqua ci ha offerto in questa liturgia prefestiva, ci ha aperto il cuore alla considerazione del ‘centro della fede cristiana’, come ha scritto il Papa Benedetto XVI all’inizio della sua Enciclica: ‘Dio è amore’.
‘In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi, scrive S.Giovanni: Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui’. E mediante la Chiesa, Cristo arriva fino a noi, raggiungendoci personalmente con il ministero degli apostoli e dei loro successori, e mediante la grazia dei sacramenti. Anche il vescovo e il sacerdote sono segno dell’amore di Dio, e quanto più il segno è trasparente, tanto più possiamo cogliere l’amore di Dio per noi. Ringraziamo il Signore per il dono del sacerdozio, e per averci donato sacerdoti santi come il Vescovo Tarcisio.
Ma che cosa pensava il vescovo Tarcisio del sacerdozio cattolico? Se ne può avere una chiara indicazione nelle omelie del giovedì santo, che ogni anno teneva davanti ai sacerdoti riuniti per la messa crismale.
‘Tutto appare utile, leggiamo nell’omelia del 1995, ma l’impegno della nuova evangelizzazione chiede a tutti di puntare sull’essenziale. Senza una profonda intimità con Cristo e un sereno abbandono all’azione dello Spirito in primis per noi come presbiterio diocesano, non si potrà mai far crescere la nostra Chiesa nel suo insieme. Nel suo essere e nel suo agire il sacerdote è chiamato a rivelare l’amore di Dio come fu espresso dal Buon Pastore’.
Nel vangelo di San Giovanni abbiamo sentito l’insistenza di Gesù nell’invitare gli apostoli a
rimanere nel suo amore. Non è tanto la
condivisione di un particolare momento emotivo di Cristo in prossimità della morte, quanto una precisa indicazione di un rapporto necessario per la vitalità della missione. C’è un parallelismo forte tra la missione di Cristo e quella degli apostoli, e quindi con la missione dei vescovi e dei sacerdoti: come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi; come il Padre ha amato me, anch’io ho amato voi; come io rimango nell’amore del Padre, anche voi rimanete nel mio amore. Ha ragione il vescovo Tarcisio nel dire che ‘senza una profonda intimità con Cristo’ anche l’impegno per la nuova evangelizzazione non avrà l’efficacia necessaria per ‘far crescere la nostra Chiesa nel suo insieme’.
Del resto fin dalla prima chiamata il Signore entra in un rapporto personale con i suoi ministri: ‘Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi’. L’intimità di cui parla il Vescovo Tarcisio possiamo essere certi che non era solo una convinzione speculativa, ma era vissuta in modo esemplare, con il tempo della preghiera nella cappella del vescovado, da lui voluta rinnovata e abbellita.
E come sarà stata la sua confidenza con il Signore nel tempo in cui ormai la malattia si era manifestata in tutta la sua forza, il tempo di fronte alla morte quando la percezione dell’abbandono da parte di Dio unisce ancora di più alla passione di Cristo in croce? Con quale animo avrà scritto la lettera fatta leggere il giovedì santo del 1996, poco più di un mese prima di morire, nella quale riprende le parole di don Tonino Bello: ‘La sosta sulla croce ci è consentita solo da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Dopo ognuno verrà schiodato e il sole della Pasqua squarcerà le nuvole’?
Non so quanto sia durata la sosta sulla croce del Vescovo Tarcisio. E’ vero tuttavia quello che rilevava già il Card. Biffi nell’omelia della messa esequiale: ‘Alla fine è riuscito a dirci nella maniera più efficace, a prezzo di intensi patimenti, che il vertice della carità è l’immolazione di sé, secondo la parola del Maestro: ‘ Nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita’ (cfr. Gv 15,13)’.
E’ stata proprio la sua sofferenza, non simulata, ma portata con semplice dignità, ad avvicinarlo ancor di più alla gente. Come non ricordare la Messa per la festa della Madonna delle Grazie, da lui presieduta dalla carrozzina, in mezzo ai due Cardinali, che è diventata il suo saluto a Faenza?
‘Anch’io sono un uomo’, abbiamo sentito dire da San Pietro nella prima lettura; e cosa c’è di più umano della sofferenza e della morte, alla quale nessuno può scampare? Questo aspetto umano, e l’esempio della pazienza mostrata nella prova, ha fatto conoscere nella sua grandezza morale e spirituale la figura del Vescovo Tarcisio.
Vorrei concludere questi pochi pensieri ricordando l’invito che nell’omelia citata il Card. Biffi faceva:’Altri, con più agio e in sede più opportuna, potrà mettere in luce ‘ con analisi appropriate ‘ la rilevanza che hanno avuto nella storia di questa diocesi i quasi quattordici anni dell’episcopato di Monsignor Bertozzi, anni pervasi dal desiderio di rinnovare tutto nell’autenticità, e di ringiovanire in ogni struttura e in ogni cuore la vita ecclesiale’.
A dieci anni dalla sua scomparsa forse è un impegno che resta ancora da adempiere, per non rischiare di perdere la grazia che è stata fatta alla nostra Chiesa con il dono del Vescovo Tarcisio. Anch’egli potrebbe dirci: ‘Rimanete nel mio amore, nell’amore che ho avuto per la Chiesa di Faenza-Modigliana per la quale ho speso la mia vita, amore che non è venuto meno quando Cristo mi ha chiamato accanto a Sé’. E’ una consegna che sentiamo di poter fare nostra, mentre preghiamo ancora per lui e ringraziamo il Padre per avercelo dato.