Omelia per l’incontro dei giovani a Gamogna e la Consegna del Vademecum sinodale

24-09-2017

Carissimi giovani, le letture di oggi ci aiutano a vivere in un’altra dimensione, ad avere altri occhi per vedere ciò che abitualmente non vediamo, a vivere Cristo, ad avere altri pensieri rispetto a quelli che ci guidano nella quotidianità.

Essere qui a Gamogna non è casuale. È stato scelto appositamente, per calarci dentro nella nostra vita e scorgervi meglio la dimensione che la attraversa tutta e che corrisponde alla chiamata fondamentale: essere per la Gioia, per Dio Amore, per vivere Cristo, per annunciarLo.

Il titolo del Vademecum, che vi viene consegnato oggi, Chiamati alla Gioia, allude proprio alla nostra vocazione, ci immette in uno scenario che spesso intuiamo, è sullo sfondo, ma che non è sempre in primo piano, ben focalizzato. È orizzonte che ci introduce soprattutto nei pensieri di Dio, nelle sue vie, in pensieri e vie che come ci ha detto il profeta Isaia (cf Is 55, 6-9), sovrastano i nostri pensieri e le nostre vie.

Sentirsi chiamati alla Gioia significa guardarsi in profondità, e riscoprirsi sagomati, nell’essere e nella psicologia del nostro io, secondo i pensieri di Dio, secondo il suo atto creativo e redentore. Significa scorgere in noi una tensione verso di Lui, una inclinazione per l’intimità con Lui. Il nostro cuore è alla ricerca ed è inquieto finché non riposa in Lui, come ha ben espresso sant’Agostino.

Per essere più noi stessi, più liberi, più gioiosi, bisogna che scendiamo in noi ed entriamo nel modo di vedere di Dio, diventiamo pellegrini verso di Lui, per incontrarLo e donarci. Altrimenti rimaniamo incapsulati nelle nostre piccole vedute, nelle nostre paure e chiusure. Non ci percepiamo e non ci amiamo come persone fatte per abitare il cielo, per essere portatori di Dio, di Cristo, prototipo della nostra esistenza.

Come dice san Paolo nella Lettera ai Filippesi (cf Fil 1, 20c-24.27a) noi siamo fatti per vivere Cristo. Siamo fatti per non essere sopraffatti dalla nostra caducità e dalla fragilità morale, dalle ansie, ma per entrare nell’infinito d’amore di Dio, per vivere i sentimenti del Figlio di Dio, la cui immagine è stampata nelle fibre del nostro essere e nell’intimo della nostra coscienza, pervasi dal costante anelito ad eguagliarla.

La parabola del padrone di casa che esce dall’alba sino a sera, e chiama a lavorare nella sua vigna, ci fa entrare in una dimensione di trascendenza, ci aiuta a leggere la nostra esistenza con prospettive diverse.

Dio desidera che nella vita non siamo senza impegni, senza responsabilità, senza mete alte, senza la possibilità concreta di realizzarle. Perché ve ne state qui seduti tutto il giorno senza far niente, dice il padrone della vigna? Dio non ci vuole con le mani in mano, non ci ha fatti per stare seduti, ossia per essere persone senza prospettive di impiego, senza occupazione. La vigna è la Chiesa, è il mondo, l’umanità. Gli operai siamo noi. Dio ci chiama a lavorare nella Chiesa e nel mondo. Dio è preoccupato sì della sua vigna, ma ancor più di noi, del nostro essere inoccupati, che ci tiene lontano da una esistenza coinvolta nel lavorare per far crescere la comunità ecclesiale, la società. Ci cerca come lavoratori della «vigna». Desidera che diventiamo capaci di coltivare e sviluppare il creato, capaci di costruire la comunità ecclesiale. Non vuole che rimaniamo fuori dai cantieri ove il lavoro è in progress.

Non vi pare che il Vangelo di oggi ci conduca verso l’impegno del Sinodo dei giovani, che ha tra i suoi obiettivi quello di coscientizzare e di responsabilizzare nella costruzione dell’edificio spirituale che è la Chiesa e quello di accompagnare i giovani per farli diventare cultori e protagonisti della civiltà dell’amore?

Nella parabola di oggi è descritto anche il momento in cui il padrone, mediante il fattore, dà la paga ai lavoratori della vigna. Si tratta di un aspetto che non deve sfuggirci e che ci aiuta ad entrare entro prospettive inusuali. Il padrone intanto incomincia dagli ultimi operai, che hanno lavorato un’ora soltanto. Paga un’ora quanto una giornata di dodici ore. Questo deve già farci capire che il padrone della parabola è differente dagli altri padroni. Egli è Dio stesso, che invita tutti al lavoro in una vigna che non è tanto quella delle campagne e delle colline. Se, poi, teniamo conto del suo modo di ricompensare gli ultimi operai, notiamo che Egli dà a ciascuno il meglio, non si attiene alle regole del mercato. In sostanza, non è un Dio che paga come fanno gli imprenditori che conosciamo, i quali contribuiscono alla ricompensa che il lavoratore trova in busta paga e nell’insieme dei servizi che sono garantiti ai cittadini dalla comunità politica. È questo che dobbiamo comprendere. Per chi lavora nella vigna del Signore la paga è uguale per tutti ed è ultimamente rappresentata da Dio stesso. A qualunque ora uno arrivi a lavorare la paga è la stessa, ossia è la vita di Dio in persona. Di fronte a questo non c’è posto per recriminazioni: Dio dà agli ultimi quanto ai primi, infinitamente di più di una paga contrattata, e cioè dona la salvezza. L’apparente ingiustizia nei confronti degli operai della prima ora (i Giudei, la comunità cristiana primitiva) scompare. Anche ad essi, come agli ultimi (pagani convertiti), è dato più che il pattuito tra padrone e lavoratore. La parabola, insomma, vuol farci capire qualcosa di diverso rispetto ad un rapporto qualsiasi di lavoro, e cioè che Dio si muove e ricompensa sul piano della salvezza. Dà il massimo, un bene infinitamente più grande di una semplice paga. Non dobbiamo applicare alla parabola un modo di pensare prettamente mercantile. Siamo su un altro piano rispetto allo scambio degli equivalenti. Dio con la sua Bontà e generosità fa saltare qualsiasi conteggio fondato sul principio della giustizia sociale. I pensieri di Dio, il suo modo di comportarsi superano i nostri pensieri, il nostro modo di agire.

Qual è, allora, il vantaggio ad essere operai della prima ora? Questo è l’interrogativo che può sorgere nella mente di chi è già da tempo impegnato nella catechesi, nell’animazione, nelle opere di carità. Solo un supplemento di fatiche e di crucci? Credo che si possa rispondere in questa maniera. Il vantaggio è quello di aver dato di più a Dio, alla Chiesa e al mondo, ossia di aver seminato la Parola di Dio, di aver fatto fruttificare di più i giovani coetanei, di aver testimoniato la vita buona secondo il Vangelo, di aver custodito il creato, casa comune. Nella casa di Dio più che alla paga si deve ambire ad avere il suo aiuto e la sua luce. Abbiamo bisogno di non abbandonare l’impegno del lavoro nelle grandi vigne da coltivare, di non rinunciare a seminare i grandi campi, quali quelli che oggi troviamo davanti a noi nel nostro territorio. Davvero la messe è molta e gli operai sono pochi. Abbiamo soprattutto bisogno di vivere Gesù Cristo, la sua passione per il Padre. Egli è il nostro Tutto. Chi vive nel Tutto, che è Dio amore, non ha bisogno di ulteriori ricompense. Basta Lui.

Per vivere bene il Sinodo dei giovani preghiamo in questa Eucaristia così: Signore fa che abbia i tuoi pensieri, il tuo Amore. Aiutami a vivere Te. Fammi capire che lavorando nella tua vigna Tu sei la paga più ambita e desiderabile.