Omelia per la Festa di San Michele 2017

29-09-2017

Oggi festeggiamo gli Arcangeli Raffaele, Gabriele e Michele. Quest’ultimo è patrono di questa comunità. Tutti e tre i nomi degli Arcangeli  che oggi ricordiamo, finiscono con la parola “El”, che significa «Dio». Dio è scritto nei loro nomi ma soprattutto è scolpito nel loro essere, nel loro operare. La loro vera natura è l’esistenza in vista di Lui e per Lui. Sono messaggeri di Dio. Sollecitano ad accogliere Dio e il suo progetto. Possiamo dire che essi svolgono il compito di missionari. Invitano ad accogliere Dio per diventarne annunciatori coraggiosi, capaci di sconfiggere il male e di instaurare il regno del nostro Dio, lavorando nella sua vigna, che sappiamo essere la Chiesa, l’umanità, il creato, noi stessi.

Il Vangelo scelto per oggi (cf Mt 21, 28-32), come quello della domenica scorsa, parla proprio della vigna del Signore. Egli, a qualsiasi ora della giornata, cerca lavoratori. Non gli piacciono i disoccupati, coloro che stanno con le mani in mano. Paga tutti allo stesso modo, gli operai della ultima ora come quelli della prima, non con criteri mercantili, secondo la logica dello scambio degli equivalenti. Dà a tutti più che un compenso economico. Dona se stesso, ossia la salvezza. Chi lavora nella Chiesa, in mezzo agli uomini, vivendo Cristo, annunciandolo, testimoniandolo, riceverà, alla fine della sua esistenza, ovvero al termine della giornata terrena, pienezza di vita, il Tutto che è Dio. Egli è la ricompensa più ambita e desiderabile. Appaga ogni anelito e colma ogni forma di giustizia.

Nella parabola odierna si prosegue il discorso sulla vigna e si concentra l’attenzione sulla reazione che i due figli del padrone hanno rispetto al comando di andarvi a lavorare. Il primo figlio rispose: non ne ho voglia, ma poi si pentì e vi andò. In breve, al comando del padre reagisce dapprima in maniera impulsiva, sfidandolo, ma alla fine ci ripensa ed obbedisce. Il secondo figlio dice «sì, signore», ma non va a lavorare nella vigna. È formale. Teme di fare brutta figura, perciò si mostra apparentemente obbediente. È, però, una persona doppia, di facciata, insincera.

Alla luce della parabola non possiamo non leggere gli atteggiamenti di noi credenti chiamati, col battesimo, a lavorare sia nella Chiesa di Gesù Cristo per edificarne il corpo spirituale sia nel mondo per essere costruttori della civiltà dell’amore. Spesso ci mostriamo incoerenti come il secondo figlio. Ci dichiariamo della Chiesa, ma ci manca in realtà il senso di appartenenza e di responsabilità. E così non lavoriamo per essa, secondo quella missione che ci vuole annunciatori e testimoni credibili di Cristo. Pur dicendoci cristiani siamo nella Chiesa in maniera stanca, poco convinta, senza spirito missionario, per di più soprafatti dalla paura di dirci cristiani e, quindi, con un complesso di inferiorità rispetti ai non credenti. Spesso capita di percepire tra noi credenti il timore di presentarci come cattolici, perché ciò sarebbe divisivo, controproducente negli ambiti in cui si collabora con gli altri al servizio del bene comune. La propria identità è ritenuta un impedimento al dialogo pubblico, alla cooperazione, alla sinergia necessaria per affrontare con più incisività i problemi sul tappeto. Il bisogno di interfacciarsi con altri, aventi fede e visioni diverse, induce al diniego della propria tradizione e religione.  In realtà, la necessità di trovare punti di convergenza, piattaforme comuni, come anche la necessità di insistere di più su ciò che unisce anziché su ciò che divide, non comanda il rifiuto di se stessi, del proprio credo. Il credente autentico sa che la sua fede non gli è di impedimento nel dialogo. Non rimpicciolisce gli spazi di collaborazione su cose giuste e buone. Li allarga e li rende più solidi. La fede non mortifica l’umano. Lo rafforza, lo eleva, divinizzandolo. Le persone che non coltivano la propria identità cristiana finiscono per perdere di vista la visione della persona intesa in senso integrale, la sua dignità, che è data dalla capacità di ricercare il vero, il bene e Dio; la dimensione della trascendenza, la prospettiva di un’economia, del lavoro, della politica, dei mass media come attività che debbono servire alla fioritura della vita umana, della libertà e della responsabilità. Si finisce, in sostanza, per perdere quegli ancoraggi antropologici, etici e sociali che sono fondamentali per vincere l’odierna precarietà del lavoro e le diseguaglianze crescenti.

Il credente non deve dimenticare che è più idoneo a servire la società e il bene comune se ama realmente Gesù Cristo, se si mantiene fedele alla sua identità cristiana. Analogamente deve pensare che è più stimato e considerato se partecipa al dialogo pubblico con la sua ricchezza di umanità, con quell’onestà e con quella rettitudine che gli derivano dallo Spirito d’amore di Dio, fonte della giustizia più grande. Né la Chiesa né il mondo traggono vantaggio da cristiani di facciata. Sono più benefiche e giuste le persone che compiono la volontà di Dio. È veramente duro il rimprovero  che Cristo rivolge a coloro che non sono fedeli a Dio: i pubblicani e le prostitute vi passeranno avanti nel Regno di Dio. Il motivo è semplice. Se all’inizio hanno detto di «no» all’invito a lavorare nella vigna, successivamente hanno cambiato vita e hanno amato sopra ogni cosa Dio, facendo sì che la vigna producesse molti frutti.

Preghiamo san Michele, messaggero di Dio, perché ci aiuti ad essere cristiani autentici, coerenti con la nostra vocazione, che ci vuole fatti per la Gioia, ossia per Dio-Amore. Siamo non cristiani di facciata, ma di sostanza. La comunione con Cristo ci renda un’esistenza in vista di Lui, per Lui.