OMELIA per la MESSA ‘IN COENA DOMINI’

Faenza - Basilica Cattedrale, 2 aprile 2015
02-04-2015
Cari Fratelli nel sacerdozio,
Cari Fratelli e Sorelle,
 

  1. «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1).

Ecco quanto testimonia l’evangelista Giovanni. Gesù ama i suoi discepoli sino all’estremo sacrificio. E, in questo suo percorso di dedizione totale, non esita a farsi servo per lavare i loro piedi. Depone le vesti della gloria divina per compiere il servizio dello schiavo, in modo da renderli degni di assidersi alla sua tavola. L’evangelista prediletto ci dice che Gesù, che è Dio, si abbassa per compiere un atto di umiltà. Ma è proprio mentre lava i piedi dei discepoli che mostra chi Egli veramente è: ossia un Dio che ama e che si svuota completamente nel dono di sé. Per un certo verso, si potrebbe dire che, in quel gesto, il Signore non dismette le sue vesti gloriose. Essendo Amore, la verità della sua incarnazione risplende nel servizio dello schiavo, che Egli non disdegna di prestare.
È questa kénosis d’amore che rende visibile il vero significato di incarnazione e redenzione!
Mentre lava i piedi certamente polverosi dei suoi discepoli, Gesù lava i piedi di ognuno di noi, al fine di purificarci e renderci degni di Lui. Solo così potremo essere ammessi a quella mensa su cui Egli si offre nella sua donazione totale al Padre e all’uomo, fino ad accettare la morte e una morte di croce. Con il suo gesto, Gesù intende invitare i discepoli a partecipare al suo stesso sacrificio; elevarli all’altezza del suo amore divino senza misura, per sconfiggere il peccato, vincendo il male con il bene, perdonando i nemici.
 Il Signore Gesù è continuamente in ginocchio ai nostri piedi per renderci il servizio della purificazione – specie nei sacramenti del battesimo e della riconciliazione – e farci partecipare pienamente al Sacramento eucaristico da Lui istituito nell’Ultima Cena, Sacramento del dono totale del suo Corpo e del suo Sangue sino al suo ritorno. Togliendo il nostro peccato, ci consente di compiere il nostro sacrificio nel Suo, di tornare a Dio in Lui, Sommo Sacerdote: Colui che, donandola, rende gradita e «sacra» la propria vita agli occhi di Dio Padre, sostituendo finalmente l’agnello pasquale e tutti i sacrifici dell’Antica Alleanza.
Lavando i nostri piedi, Cristo ci chiede di imitare questo suo gesto d’amore, per renderci capaci di Dio, della sua vita di dono e di misericordia.
 

  1. «Voi siete mondi, ma non tutti».

A fronte del dono totale di Cristo al Padre e all’umanità intera, esiste purtroppo la drammatica realtà del rifiuto da parte dell’uomo. Giuda testimonia questo oscuro mistero. L’amore di Dio, offerto da Cristo, non ha confini, ma l’uomo può contrastarlo, negandosi alla sua accoglienza. Le persone, infatti, sono libere di chiudersi all’amore donato. Rinunciando ad amare, non solo divengono incapaci di cibarsi dell’amore divino, ma non possono neppure raggiungere quella pienezza umana e cristiana, che solo la partecipazione al sacrificio e al sacerdozio di Cristo può proporzionare.
La tragedia di Giuda si consuma appunto nel rifiuto, nel non voler amare come Cristo ama. Per l’apostolo traditore, l’amore di Cristo al Padre e all’umanità è incomprensibile. Aspettava un Messia terreno, essendo interessato al potere e al successo mondano. Per la sua avidità – «era un ladro», ci dice Giovanni – il denaro è è più importante della comunione con Gesù, più prezioso di Dio e del suo amore. Giuda ritiene di poter cambiare il mondo da solo, senza l’aiuto di Dio, senza vivere l’amore di Cristo, l’Uomo nuovo. E così, tradisce l’Amico che aveva riposto in lui la sua fiducia, rompe con la verità e di conseguenza perde il senso del Bene supremo che è Dio. Alla fine,  accecato dalla disperazione, perché incapace di credere in questo amore fatto essenzialmente di perdono, piomba nel baratro del suicidio.
Cari fratelli e sorelle, non lasciamoci rubare l’amore di Cristo, la sua comunione con Dio, sommo Vero e sommo Bene. Non chiudiamo la porta del nostro cuore ai sentimenti di Cristo, perché dal  suo amore dipende la pienezza della nostra vita. Solo se dimoriamo in Lui, solo se Lo viviamo, riusciremo a ridare una gerarchia alla nostra scala di beni-valori. Vi riusciremo, togliendo il primo posto al dio denaro, al successo, alla tecnica, ai consumi e ricollocando al vertice Dio Padre, alfa ed omega di tutta la vita.
In questo periodo, la Chiesa italiana sollecita ogni uomo e donna di buona volontà a divenire protagonisti di un nuovo umanesimo in Gesù Cristo. Un umanesimo plenario, comunitario, solidale, aperto alla Trascendenza, potrà germogliare nelle nostre esistenze, nei nostri ambienti, nelle nostre case e comunità, nei nostri centri di accoglienza e di ascolto, negli ambiti della cooperazione e della politica, nelle istituzioni e nelle leggi, se sapremo accogliere l’amore incondizionato di Cristo. Non possiamo umanizzarci ed umanizzare la società senza ricorrere alla forza innovatrice e trasfiguratrice dello Spirito d’amore del Padre e del Figlio. Ci è richiesto di non valutare la nostra ed altrui esistenza, i beni collettivi e il bene comune alla stregua di una merce, avendo come riferimento soltanto la categoria del profitto. Evitiamo di cadere nella superbia di chi pensa di non aver bisogno di purificare le proprie intenzioni e di convertirsi, di chi confida unicamente nelle proprie forze, di chi coltiva un amore illimitato di sé, sino a credersi quasi un dio. La chiusura all’amore paterno e misericordioso del Padre comporta inevitabilmente la chiusura ai fratelli, specie ai più deboli. Se li intercettiamo, essi al massimo divengono per noi solo strumenti per affermarci, ma mai fratelli da incontrare, da amare incondizionatamente e da accogliere come un «tu» con pari dignità. Se non crediamo all’amore misericordioso di Dio, le nostre vite rischiano di diventare un inferno insopportabile, come quella di Giuda, il cui cuore indurito gli ha impedito di ritornare a Gesù, per essere perdonato e restituito alla gioia del dono di sé.
 
 

  1. «Vi ho dato l’esempio…». «Anche voi dovete lavarvi i piedi…»

Fermiamoci ancora per qualche istante su due versetti della pericope evangelica di Giovanni: «Vi ho dato l’esempio…» (Gv 13,15); «Anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri» (Gv 13,14).
Che cosa significa in concreto il «lavarci i piedi gli uni gli altri»? Sicuramente può indicare ogni atto disinteressato. Farsi «prossimo» di chi ha bisogno. Essere samaritani e non passare oltre. Essere, in definitiva, una «Chiesa che serve», estroversa, non autoreferenziale e ripiegata su se stessa, bensì una «Chiesa del grembiule», come soleva ripetere don Tonino Bello, rimpianto vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi , che molti conoscono.
Eppure, come insegnava don Tonino, c’è una dimensione ancora più profonda in questo essere imitatori di Cristo che lava i piedi.
Significa soprattutto perdonarci gli uni gli altri senza stancarci mai, per ricominciare insieme sempre di nuovo. Significa purificarsi, sopportandoci a vicenda, e accettando di essere sopportati dagli altri. Significa vivere nella comunione, servendola. Più che essere efficienti dal punto di vista organizzativo, permettetemi di ribadire che è pregiudiziale per noi che vogliamo dirci cristiani, esistere nella comunione. Le nostre comunità, prima di essere istituzioni, debbono essere comunità di comunione intensa con Cristo, vivendo in Lui e per Lui. Solo così potremo essere certi di dar vita a istituzioni vive, positive, dotate di spirito di servizio, e non semplicemente luoghi ove ognuno cerca di ritagliarsi uno spazio, per contare ed influire di più. Dobbiamo   essere imitatori di Cristo non solo divenendo capaci di dare da mangiare agli affamati, di visitare i carcerati, di vestire chi è senza indumenti, praticando cioè una carità assistenziale, ma donando Dio stesso, il Bene più grande, mediante una nuova evangelizzazione, «nuova», perché sottoposta ad una costante conversione spirituale e pastorale. Occorre che sappiamo «regalare» Gesù Cristo, di modo che tutti lo possano incontrare, perché solo Lui – e non tanto noi – può salvare e redimere! Dobbiamo servire ogni persona di ogni età, credo, etnia facendo percepire la fragranza dell’amore che Cristo stesso ha riversato in noi con il suo Spirito. Come Cristo, diventeremo allora pane che si spezza per la gioia e la speranza degli uomini e delle donne del nostro tempo. Proponiamoci allora di servire le persone non come dei burocrati, bensì come testimoni credibili dell’amore sconfinato di Colui che è, sì, vero Dio, ma al tempo stesso vero uomo, e come tale strettamente partecipe delle nostre gioie e sofferenze. E proveremo allora la gioia di introdurre i fratelli nel Sacramento dell’eterno banchetto nuziale, affinché possano celebrare una vita che diviene gloria di Dio. Siamo sacerdoti nel Sommo Sacerdote! Preghiamo per esserlo. E preghiamo, perché vi siano santi ministri di Cristo. Come insegnava Padre Andrea Gasparino, fondatore del Movimento contemplativo, preghiamo Dio perché i nostri sacerdoti siano preti «a tempo pieno», non «occasionali» ma autentici, che ci trasmettono Cristo senza mezzi termini, senza paure. Sacerdoti stracolmi di Dio, come il santo curato d’Ars, impastati di preghiera, dalle ginocchia robuste, per adorare, impetrare, espiare. Quando i preti pregano, il popolo è sicuro.
Che san Pier Damiani, secondo patrono di questa nostra bella città, ci aiuti con il suo insegnamento e con il suo esempio!