OMELIA nella CELEBRAZIONE DEL VENERDI’ SANTO

Faenza - Basilica Cattedrale, 3 aprile 2015
03-04-2015
  1. È stato annoverato con gli empi

Gesù muore «extra muros», «fuori della porta della città» come leggiamo nella Lettera agli Ebrei (13,12s.). Perché rifiutato dalla comunità di Israele, viene escluso dal luogo santo della presenza di Jahvé. La croce di Gesù è innalzata dove vengono suppliziati i peccatori, i maledetti da Dio. Cristo viene crocifisso in quel luogo, perché accusato di empietà, di opporsi al volere di Dio. Non poteva finire altrimenti: aveva scandalizzato i benpensanti, mangiato con i peccatori, infranto le regole di purità e affermato addirittura di essere il Messia.
Il destino del Signore appare tragico ed assurdo a un tempo. Il popolo eletto, a cui era stato inviato per redimerlo e liberarlo, lo rifiuta, lo mette a morte con il supplizio infamante riservato a coloro che sono respinti da Dio. Gesù Cristo è crocifisso fuori dalla città, affinché sia chiaro che la casta sacerdotale e la popolazione non hanno nulla da spartire con Lui, perché non credono in un Messia venuto a cambiare il mondo con una missione di passione e di amore.
Oggi, a differenza di coloro che l’hanno respinto, noi siamo qui in ginocchio ai piedi della croce, per confessare la nostra fede nella potenza trasfiguratrice e rivoluzionaria del suo immenso amore.  Per noi, la croce di Cristo è l’albero della vita piena, della vittoria sul male e sulla morte. È la via che conduce alla felicità. Là ove c’è il dono di sé, c’è anche la gioia, come riscontro naturale di un’esistenza dinamica e ricca.
Fissando il volto sfigurato del Cristo crocifisso, non vediamo una sconfitta, bensì la vittoria finale sul male, ottenuta mediante il sacrificio estremo. Cristo sulla croce è lo spettacolo più consolante per tutti gli uomini, perché rappresenta il dono allo stato puro. Dall’alto di quel terribile patibolo, paradossalmente diviene polo perenne di attrazione, come egli stesso aveva predetto: «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Rifiutare la croce di Cristo significa rifiutare la sua redenzione, la sua azione trasfiguratrice dell’umanità, mediante una vita che si dona in pienezza, senza residui. Dopo l’incarnazione, l’ascensione al calvario è anche l’ascensione dell’umanità verso una vita di dono che non esclude la croce. Chi si dona in pienezza, camminando dietro a Gesù, non può non incontrare sulla sua strada la croce, come avvenne per tanti missionari eroici, partiti anche dalle nostre comunità e che sono stati uccisi. Basti pensare a padre Daniele Badiali, che abbiamo ricordato recentemente a Modigliana, in una chiesa gremita di giovani. Il credente non abbraccia la croce per la croce. Abbraccia, ama sopra di tutto Cristo. Condividendo la sua vita è naturale condividere la sua croce, segno di un amore senza misure. Noi saremo redenti solo se rimarremo uniti a Cristo crocifisso, che ci rende capaci di amare come Lui ci ama, facendo della nostra esistenza un dono totale agli altri, in docile obbedienza alla volontà di Dio, con un atteggiamento di libertà interiore e di distacco dalle cose mondane.
Per noi cristiani, la Croce è la tappa finale dell’itinerario di ritorno a Dio dell’umanità. È il luogo della nostra trasfigurazione e divinizzazione. In essa troviamo finalmente l’approdo del nostro anelito più intimo, di non essere mai separati dall’amore di Dio. In noi, carissimi fratelli e sorelle, è insito un insopprimibile bisogno di un amore assoluto, senza fine, che non può essere annientato dalla morte. Con la sua vittoria finale,  Cristo crocifisso ce ne fa partecipi e così diventa la nostra speranza, perché anche noi possiamo vivere il suo amore indistruttibile, unendoci alla sua offerta sacerdotale, alla sua lotta contro il male con le armi del bene e del perdono.
 

  1. La croce  non è la fine dell’esistenza, bensì l’apertura di un varco verso la pienezza, che è la vita eterna.

Con l’incarnazione, il Signore Gesù accetta di discendere anche nelle tenebre della morte, che alla fine ne usciranno sconfitte. Egli scende sino a visitare quelli che risiedono negli inferi, per scuoterne il regno e liberare quelli che, come Adamo ed Eva, vi sono prigionieri. Dio non ha creato l’umanità perché rimanesse intrappolata nell’inferno. Ci vuole risorti dai morti. Cristo, incarnato nella morte e disceso negli inferi, risorto dal Padre, diventa per tutti il Pastore dagli occhi grandi che conduce le sue pecore oltre le tenebre della morte e degli inferi. Cristo ci conduce e conosce tutte le nostre vie anche quella che passa per la valle della morte. Egli è Colui che, anche sulla strada dell’ultima solitudine nella quale nessuno può accompagnarmi, ci viene incontro, cammina accanto e ci guida, avendola già percorsa lui stesso. Dopo la sua vittoria, ritorna per accompagnarci e darci la certezza che, insieme a Lui, troveremo il passaggio verso la vita vera, nella quale saremo stabilizzati (cf Benedetto XVI, Spe salvi, n. 36). Proprio per questo dobbiamo pensare alla nostra  morte non come un cadere nel nulla. Noi siamo esseri per la risurrezione, per la vita incorruttibile.
 

  1. La passione di Cristo è la nostra passione.

Dopo il suo abbassamento nel miracolo dell’incarnazione, in cui è divenuto uno di noi e in tutto simile a noi tranne che nel peccato, la sua passione è anche la nostra e, viceversa, la nostra passione è anche la sua. La sua passione non è racchiusa nel passato, ma abbraccia tutti i tempi, tutte le persone, tutte le generazioni. Cristo soffre nell’umanità: in noi, con noi e per noi. Soffre con ogni persona di oggi e di domani. Ci cammina accanto. Ci aiuta a portare il peso della nostra croce. Le nostre malattie, le nostre lacrime, le nostre pene e i nostri affanni, quando sono vissuti uniti a Lui, acquistano un senso diverso. Diventano occasione di crescita spirituale, di purificazione, di una donazione più grande di noi stessi, di una speranza più forte. Peraltro, sappiamo che tutto ciò che, nel bene o nel male, è fatto ad ogni persona, è fatto a Cristo stesso. La Parola di Dio ci conferma che nel fratello si trova per ognuno di noi il permanente prolungamento dell’Incarnazione: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Ecco perché dobbiamo guardare alla passione di Gesù come ad una realtà che non è estranea alla nostra esistenza, alla nostra storia. Cristo patisce, soffre, lotta nei nostri fratelli, nella nostra città, nei nostri quartieri. Spesso non ci accorgiamo delle condizioni di coloro che pur ci vivono accanto:  i poveri, gli emarginati, le persone sole e abbandonate, i forestieri, i cosiddetti “invisibili”. La passione di Cristo, che oggi celebriamo qui in chiesa, non è una realtà separata dalla vita che si trova appena fuori dalla porta della nostra cattedrale. La memoria della sua passione deve sollecitarci  a vederlo e ad incontrarlo nel nostro prossimo, in coloro che ci passano accanto, nei diseredati, nei rifugiati, negli immigrati. Essi sono nell’oggi l’incarnazione di Cristo, che ci visita e ci chiede ospitalità.
Celebrare la passione di Cristo, dunque, è viverne con realismo tutto il suo spessore storico, la sua immanenza. È guardare la realtà quotidiana con occhi più penetranti. È scorgere un’umanità che, con Cristo e in Cristo, muove i suoi passi sulla Via crucis, fatta di sofferenze, di sconfitte, di violenze, ma anche sulla Via lucis, nella quale si lotta contro il male con le armi del bene, si ama pienamente, si diviene popolo nuovo, famiglia di Dio. E in tal modo siamo veramente umanità trasfigurata, che è luce per chi ci incontra e per chi ci sta accanto.
 

  1. Grazie alla croce è possibile guarire il mondo

La sofferenza appartiene alla nostra vita. Deriva, da una parte, dalla nostra finitezza e, dall’altra, dalla massa di colpa che, lungo la storia, si è accumulata e ora ci condiziona.
Prodighiamoci, dunque, per diminuire la sofferenza degli innocenti, dei calunniati, di coloro che subiscono oltraggi ed ingiustizie. Purtroppo, dobbiamo riconoscere che ci è impossibile eliminare del tutto la sofferenza che ci circonda, semplicemente perché non possiamo liberarci della nostra finitezza e nessuno di noi è in grado di annullare totalmente il potere del male. Solo Dio, grazie alla sua entrata nella storia e alla sua totale accettazione di quel terribile sacrificio, può togliere il peccato dal mondo (Gv 1,29). Ma è la nostra fede nell’esistenza di questo potere, che fa emergere la speranza della guarigione dell’umanità. Si tratta, appunto, di speranza e non ancora di compimento. Possiamo limitare la sofferenza, pur nella consapevolezza che non sarà mai possibile eliminarla del tutto.
Per questo, vivendo in un mondo ferito dalle guerre e dalle persecuzioni, camminiamo con speranza dietro a Gesù, ma non senza lacrime.
Signore, aiutaci a non vergognarci di esse. Ci ricordano quelle di tua Madre che ti accolse martoriato tra le sue braccia; quelle delle madri che, in tanti Paesi dell’Oriente e dell’Africa, piangono i loro figli e le loro figlie uccisi solo perché cristiani. Madre di Dio, Madre dei dolori, guarda a noi che camminiamo in questa valle di lacrime. Non stancarti di donarci Gesù! Egli rende i nostri passi meno incerti e paurosi. Noi siamo uniti definitivamente con il Vivente che nessuno potrà più uccidere!