II CATECHESI alla GMG di CRACOVIA 2016

29-07-2016

Oggi siamo invitati a pregare così: «Signore, fa di me uno strumento della tua misericordia».

Come possiamo diventarlo?

Il brano del Vangelo di Mt 25, 31-46 ci sollecita ad esserlo facendo una scelta a favore dei poveri, ovvero degli indifesi, dei sofferenti, degli emarginati, degli oppressi, degli sfruttati e dei perseguitati. L’aiuto prestato o rifiutato a questi «piccoli», così li definisce il Signore, è aiuto prestato o rifiutato a Lui stesso. In essi si incontra il Figlio dell’uomo. Essi sono suoi fratelli, perché Egli, incarnandosi e assumendo la condizione degli umili, ha solidarizzato con la loro povertà. Ebbene, saremo giudicati sulla base del fatto se li avremo scelti, se li avremo aiutati o no. La scelta a loro favore mostrerà concretamente il nostro amore a Cristo. Cristo respingerà coloro che lo hanno respinto e accoglierà coloro che lo hanno accolto.

Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio, strumenti della sua misericordia, impegnandosi per la liberazione e la promozione dei poveri. Mentre si mette la spalla sotto la croce di chi soffre non si può andare a braccetto con chi fabbrica le croci, soleva ripetere don Oreste Benzi.

Fermiamoci sull’essere strumenti della misericordia nei confronti dei «piccoli» di oggi. Papa Francesco, specie nella Evangelii Gaudium, ha aggiornato il loro elenco. Dobbiamo essere strumenti della misericordia, oltre che nei confronti dei poveri «tradizionali», alcuni dei quali sono già elencati nel Vangelo di Matteo, nei confronti dei nuovi poveri: i senza tetto, i tossicodipendenti, i popoli indigeni, i rifugiati, i migranti, gli anziani sempre più deboli ed abbandonati (cf EG n. 210), le persone che subiscono la tratta, i nuovi schiavi che trovano la morte nelle piccole fabbriche clandestine, nella rete della prostituzione o che sono sfruttati nell’accattonaggio o nel lavoro non regolarizzato (cf EG 211); le donne che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza, i bambini nascituri sul cui diritto alla vita non ci si può attendere che la Chiesa cambi la sua posizione (cf EG n. 214).

Come, più in concreto, essere strumenti di misericordia, impegnandosi, come affermato poco fa, per la liberazione e la promozione dei poveri? Sicuramente dando loro da mangiare, da vestire, curandoli, visitandoli in carcere, come suggerisce lo stesso brano evangelico. Ma con quale atteggiamento spirituale, con quale convinzione? Madre Teresa di Calcutta, a breve santa, e la cui vita era tutta dedita ai poveri più poveri, li serviva pensando di dover essere proprio uno strumento della misericordia di Dio e di amare in essi Gesù. Alla domanda «Chi è Gesù per me?» rispondeva così: «Gesù è il Verbo di Dio fatto carne, è la Parola da proclamare. È la vita da vivere. È l’Amore da amare. È il Sacrificio da offrire. È il lebbroso cui lavare le ferite. È l’alcolizzato che va ascoltato. È il malato di mente da proteggere, è il cieco a cui fare da guida, è il drogato di cui essere amico, è l’anziano da servire, è il piccolo che va abbracciato. Per me Gesù è il mio Dio, il mio Sposo, è il mio unico Amore, il mio Tutto». Nella sua esortazione apostolica Evangelii Gaudium papa Francesco parlando di scelta dei poveri e dell’impegno di essere al loro fianco, precisa che per aiutarli più efficacemente occorre che i mali che li colpiscono debbono essere combattuti alla radice. Non bastano a sconfiggerli, ad esempio, la Caritas diocesana, espressione di una dimensione essenziale della comunità ecclesiale, o i piani assistenziali, seppur importanti e che fanno fronte ad alcune urgenze. Queste vie sono solo risposte provvisorie ed insufficienti. Bisogna, invece, aggredire le cause strutturali della povertà. E questo viene fatto mediante il superamento delle dottrine economiche neoliberistiche, la riforma profonda dell’attuale sistema finanziario e monetario nazionale e sovranazionale, una sana economia mondiale, politiche della ricerca, dell’innovazione, del lavoro dignitoso, dell’istruzione e dell’educazione, dell’assistenza sanitaria per tutti i cittadini; una democrazia ad alta intensità, rappresentativa, partecipativa, inclusiva; la costruzione di popoli in pace, giustizia e fraternità, un’ecologia integrale, un’autorità politica mondiale.

Questi sono alcuni dei versanti in cui bisogna essere strumenti della misericordia di Dio: una misericordia che va vissuta integralmente, interessandosi di ogni uomo, di tutto l’uomo, dal punto di vista corporale e spirituale. Dio non redime solo la singola persona ma anche le relazioni sociali tra gli uomini. E, pertanto, non è da escludere dal raggio di azione dell’amore misericordioso l’impegno a vivere la letizia dell’amore famigliare (cf Amoris laetitia), la dedizione nell’elaborare un nuovo umanesimo del lavoro, dell’economia, della finanza, della politica, dei mass media, dell’ecologia.

Chi vive in maniera piena l’esperienza gioiosa della misericordia di Dio scopre che deve divenirne strumento innanzitutto annunciando Gesù Cristo, donandoLo – l’annuncio del Vangelo è la prima misericordia! -, perdonando come Lui perdona. Solitamente si ritiene che la misericordia trovi la sua espressione più alta nelle opere della liberazione e promozione umana. La misericordia divina, invece, dev’essere attuata prioritariamente mediante l’evangelizzazione o, meglio, mediante una nuova evangelizzazione. Il mondo può essere cambiato radicalmente proprio grazie all’annuncio di Gesù Cristo. Benedetto XVI, ricalcando il pensiero del beato Paolo VI, ha scritto nella sua nota enciclica Caritas in veritate (= CIV) che l’annuncio di Gesù Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo (cf n. 8). Lo sviluppo, infatti, non è solo questione di risorse materiali, di mezzi tecnici, di informazioni, di istituzioni, di cultura, di innovazione, di ricerca, di apertura dei mercati, di abbattimento dei dazi, di investimenti produttivi (cf CIV n. 71), di un’ampia gamma di opportunità o di scelte, come ha proposto Amartya Sen, premio Nobel dell’economia, o di chance di vita, come ha scritto Ralf Dahrendorf, politologo. Tutti questi aspetti sono quanto mai importanti, ma, in vista di uno sviluppo plenario, comunitario, sostenibile, inclusivo, è fondamentale poter disporre di una corretta scala di beni-valori, che viene a strutturarsi quando si ha Dio come parametro ultimo. Questa scala consente di compiere scelte buone, di vivere come operatori economici, amministratori e politici retti (cf CIV n. 71), ossia secondo la prospettiva del compimento umano in Dio e, quindi, non anteponendo i beni materiali a quelli spirituali, ed evitando visioni monche o deformate.

Orbene, l’annuncio di Gesù Cristo, che incoraggia o rinnova l’amore e l’adesione a Lui, è fonte di una nuova visione delle cose, di nuovi stili di vita, di una nuova visione dello sviluppo integrale e sostenibile, di un nuovo progetto sociale e politico che include tutti. La condotta umana viene guidata da una coscienza ove Dio è considerato come bene e fine ultimo; e l’unione del cuore e della mente con Dio è il criterio del vero ordine dei fini.

Riconoscendo e amando Dio come Bene e Vero sommi, si è posti nella condizione di smascherare e di abbattere i falsi dèi moderni, di compiere un’inversione nelle scale dei beni-valori che privilegiano il successo, il potere, il profitto a breve termine, la dimensione economica e tecnica. Soltanto grazie al primato riconosciuto a Dio è possibile una nuova condotta morale, una nuova scala di valori, nonché il superamento delle dicotomie dell’etica post-moderna che pregiudicano la visione di uno sviluppo umano integrale. Secondo una corretta visione dello sviluppo, l’economia e la finanza, pur essendo fondamentali in ordine ad un compimento umano non velleitario, non sono ancora i fattori più importanti e nemmeno gli unici.

Come detto sopra, la misericordia sperimentata sino in fondo implica la testimonianza del perdono. Cristo ha sottolineato con tanta insistenza la necessità di perdonare agli altri che a Pietro, il quale gli aveva chiesto quante volte avrebbe dovuto perdonare il prossimo, indicò la cifra simbolica di «settanta sette volte», volendo dire, con questo, che avrebbe dovuto saper perdonare a ciascuno ed ogni volta. L’uomo guarito dal perdono di Dio è chiamato a usare perdono verso gli altri, a proclamarlo e ad introdurlo nella vita. Come Dio col suo perdono fa rivivere il peccatore, così è per ogni persona che perdona il proprio aggressore o l’omicida dei propri figli.

Il comando di Gesù di perdonare, peraltro, non annulla le esigenze oggettive della giustizia. La giustizia, propriamente intesa, costituisce, per così dire, lo scopo del perdono. Attenzione: perdonare non vuol dire dimenticare, cosa che è impossibile. Come può una madre dimenticare che quel Tizio le ha ammazzato il figlio? Perdonare vuol dire rileggere quello che è accaduto in modo nuovo e, precisamente, con lo sguardo di misericordia di Cristo che in croce ha dato la sua vita per tutti. Rimangono sempre attuali le parole di san Giovanni Paolo II: «non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono». In nessun passo del messaggio evangelico il perdono, e neanche la misericordia come sua fonte, significano indulgenza verso il male, verso lo scandalo, verso il torto o l’oltraggio arrecato. In ogni caso, la riparazione del male e dello scandalo, il risarcimento del torto, la soddisfazione dell’oltraggio sono condizione di perdono (cf Dives in misericordia, n. 14).