OMELIA nell’anniversario della nascita della venerabile BENEDETTA BIANCHI PORRO

Dovadola, 7 agosto 2016
07-08-2016

Cari fratelli e sorelle, nel giorno in cui ricordiamo Benedetta Bianchi Porro, il brano del Vangelo di Luca (12, 32-48) ci sollecita a vivere la nostra esistenza nella vigilanza. A noi è stato dato il Regno di Dio. Non solo. A noi è stato dato il compito di amministrare le cose, il mondo, ma soprattutto la nostra vita. Ce ne sarà reso conto. Non sappiamo quando. Proprio per questo occorre essere sempre pronti e agire responsabilmente. Il tempo dell’attesa deve essere contrassegnato dal segno della fedeltà alla missione data. Non bisogna lasciarsi andare all’ignavia e alla pigrizia. Occorre perseverare nella propria vocazione. Il principale compito affidato al cristiano è certamente quello di crescere in maniera simile a Cristo, lasciandosi trasfigurare dal suo amore, divenendone annunciatori e testimoni coraggiosi, costi quel che costi, nella buona e nella cattiva sorte. Chi appartiene a Cristo sa che il talento più prezioso che gli è stato affidato e che deve essere amministrato con scrupolosa accortezza è la vita di unione a Colui che redime e salva.

Possiamo definire Benedetta Bianchi Porro un’esistenza o, meglio, un corpo ed uno spirito afferrati e trasfigurati dall’amore di Cristo, in un sacrificio gradito al Padre. E tutto questo mediante e durante un calvario incredibile di sofferenze fisiche e spirituali ininterrotte. Morta a ventisette anni, colpita da un morbo rarissimo e inesorabile fu costretta ad interrompere gli studi. Le mancava un solo esame per conseguire la laurea in Medicina. La malattia, una sorta di tumore ai centri nervosi la rese prima sorda, poi cieca. Perse, inoltre, l’uso degli altri sensi: l’odorato, il gusto, il tatto. Mentre nelle varie parti del corpo diventava progressivamente immobile, eccetto la mano destra, mediante la quale comunicava, la sua intelligenza rimaneva accesa. Alla fine, Benedetta si esprimeva con un filo di voce. Pur nel buio e nel silenzio, che la isolava da tutto, vedeva e percepiva Dio con gli occhi interiori del suo spirito. Se ne sentiva invasa. La Sua presenza la faceva, incredibilmente, ridere e cantare di gioia. Stupiva come in un corpo così martoriato dalla malattia e straziato dalla sofferenza ci fosse tanta riconoscenza. La percezione intensa di Dio che si dona tutto all’uomo rendeva la sua esistenza bella e degna di essere vissuta, nonostante il dolore che la opprimeva. L’animo era una sorgente zampillante gratitudine. «Grazie» è l’ultima parola pronunciata dalle sue labbra. Riassumeva ed esprimeva tutta la sua esperienza di credente, abitata da Cristo, nella sua passione. Assimilata al suo Redentore e Signore  sente gioia nell’essere conforme a Lui col dono totale di sé. Tutto diventa bello, compreso quel mondo da cui Benedetta, sempre più, è isolata. Sente nell’aria l’odore della primavera. Con gli occhi di una mistica vedeva la natura coinvolta nella nuova creazione operata da Colui che muore ma risorge, trascinando tutto in una nuova condizione d’essere, quella delle creature che posseggono una stessa origine e uno stesso fine.

Cari fratelli e sorelle poniamoci una domanda? Perché sentiamo il bisogno di guardare a Benedetta?

Benedetta è grande non tanto per la sua capacità di vivere il dramma di un progressivo disfacimento fisico, ma soprattutto perché ci insegna l’importanza della spiritualità, del suo primato per la nostra vita. Senza un’intensa vita interiore Benedetta non avrebbe trovato la straordinaria capacità di rispondere ai drammatici interrogativi del suo animo. Non sarebbe stata in grado di vivere un’ascesi continua, con conversioni incessanti, quali erano richieste, anno dopo anno, giorno dopo giorno, dal suo calvario. Era necessario rinnovare l’incontro con il suo Dio, ricominciare sempre da capo, ogni momento. A fronte di un innato desiderio di vita, nonostante il suo progressivo spegnersi, doveva offrirsi come vittima che completava in sé le sofferenze di Cristo, la sua missione di crocifisso per amore.

In un mondo, contrassegnato da tragedie e da crudeltà che rubano la speranza alle persone, in cui crescono i calvari, i percorsi di esistenze drammaticamente sole, abbiamo bisogno di imparare da Benedetta. Pur sommersi da tante comunicazioni ed interconnessioni rimaniamo isolati nella sofferenza, portando sulle spalle fardelli troppo pesanti. Spesso non ci sorregge il senso della vita. Cresce l’angoscia e, talvolta, la disperazione. Tutto diventa insopportabile ed appare ingiusto. Non si è lieti e in pace col mondo. E così, non esiste estasi, uscita da sé, e nemmeno l’incanto di una natura che esprime la bellezza e la bontà del Creatore. Gli altri appaiono estranei, esseri ostili, anziché fratelli. La sofferenza è un fardello troppo pesante e non c’è modo di metabolizzarlo, di trasformarlo in atto d’amore e di offerta per i fratelli e per Dio. Non vi sono traguardi trascendenti, purificazioni interiori, svolte importanti. C’è la percezione solo di se stessi, di pesi insopportabili. Cari fratelli e sorelle, quando tutto sembra perduto, solo la fede in Gesù, dà la forza per proseguire e camminare eroicamente. Uniti a Gesù che redime e salva si può ancora sognare un mondo nuovo, meno violento, più fraterno e giusto. Si può sognare anche una Chiesa meno chiusa in se stessa, meno impegnata solo nella conservazione dell’esistente. Da un rinnovato incontro con Colui che vive nella storia e nella comunità dei credenti, può derivare l’impulso ad una fede adulta, più esplicita, che consente di cogliere e di coltivare un progetto, unificato ed unificante, interamente centrato sul Figlio di Dio che è venuto a ricapitolare tutto in sé.

Nell’incontro con Lui, anche in questa Eucaristia che stiamo celebrando, cresce la consolante certezza che della nostra vita e della città architetto e costruttore è Dio stesso, come peraltro ci ha detto la Lettera agli Ebrei oggi proclamata (cf Eb 11, 1-2.8-12). Viviamo tenendoci pronti ad accogliere in ogni istante il Signore che viene. Saremo beati, felici, come ci dice il Vangelo di Luca (12,32-48), quando il Signore, venendo, ci troverà vigilanti, ossia pronti ad accoglierlo nella nostra vita. Chi rimane fedele alla propria vocazione e missione, quella di annunciatore e portatore di Cristo, riceverà una ricompensa oltre ogni previsione. Mangerà e berrà in eterno alla sua mensa. Troveremo Lui che ci farà mettere a tavola, e passerà a servirci, con le mani colme di doni.