[gen 15] Intervento – Nessuno può salvarsi da solo. Ripartire dal Covid-19 per tracciare sentieri di pace

15-01-2023

Bologna, 15 gennaio 2023.

  1. Lo scenario della ricerca di sentieri di pace

Nel Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2023,[1] la pandemia e la guerra in Ucraina costituiscono lo scenario in cui siamo invitati da papa Francesco a trovare insieme sentieri di pace. Si tratta di due eventi globali negativi che evidenziano alcuni aspetti deleteri della globalizzazione.

Come scrive papa Francesco la pandemia ha toccato alcuni nervi scoperti dell’assetto sociale ed economico, facendo emergere contraddizioni e disuguaglianze.[2] Ha minacciato la sicurezza lavorativa di tanti: milioni di lavoratori informali sono rimasti senza impiego e senza alcun supporto durante tutto il periodo di confinamento. Oltre agli aspetti negativi (dalle morti alla destabilizzazione della vita sociale), almeno il Covid-19 ci ha lasciato in eredità alcuni aspetti positivi, come la consapevolezza che abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri e che il nostro tesoro più grande è la fratellanza umana, fondata sulla comune figliolanza divina, e che nessuno può salvarsi da solo. Detto altrimenti, la pandemia che ha messo a nudo vari aspetti negativi della globalizzazione – l’eccessiva fiducia riposta nel progresso, nella tecnologia e negli effetti della stessa globalizzazione si è trasformata in una intossicazione individualistica e idolatrica, compromettendo la garanzia auspicata di giustizia, di concordia e di pace – ha insieme fatto emergere scoperte positive, quali: un benefico ritorno all’umiltà; un ridimensionamento di certe pretese consumistiche; un senso rinnovato di solidarietà che ci incoraggia a uscire dal nostro egoismo per aprirci alla sofferenza degli altri e ai loro bisogni; nonché un impegno, in certi casi, veramente eroico di tante persone che si sono spese perché tutti potessero superare al meglio il dramma dell’emergenza. Dopo l’esperienza del Covid-19 dobbiamo prendere in considerazione sì l’impegno eroico dei medici e del personale sanitario, nonché del personale dei centri protetti, ma non possiamo ignorare i limiti delle strutture ospedaliere e del ritardo nel porre rimedio a riforme che ne hanno depotenziato le capacità di ricezione e di cura degli ammalati. Il semplice ripristino di diversi settori, secondo protocolli di sicurezza, non è stato sufficiente. Occorre praticare una lettura sapienziale dell’epidemia, che continua a manifestarsi in diverse maniere. Non bastano criteri sanitari, finanziari, sociologici, economici. Essi non rappresentano tutti gli aspetti di un fenomeno complesso quale è l’epidemia da COVID-19. Spesso sono stati tralasciati, o per lo meno sono stati scarsamente considerati, gli aspetti spirituali, etici, relazionali, psicologici, pedagogici, progettuali, che sono fondamentali per un approccio integrale della questione. Tali aspetti, connessi a diversi problemi, possono aiutare ad un approccio meno parziale, necessario a superare il modello pericoloso di una «sanità selettiva», che considera residuale la vita degli anziani. A fronte di tali prospettive non ci si deve rassegnare. Occorre evitare un’altra tragica espressione della «cultura dello scarto» di cui parla con insistenza papa Francesco. Occorre ribadire con forza i principi della parità di trattamento e del diritto universale alle cure. Il valore della vita è uguale per tutti. Proprio su questi nodi culturali e su altri ancora occorre riflettere.

Il coronavirus ha mostrato tutta la debolezza del sistema sanitario italiano, mantenuto in piedi dagli eroi mandati a morire senza armi di difesa… Nella sanità non si è voluto applicare il principio di sussidiarietà circolare; quindi, si è pensato di impostare il tutto sulla base di idee prese centralmente che poi le Regioni hanno modificato chi in una direzione e chi nell’altra. L’errore più grosso è stato quello di puntare quasi tutto sulle strutture ospedaliere, dimenticando la sanità del territorio, fra l’altro gonfiando i costi, rendendo la vita impossibile a medici e infermieri, e così via. La sanità privata for profit è immorale e scientificamente priva di ogni fondamento. Gli economisti veri spiegano che non è possibile avere una sanità privata for profit perché questa è una violazione dei principi di un’economia di mercato. Mentre si vorrebbe far credere il contrario. Puoi avere una sanità privata “non profit”, ma non for profit, non si può fare profitto se viene meno la libertà di scelta del “consumatore”.

Il secondo elemento dello scenario è dato dall’emergenza della guerra in Ucraina. Una guerra che miete vittime anche tra i soldati russi mandati da Putin ad invadere la terra di fratelli di fede e in umanità. Una guerra che diffonde incertezza «non solo per chi ne viene direttamente colpito, ma in modo diffuso e indiscriminato per tutti, anche per quanti, a migliaia di chilometri di distanza, ne soffrono gli effetti collaterali – basti solo pensare ai problemi del grano e ai prezzi del carburante» (n. 4). Simile guerra, insieme a tutti gli altri conflitti sparsi per il globo, rappresenta una sconfitta per l’umanità intera e non solo per le parti direttamente coinvolte. Mentre per il Covid-19 si è trovato un vaccino, per la guerra ancora non si sono trovate soluzioni adeguate. Certamente il virus della guerra è più difficile da sconfiggere di quelli che colpiscono l’organismo umano, perché esso non proviene dall’esterno, ma dall’interno del cuore umano, corrotto dal peccato (cf Vangelo di Marco 7,17-23).

La guerra in Ucraina è un altro segno della crisi della globalizzazione attuale. È la prima guerra di tipo globale. Globale perché non è fatta solo con armi convenzionali, ma anche con armi che sono «globali». Oggi si vede che in Ucraina si è sviluppata una modernissima evoluzione nella strategia della guerra. «Con il blocco sul grano e sui fertilizzanti, blocco che ora è forse superato, la fame era comunque strategicamente pianificata per prendere corpo in altre parti del mondo, come arma per minacciare o causare migrazioni dall’Africa verso i Paesi europei, che non sono in guerra. Analoga obliqua strategia è stata praticata sull’energia, per causare effetti di inflazione e recessione nell’economia a livello mondiale. Tutto questo è un modo nuovo di fare la guerra ed è una tecnica possibile proprio perché il mondo globale permette l’uso di armi improprie e dunque consente lo sviluppo asimmetrico della guerra. Asimmetrico non solo perché è guerra fatta sul campo virtuale, sul campo dei media e della rete, ma soprattutto perché è fatta fuori dal teatro di guerra, nel teatro dell’economia globale. Si può dire che in questo modo la guerra prosegue con altri mezzi, con l’applicazione, nuova ed epocale, di una strategia mai finora sviluppata in questi termini. E anche con una mentalità da “gangster”: del resto nella strategia dei traffici sul grano e sui fertilizzanti è evidente il ruolo di potenti mafie e cleptocrazie».[3]

Con la Russia, che fomenta una guerra in Ucraina, il mondo non appare più integralmente globale. La Russia, con la guerra, intende porsi come il primo «Stato antiglobale», che intende attrarre sul proprio territorio la ricchezza degli altri. Nello scenario geopolitico la Russia intende porsi come soggetto antiglobale. Per secoli le carte geopolitiche hanno avuto come centro l’Europa, ai lati le Americhe e l’Asia. Iniziava il XX secolo, quello che sarebbe stato chiamato il secolo americano. Da un po’ di tempo guardando al mega continente asiatico si narra di un secolo cinese, il XXI.

La pandemia e la guerra in Ucraina rappresentano alcune delle piaghe che caratterizzano l’attuale globalizzazione. Per avere un quadro più completo vanno menzionati altri elementi della crisi della globalizzazione. Essi sono: il disastro ambientale; lo svuotamento della democrazia sversata nella repubblica internazionale del denaro; le società in decomposizione nel vuoto della vita; la spinta verso il transumano; l’apparizione dei giganti della rete. Ma quello degli elementi della crisi della globalizzazione è un numero destinato a salire: inflazione e recessione, crisi finanziarie, carestie, migrazioni, altre guerre. Non pochi studiosi oggi parlano di crisi della globalizzazione che, per trent’anni, ha plasmato il mondo e le nostre vite non solo nel bene, per cui ci si illudeva, ma anche nel male, che oggi vediamo e viviamo. All’origine di tale crisi sta la combinazione tra il mercato e la rete, i due pilastri su cui si è basata un’architettura politica mai prima vista nella storia: il mercato sopra e gli Stati sotto, l’economia sopra e i popoli sotto, nazioni senza ricchezza e ricchezza senza nazioni.[4]

La crisi della globalizzazione sembra riportarci al mondo di prima, un mondo in cui c’erano gli Stati e, con varia frequenza, c’era la guerra tra Stati. Il 5 marzo 2022 l’Assemblea dell’ONU ha approvato la risoluzione di condanna dell’invasione russa dell’Ucraina, ma con 5 voti contrari e 35 astenuti, tra questi Cina e India, che nell’insieme rappresentano quasi quattro miliardi di abitanti della terra. Da qui l’ipotesi di un cambiamento negli equilibri del mondo. Secondo gli studiosi, nel confronto tra diversi modelli geopolitici, quella che vince è la forza di attrazione e non tanto e non solo la forza militare. A oggi gli Stati Uniti ancora prevalgono nella tecnologia, ma non hanno big data numericamente comparabili con quelli della Cina. Per la Cina vale (per ora) l’opposto: ha più big data, perché conta una popolazione più numerosa, e inoltre sta investendo nell’intelligenza artificiale, con la quale può acquisire i dati degli altri. Anche per questo la guerra ipotizzata come prossima ventura sarebbe tra l’Occidente e la Cina. Il confronto sarebbe tra potenze di mare (quelle occidentali) e potenze di terra (Cina). E, comunque, sarebbe sempre catastrofico. Porterebbe alla distruzione dell’umanità. L’unica alternativa che rimane è la pace. Quale la cura preventiva? Una via per la salvezza, stante l’esperienza delle guerre sempre più micidiali, è rappresentata dall’arsenale della libertà e della democrazia rappresentativa, partecipativa, deliberativa,[5] dalla non violenza attiva e creativa, implicante la creazione di istituzioni di pace, la dichiarazione dell’illegalità dei paradisi fiscali, del land grabbing e del water grabbing.

La globalizzazione, che è un insieme di interconnessioni e di comunicazioni, è destinata a realizzarsi come una rete che unisce i molteplici poli geopolitici per stringerli in una famiglia umana che collabora al bene comune su basi di libertà e di solidarietà. La globalizzazione che appare, innanzitutto rete di conoscenze, interconnessioni e comunicazioni, beni e servizi, deve diventare sempre di più un «ambiente» con opportunità o chance non solo a disposizione di pochi ma accessibili a tutti.[6] Come rete che riduce le distanze, collega e rende disponibili beni fondamentali e strategici per lo sviluppo sostenibile e il dialogo tra culture, non va demonizzata. Sarebbe insensato un atteggiamento luddista. L’esperienza mostra che chi si estranea dalla globalizzazione, con le sue possibilità e capacità positive, rischia di restare indietro.

Per divenire, però, ambiente di crescita senza emarginazioni, ossia non nominale o per pochi ma per tutti, per l’uomo, per ogni uomo, per i vari poli geopolitici, per tutti i popoli della terra, la globalizzazione ha bisogno di essere democratizzata, non lasciata in balia di un’animazione neoutilitarista e neoliberista, come avviene attualmente. Essa va, innanzitutto, sostanziata da un sistema etico-culturale che sappia coniugare verità e amore; solidarietà e fraternità, libertà, verità e giustizia sociale (equa distribuzione delle risorse e delle opportunità); competizione e solidarietà (cooperazione). Ossia un sistema etico-culturale che assegna il primato allo spirito, alla razionalità dei fini rispetto a quello dei beni materiali e dei mezzi, superando gli errori della modernità che spingevano a dare il primato all’avere, a mammona.

Detto altrimenti, la globalizzazione, fenomeno sempre in itinere, dev’essere continuamente umanizzata. Deve cioè essere mossa da un’anima etico-culturale che la renda ambiente o sistema di connessioni e di comunicazioni ove non viene dato il primato alle cose (profitto, tecnica, benessere materiale), bensì alle persone e ai popoli, promovendo un’umanità che sperimenta sé stessa come dono all’altro e ultimamente a Dio, percependosi cioè come autentica comunità di universale fraternità e solidarietà. Senza tale anima la globalizzazione diventa sistema di alienazione, incapace di realizzare la convivialità delle culture, la crescita della persona come essere trascendente, nonché la solidarietà come collaborazione per il bene reciproco.

L’umanizzazione della globalizzazione è opera complessa, perché occorre muoversi contemporaneamente su più fronti (ecosistema, transizione ecologica,[7] finanza, tecnologia digitale,[8] economia, informazione, politica, culture). E questo, illuminando le intelligenze, sensibilizzando le coscienze, mobilitando energie secondo una progettualità flessibile, mettendo in rete i vari soggetti delle società civili e politiche, sapendo coniugare adeguatamente particolare ed universale, globale e locale, ma soprattutto attuando un sincero e costruttivo dialogo tra le diverse culture e famiglie spirituali.[9]

 

  1. Creazione di sentieri di pace: la Pacem in terris pilastro di un insegnamento profetico e causa esemplare della non violenza attiva e creatrice

Una via fruttuosa nella individuazione e creazione di sentieri di pace è senz’altro quella di porsi entro l’alveo del 60.mo anniversario della Pacem in terris (=PT),[10] che può considerarsi la carta magna della costruzione della pace. È un’enciclica profetica, dotata di grande visione, capace di prospettare soluzioni di ampio respiro e preveggenza: con riferimento ai rapporti fra le persone e la comunità politica nella sua struttura e nel funzionamento dei poteri pubblici; con riferimento ai rapporti fra le comunità politiche, che devono essere improntati alla giustizia e alla solidarietà e che devono prevedere il rispetto delle minoranze e la progressiva integrazione dei profughi politici, la cooperazione economica finalizzata a rendere le comunità più deboli capaci di essere le principali artefici nell’attuazione del loro sviluppo economico e del loro progresso sociale, l’arresto della corsa agli armamenti mediante la messa al bando delle armi nucleari, un disarmo integrale, l’assunzione dello strumento del negoziato per derimere le controversie; con riferimento ai rapporti delle singole persone e delle comunità politiche con la comunità mondiale riconoscendo, rispetto all’insufficienza dell’attuale organizzazione dell’autorità per assicurare il bene comune universale, la necessità di poteri pubblici mondiali, istituiti di comune accordo tra i popoli, sulla base della solidarietà e della sussidiarietà.

Non è possibile illustrare tutti i temi elencati, come quelli dei doveri e dei diritti, dell’autorità, della democrazia.[11] Qui conviene accennare al fatto che il Concilio Vaticano II ha continuato la riflessione, specie nella Gaudium et spes, a proposito della dottrina della «guerra giusta», espressione abbandonata dalla PT. Vi sono alcuni teologi moralisti come Christian Mellon, Joseph Joblin e Paolo Valori, i quali hanno sostenuto che nel Concilio Vaticano II la suddetta dottrina non è negata, ma piuttosto limitata alla sola legittima difesa. In altre parole, si nega ogni giustificazione morale alla guerra in quanto tale, soprattutto se globale, e si riconosce soltanto la liceità di azioni militari di legittima difesa. In altri termini, con il Concilio Vaticano II, si sarebbe passati dalla «guerra giusta» alla «giusta difesa». Sulle orme di papa Giovanni XXIII papa Francesco afferma che, a motivo del fatto che si è dato alla guerra un potere distruttivo incontrollabile, che uccide popolazioni inermi, non si può più pensare ad essa come soluzione. A proposito del diritto di legittima difesa a cui, nella situazione della guerra della Russia contro l’Ucraina, ci si è appellati per giustificare la reazione ucraina di fronte all’invasione russa, ecco come argomenta papa Francesco nella sua ultima enciclica Fratelli tutti (=FT): «Di fatto, negli ultimi decenni tutte le guerre hanno preteso di avere una “giustificazione”. Il Catechismo della Chiesa Cattolica parla della possibilità di una legittima difesa mediante la forza militare, con il presupposto di dimostrare che vi siano alcune “rigorose condizioni di legittimità morale”. Tuttavia, si cade facilmente in una interpretazione troppo larga di questo possibile diritto. Così si vogliono giustificare indebitamente anche attacchi “preventivi” o azioni belliche che difficilmente non trascinano “mali e disordini più gravi del male da eliminare”. La questione è che, a partire dallo sviluppo delle armi nucleari, chimiche e biologiche, e delle enormi e crescenti possibilità offerte dalle nuove tecnologie, si è dato alla guerra un potere distruttivo incontrollabile, che colpisce molti civili innocenti. In verità, “mai l’umanità ha avuto tanto potere su sé stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene”. Dunque, non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra!» (FT n. 258).

In breve, secondo papa Francesco – data la potenza distruttiva e non facilmente controllabile anche delle armi non nucleari –, una guerra di legittima difesa diventa difficilmente giustificabile dal punto di vista morale. Dopo l’affermazione che non esistono «guerre giuste»[12] durante il ritorno dal suo viaggio apostolico in Kazakistan, il pontefice non ha, però, rinunciato a riconoscere all’Ucraina l’esercizio del diritto di legittima difesa rispetto alla guerra di aggressione violenta e micidiale da parte della Russia.[13] La guerra rimane una pazzia. È un mostro, è un cancro che si autoalimenta fagocitando tutto. La guerra è un sacrilegio, che fa scempio di ciò che è più prezioso sulla nostra terra, la vita umana, l’innocenza dei più piccoli, la bellezza del creato. La guerra è un sacrilegio![14] È un crimine.[15]

La vera risposta non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un’altra impostazione del pensiero, un modo diverso di governare il mondo ormai globalizzato, un modo diverso di impostare le relazioni internazionali. Occorre abbracciare una cultura della cura dell’altro, la via della nonviolenza attiva e creatrice. Con la guerra nessuno vince. Con la guerra tutto si perde, tutto. Occorre sconfiggere la guerra. La soluzione è lavorare insieme per la pace, fare delle armi, come dice la Bibbia, strumenti per la pace. Oggi più che mai urge rivedere lo stile e l’efficacia dell’ars politica. La guerra lascia il mondo peggiore.[16] Occorre imboccare un’altra strada. La strada del dialogo fra le parti interessate, la strada delle trattative per la pace, anche per evitare l’escalation dell’uso delle armi nucleari, più volte minacciate.

Va qui notato che per alcuni studiosi San Giovanni XXIII con la PT sarebbe all’origine della non violenza attiva e creatrice,[17] ossia di un nuovo pacifismo, diverso da quello di semplice testimonianza o di resa, come fu ad esempio quello di Gandhi (rinunciare alla libertà e accettare il sopruso) o del primo Dietrich Bonhoeffer, teologo luterano, secondo il quale la pace non poteva che essere un affidarsi completamente alla preghiera. Bonhoeffer venne condannato a morte dai nazisti quando cambiò la sua posizione partecipando attivamente alla lotta di resistenza contro il nazismo, arrivando a dichiararsi disponibile a compiere un attentato contro Hitler.

Il nuovo pacifismo che trae ispirazione dalla PT è stato in parte tratteggiato da papa Francesco con il suo Messaggio per la Celebrazione della Giornata Mondiale per la Pace del 1° gennaio 2017.[18] In tale Messaggio il pontefice offre alcuni orientamenti pastorali e pedagogici che evidenziano veri e propri sentieri di pace. Egli indica, innanzitutto, la necessità che la Chiesa continui a partecipare, assieme alle persone di altro credo, alla costruzione della pace mediante la nonviolenza attiva. Ciò è coerente con il suo essere, come annunciatrice e testimone di Cristo, causa esemplare della nonviolenza. La comunità cristiana è chiamata, quindi, a dare il suo apporto, «imparando» Gesù Cristo non violento, come ha imparato sua Madre, accompagnandolo nella sua Passione fino ai piedi della croce. La Chiesa contribuisce alla costruzione della pace, crescendo appunto come comunità di pace, proponendo norme morali mediante la partecipazione ai lavori delle istituzioni internazionali, anche grazie al contributo competente da parte di tanti cristiani all’elaborazione delle leggi a tutti i livelli istituzionali e di governo.

In secondo luogo, la Chiesa deve continuare a proporre ai leader politici e religiosi, ai responsabili delle istituzioni internazionali e ai dirigenti delle imprese e dei media quello che papa Francesco definisce il «manuale» della strategia della costruzione della pace, ossia le otto Beatitudini (cf Mt 5, 3-10). Occorre sollecitarli ad applicare la lezione delle Beatitudini nell’esercizio delle proprie responsabilità. «Le otto Beatitudini tracciano il profilo della persona che possiamo definire beata, buona e autentica. Beati i miti – dice Gesù –, i misericordiosi, gli operatori di pace, i puri di cuore, coloro che hanno fame e sete di giustizia».[19] Beati quegli uomini e quelle donne che non tollerano l’ingiustizia, che non sopportano che il fratello o la sorella subiscano discriminazioni, emarginazioni, siano messi in schiavitù, siano considerati «scarti», esseri inutili. Beati quelli che lavorano per la pace, non frodando, non approfittandosi dell’altro, non agendo nell’illegalità corrompendo o lasciandosi corrompere. Beati coloro che si dedicano al bene comune in maniera disinteressata, senza tornaconto personale. Beati coloro che seminano nelle coscienze il senso di appartenenza a Cristo, Principe della pace, modello di nonviolenza.

Sempre stando al magistero sociale di papa Francesco, si possono individuare altri orientamenti pratici per divenire costruttori di pace mediante la nonviolenza. Sono da considerare strade nonviolente l’umanizzazione della politica in senso samaritano, la rivitalizzazione della democrazia,[20] l’educazione alla pace ed anche i percorsi di quei movimenti sociali, che il pontefice argentino viene da tempo sollecitando ed «educando», affinché abbandonino la violenza, marciando per la giustizia e non «contro» qualcuno, come i movimenti popolari.[21] Non vanno dimenticati il movimento ecologico mondiale;[22] i movimenti della cooperazione;[23] i movimenti per la vita; i movimenti a difesa e promozione della famiglia, quale società naturale fondata sul matrimonio tra uomo e donna; i movimenti a difesa della libertà religiosa e della libertà di insegnamento; i movimenti per la riforma del sistema finanziario internazionale, anche mediante la tassazione delle transazioni istantanee applicando la Tobin Tax; e i movimenti per l’abolizione della pena di morte. Non dev’essere, poi, esclusa la preparazione di nuove generazioni di cattolici per l’impegno competente nell’area della politica,[24] una politica alta, all’insegna della carità cristiana, capace di affrontare con visione e decisione la rimozione delle cause di povertà e di sperequazione.

Oggi, nell’ambito dell’azione nonviolenta, contrastando populismi e sovranismi, occorre coltivare legami internazionali, in vista di una maggiore incisività su quei processi e su quelle istituzioni che operano a livello sovranazionale e multilaterale. Solo agendo su questo piano, si può influire nella necessaria riforma dei mercati, delle istituzioni e delle politiche mondiali; si possono altresì instaurare quelle collaborazioni, quel lavoro di intelligence, quella vigilanza sulla rete web e sugli ingenti flussi di denaro, che sono determinanti nel prevenire e combattere la violenza del fanatismo e del terrorismo, che si avvale dei nuovi e sofisticati mezzi, per destabilizzare e seminare l’odio.

In breve, a fronte dei gravi problemi che stanno tragicamente manifestandosi oggi – basti pensare solo alla guerra in Ucraina – non basta per i credenti sostenere un pacifismo di testimonianza, non in linea con la PT e che da solo non sarebbe in grado di far avanzare la causa della pace. Il pacifismo di semplice testimonianza rischia di coltivare il sogno di eliminare la guerra dal mondo senza distruggere il mondo della guerra. Occorre, invece, decisamente impegnarsi sulla via della costruzione della pace, di una nonviolenza pacifica, attiva e creatrice. È la via di un nuovo pacifismo, di cui la PT è ispiratrice e il cui slogan potrebbe essere espresso così: se vuoi la pace, prepara istituzioni di pace.[25] Detto in altro modo ancora: si vis pacem, para civitatem. La guerra va sconfitta predisponendo, a livello spirituale, sociale, economico, politico ed istituzionale, tutto ciò che la previene o la rimuove. Cosa più in particolare? La Dottrina sociale della Chiesa, specie con le encicliche dei pontefici, ma anche con i loro Messaggi per la giornata mondiale della Pace, ha indicato da tempo le vie da percorrere, quali: il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti,[26] mediante la predisposizione di strumenti efficaci di difesa dell’aggredito;[27] la radicale revisione delle regole del mercato globale delle armi (la Russia è il secondo esportatore al mondo di armamenti, dopo gli USA; il trattato sul commercio di armi convenzionali, mentre è stato ratificato dalla UE, non è stato firmato da USA, Russia e Cina); dando vita ad una Agenzia Internazionale per la Gestione degli Aiuti (AIGA), in cui far affluire, ad es., anche solo il 10% della spesa militare globale che in un decennio potrebbe sanare le attuali diseguaglianze strutturali; con la revisione del trattato di non proliferazione nucleare; con uno sviluppo integrale, sostenibile ed inclusivo; con la creazione di istituzioni di pace, implicante la riforma dell’attuale ONU in senso più democratico soprattutto mediante l’abolizione del diritto di veto,[28] con la revisione trasformazionale dell’assetto delle istituzioni politico-giuridiche nate a Bretton Woods nel 1944 (FMI, OMS, Banca Mondiale, WTO) e divenute obsolete; con la creazione di nuove istituzioni – dotate di poteri mondiali – relative alle migrazioni (OMM), all’ambiente (OMA), all’acqua; con l’universalizzazione di una democrazia partecipativa, rappresentativa, inclusiva, deliberativa; con una nuova regolamentazione sulle sanzioni, perché armi a doppio taglio. Esse possono ferire anche coloro che le pongono per altri; col far decollare un piano volto alla riduzione bilanciata degli armamenti e in modo speciale a bloccare la proliferazione delle testate nucleari.

Come ha scritto Norberto Bobbio, le radici più profonde del pacifismo etico, che si incarna nell’impegno di tutti gli uomini a costruire istituzioni di pace, mediante una collaborazione universale, «debbono essere cercate nell’ideale dell’“uomo nuovo”, un ideale che è entrato imperiosamente nella storia dell’Occidente col cristianesimo».[29] Fondamentale, in vista della costruzione di istituzioni di pace, è peraltro il dialogo interreligioso ed ecumenico, come anche l’impegno sinergico delle molteplici associazioni e dei movimenti pacifisti sorti un po’ ovunque, quali espressione della società civile mondiale, prima responsabile della pace. Non si dimentichi che, a livello internazionale e sovranazionale, l’instaurazione e il mantenimento della pace esige, sempre più, la partecipazione di tutti alla costruzione di una vera e propria società politica mondiale, caratterizzata da una corrispondente autorità, costituita mediante un processo democratico universale, dal basso. Come ha spiegato papa Francesco nella Fratelli tutti «quando si parla della possibilità di qualche forma di autorità mondiale regolata dal diritto, non necessariamente si deve pensare a un’autorità personale. Tuttavia, dovrebbe almeno prevedere il dare vita a organizzazioni mondiali più efficaci, dotate di autorità per assicurare il bene comune mondiale, lo sradicamento della fame e della miseria e la difesa certa dei diritti umani fondamentali» (n. 172).

A livello internazionale e sovranazionale, quali espressioni di una comunità e di istituzioni sovranazionali che sempre più si rendono concretamente responsabili della realizzazione della pace mondiale, vanno segnalate, come modalità e vie non violente, come sentieri di pace, le operazioni, compiute da vari eserciti attrezzati ad hoc, normalmente sotto l’egida dell’ONU, di peacekeeping, peace building,[30] peace enforcing.

L’amore per la pace, per ogni uomo e popolo, si fa concreto quando, a fronte di fenomeni transnazionali, ossia richiedenti risposte non semplicemente nazionali, si rafforzano e si riformano urgentemente le attuali istituzioni in modo che in esse siano equamente rappresentati gli interessi della grande famiglia umana. Occorre che esse sappiano contrastare i nuovi totalitarismi, compresi quelli finanziari,[31] che mettono a repentaglio il destino dei popoli, la loro libertà, escludendoli o emarginandoli dal mercato internazionale, da uno sviluppo integrale ed inclusivo. Non si tratta di dare il superfluo ai popoli più deboli, ma di aiutarli ad entrare nel circolo dello sviluppo economico ed umano, di un’ecologia integrale. Se non si combatteranno le attuali povertà e diseguaglianze, rimuovendo le cause profonde di una crescente dominazione da parte di una ricchezza egoista e amata per sé stessa, non è da escludere che, come prevedeva la Populorum progressio, i popoli poveri si ribellino nei confronti dei popoli dell’opulenza. L’ingiustizia che si aggrava, non solo aumenta gli squilibri tra i popoli, e grida verso il cielo, ma partorisce tensioni e conflitti. La politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia. Oggi, pensando al bene comune mondiale e alla pace, abbiamo bisogno in modo ineludibile che la politica e l’economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita, specialmente della vita umana.[32] «Quando popolazioni intere, sprovviste del necessario, vivono in uno stato di dipendenza tale da impedir loro qualsiasi iniziativa e responsabilità, e anche ogni possibilità di promozione culturale e di partecipazione alla vita sociale e politica, grande è la tentazione di respingere con la violenza simili ingiurie alla dignità umana».[33]

 

  1. Conclusioni

Posto che oggi si trascura l’unità tra fede e azione,[34] in vista della costruzione della pace, dopo aver individuati i sentieri di pace, sono ancora attuali, anzi attualissime, le parole dell’ultima sezione della PT, che ricordano ai credenti il dovere di partecipare attivamente alla vita pubblica nella luce della Fede e con la forza dell’Amore, con competenza e capacità, ricomponendo l’unità interiore tra credenza religiosa e azione temporale, previa una solida formazione cristiana. Giovanni XXIII auspica la collaborazione con i non cattolici e i non credenti. In tale collaborazione, suggerisce il pontefice, siano coerenti con sé stessi, per non venire mai a compromessi riguardo alla religione e alla morale. Ma nello stesso tempo siano e si mostrino animati da spirito di comprensione, disinteressati e disposti ad operare lealmente nell’attuazione di oggetti che siano di loro natura buoni o riducibili al bene. Inoltre, sappiano distinguere tra false dottrine e movimenti sociopolitici. Sappiano essere testimoni di verità, di giustizia e di amore fraterno (cf n. 62).

La separazione tra fede e vita sottolineata dalla PT si continua a viverla ancora oggi nei termini di una frammentazione identitaria. Non si tratta propriamente della frammentazione politica, causata dalla cosiddetta ideologia della diaspora. Si tratta, invece, del fatto che la propria fede religiosa non sembra più conformare, ossia non riesce ad unificare i vari comportamenti dei credenti. Sicché essi tendono a vivere una netta separazione tra fede e impegno sociale, tra fede e politica, tra ragione e politica. Per esemplificare, possono amare papa Francesco e volere che i porti siano chiusi ad un’umanità sofferente. In altri termini, non pochi cattolici riterrebbero di stare in politica non ultimamente per ragioni di fede – perché ciò, secondo loro, sarebbe deleterio per il dialogo pubblico – ma solo per ragioni umane. E così, il cuore dei credenti in politica graviterebbe inevitabilmente e solo verso i partiti e non certo verso la comunione con Cristo e il suo Vangelo. Il che indurrebbe o giustificherebbe scelte e comportamenti non coerenti con i valori in cui si crede e con la coscienza rettamente formata, bensì solo conformi agli ordini di scuderia dei partiti. Poco importa se le leggi da votare sono ad impronta laicista, imperniate attorno a visioni antropologiche fortemente riduttive o addirittura irrazionali. Basta che siano state messe all’ordine del giorno dal proprio partito.

È indubbio, diciamocelo pure, che questo modo di pensare di non pochi cattolici pone per la Chiesa, che si sta avviando ad un secondo anno di cammino sinodale, una questione teologica ed ecclesiologica, una «questione cattolica» direbbe Gianfranco Brunelli, non piccola. Infatti, il suddetto modo di pensare si nutre di questo errato presupposto secondo cui l’essere specifico del cristiano non giustificherebbe un impegno peculiare dei credenti nella politica, un impegno secondo l’ispirazione cristiana.[35] In politica si dovrebbe essere presenti senza ragioni religiose, in definitiva senza il riferimento alla Dottrina sociale della Chiesa. Ma non finisce qui. A ben riflettere, quanto detto implicherebbe altri presupposti, davvero gravi per cattolici che intenderebbero impegnarsi in politica: all’atto pratico, non varrebbe l’incarnazione di Cristo che assume e redime l’umanità, ponendo le premesse di una nuova cultura politica. Il credente che si impegna in politica non avrebbe, per conseguenza, il compito di vivere la politica, come suggerisce, peraltro, papa Francesco nella Fratelli tutti, secondo carità,[36] ossia secondo l’amore trasfigurante e redentivo di Cristo. Parimenti, il credente non avrebbe il compito di vivere la politica scegliendo la fraternità come principio architettonico della democrazia e sarebbe chiamato a servire il bene comune come semplice cittadino.[37] Non esisterebbe una vocazione cristiana al bene comune. In definitiva, ai cattolici non servirebbe la fede per vivere in politica. Pertanto, in politica, il cattolico potrebbe vivere scisso da sé. Se ciò fosse vero si avrebbe un impoverimento motivazionale dell’impegno politico del credente, il quale sarebbe esposto, per conseguenza, a facili infeudamenti in questo o in quel partito. Tra l’altro si andrebbe esattamente a negare l’appartenenza ad una comunità di discepolato missionario ecclesiale in cui si può vivere l’esperienza dell’essere amati da Dio, e con ciò stesso del vivere il suo amore anche in politica.

Per superare la separazione tra fede ed impegno politico occorre riflettere sul fatto che il credente vive in Cristo nell’interezza del suo essere cristiano ed umano. Proprio per questo il credente vive la sua vocazione al sociale e al politico, al bene comune, non disgiungendola dall’essere in Cristo bensì nella comunione con Lui, tenendo presente la differenza degli ambiti della fede e della politica. Il rapporto tra fede e politica va letto ed interpretato in termini di unità e di distinzione. Il cristiano vive il suo impegno nella politica in termini laici, non laicisti.

                                                    + Mario Toso

                                         Vescovo di Faenza-Modigliana

[1] Francesco, Messaggio per la celebrazione della 56.a Giornata Mondiale della Pace: Nessuno può salvarsi da solo. Ripartire dal Covid-19 per tracciare insieme sentieri di pace, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2022.

[2] Sulle diseguaglianze che sono molto cresciute nelle democrazie avanzate si legga: C. Triglia, La sfida delle diseguaglianze, Il Mulino, Bologna 2022. Le conseguenze della pandemia e l’invasione dell’Ucraina contribuiscono ad aggravare il quadro.

[3] G. Tremonti, Globalizzazione. Le piaghe e la cura possibile, Solferino, Milano 2022, pp. 49-50.

[4] Cf ib., pp. 9-11.

[5] Cf Ib., pp. 97-98.

[6] Cos’è la globalizzazione? Data la complessità del fenomeno è difficile trovare una definizione esaustiva. Qui ci atteniamo ad una definizione-descrizione reperibile nell’enciclica Centesimus annus di Giovanni Paolo II (cf nn. 33 e 58). E, comunque sia, alcuni studiosi distinguono tra internazionalizzazione, mondializzazione e globalizzazione. «Seguendo tale approccio – afferma il card. Tettamanzi -, internazionalizzazione indicherebbe il carattere dei rapporti economici, politici giuridici e culturali che una comunità o uno Stato stabiliscono con altri: mercantile (scambio di merci), produttivo (investimenti all’estero), finanziario (movimenti di capitali), tecnologico (trasferimento di tecnologie), culturale (rapporti culturali), movimenti di persone (migrazioni). Mondializzazione raccoglierebbe il complesso di problemi i cui effetti si manifestano a livello mondiale e le cui soluzioni sono possibili solo a livello mondiale attraverso la creazione di organismi internazionali e la cooperazione tra Stati nazionali (problemi ambientali, dell’acqua, del clima, dell’energia, delle migrazioni, delle malattie endemiche ed epidemiche, della pace, degli armamenti, delle mafie…). Globalizzazione, infine, starebbe ad indicare le nuove forme assunte nel mondo dal processo di accumulazione di capitale, in particolare in questa fine secolo dalla triade USA, Giappone, Unione Europea, per controllare mercato e risorse a disposizione e per ottenere profitti su scala mondiale. In realtà, col passare del tempo, la globalizzazione si è estesa ed intrecciata con altri fenomeni col risultato di attenuare, fin quasi a vanificare, la frontiera che pareva separarla dalla mondializzazione e di condizionare, fin quasi a inglobare, non pochi né marginali aspetti della internazionalizzazione» (D. Tettamanzi, Globalizzazione: una sfida, Piemme, Casale Monferrato [AL] 2001, pp. 72-73). Sul tema della globalizzazione si veda anche M. Mantovani-Scaria Thuruthilyil, Quale globalizzazione? L’uomo «planetario» alle soglie della mondialità, LAS, Roma 2000.

[7] Cf G. Giraud, La rivoluzione dolce della transizione ecologica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2022; M. Toso, Ecologia integrale dopo il coronavirus, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa, Roma 2020.

[8] Cf L. Casini, Lo Stato (im)mortale. I pubblici poteri tra globalizzazione ed era digitale, Mondadori, Milano 2022.

[9] Cf M. Toso, Globalizzazione ed educazione, in «La società» 12 (2002) 5, pp. 603-616.

[10] Il sessantesimo anniversario della promulgazione della Pacem in terris (=PT) rappresenta l’occasione di ripensare il nesso profondo tra persona, pace, democrazia. La pace è un anelito profondo in ogni essere umano e, quindi, in ogni società, in ogni noi di persone. La pace è possibile, ma non è qualcosa di automatico e, quindi, va costruita, perché nella persona umana vi sono anche passioni e pulsioni, forme di aggressività che portano alla sopraffazione dell’altro, al conflitto. Va attuata anzitutto come una convivenza morale e spirituale, la quale per crescere in maniera ordinata e giusta esige che siano create istituzioni atte a supportare un tale fine. Ossia: un ordinamento giuridico in armonia con l’ordine morale e rispondente al grado di maturità della comunità politica; un’autorità politica come facoltà di comandare secondo ragione, in vista della realizzazione del bene comune; un’autorità politica mondiale in grado di assicurare il bene comune universale. Oltre a ciò, dalla lettura attenta della Pacem in terris – l’enciclica sociale che si è maggiormente dedicata a riflettere sulla comunità politica – emerge chiaramente la proposta della democrazia come quella istituzione o forma statale che è più rispondente alla dignità delle persone. Si tratta della proposta di una democrazia rappresentativa, partecipativa, deliberativa. Si tenga presente che la PT ha potuto usufruire dell’apporto di Pietro Pavan che così ha riversato nell’enciclica di Giovanni XXIII molta parte del suo saggio La democrazia e le sue ragioni (Studium, Roma 1958, pp. 232). Di un tale saggio l’Editrice Studium ha pubblicato una nuova edizione nel 2003 con un ampio studio introduttivo di Mario Toso.

[11] Cf M. Toso, L’attualità della Pacem in terris, in Pietro Card. Pavan, Pace in terra, commento all’enciclica Pacem in terris, Editrice San Liberale, Treviso 2003, pp. 7-51.

[12] Cf Francesco, Discorso ai partecipanti all’incontro promosso dalla fondazione «Gravissimum Educationis», Sala Clementina, 18 marzo 2022.

[13] Cf Francesco, Conferenza stampa del Santo Padre durante il volo di ritorno, 15 settembre 2022.

[14] Cf Francesco, Contro la guerra. Il coraggio di costruire la pace, Solferino –Libreria Editrice Vaticana, Milano-Città del Vaticano 2022, p. 8.

[15] Per uno sguardo complessivo sul pensiero di papa Francesco a proposito della guerra in Ucraina si legga: Francesco, Un’enciclica sulla pace in Ucraina, a cura di Francesco Antonio Grana, TS Edizioni, Milano 2022.

[16] Cf Francesco, Contro la guerra. Il coraggio di costruire la pace, pp. 7-21.

[17] Cf P. Carlotti, La pace, la difesa militare e le sue legittime forme, in Pontificio Consiglio Della Giustizia E Della Pace, Il concetto di pace. Attualità della Pacem in terris nel 50° anniversario, a cura di Vittorio Alberti, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano2013, p. 369. Le attuali politiche e strategie belliche, la possibilità non platonica dell’olocausto nucleare mondiale, la stessa neces­sità di difendere i popoli, i cittadini e i loro beni con mezzi che non comportino la minaccia dell’annientamento, stanno accre­ditando sempre più, come vera alternativa realistica alla violen­za e alla guerra, alle insurrezioni e alle rivoluzioni, la via dell’azione non violenta, che non è da confondersi con la passività o nonviolenza assoluta. L’azione non violenta o «resistenza passiva», come anche viene detta piuttosto impropriamente, al pari della guerra, delle tirannie e delle in­giustizie, può assumere diverse forme, in rapporto ai problemi in una data situazione. Si possono elencare, ad esempio, la disobbedienza civile, l’obiezione di coscienza,[17] il boicottaggio sociale, lo sciopero anche generale, il picchettaggio, il digiuno, l’obiezione fiscale, la non collaborazione (resistenza non violenta), la difesa popolare orga­nizzata o difesa civile non violenta, istituita da un Governo co­me parte del suo piano di difesa, il «Governo parallelo». Tenendo conto, però, dell’am­piezza dei cambiamenti culturali e politici che quest’ultima scelta comporta, una tale via, nonostante sia fortemente au­spicabile e vada perseguita con tutte le forze, oggi appare una pro­spettiva non realizzabile, né a corto né a medio termine. Se non cambiano le cose anche a livello internazionale, sembra che la via della difesa civile non violenta sia destinata a coesistere per molto tempo ancora con le forme di difesa militare.

[18] Cf M. Toso, La nonviolenza stile di una nuova politica per la pace, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa, Roma 2017.

[19] Francesco, Messaggio per la Celebrazione della Giornata mondiale della Pace (1° gennaio 2017), n. 6.

[20] Oggi si deve tener presente che una società oligarchica e con diseguaglianze pronunciate perde la sua sostanza democratica. Così si deve tener presente che se i partiti tradizionali si trasformano in meri partiti di opinione o in aggregazioni funzionanti solo al momento delle votazioni, nella democrazia vengono meno i suoi canali di partecipazione (cf S. Basco, Conclusioni, in La democrazia nel XXI secolo. Riflessioni sui temi di Alfredo Reichlin, a cura di Angelo Amato, Treccani, Roma 2022, pp. 305-329). Si tenga presente in questo contesto che occorre rivitalizzare gli attuali partiti in senso democratico e partecipativo ed anche dare vita a veri e propri partiti europei (cf D. SASSOLI, La saggezza e l’audacia. Discorsi per l’Italia e l’Europa, Feltrinelli, Milano 2023.

[21] Cf, ad esempio, Francesco, Discorso al II Incontro dei Movimenti Popolari (9 luglio 2015).

[22] Francesco, Laudato si’, n. 14.

[23] Cf, ad esempio, Francesco, Discorso ai Rappresentanti della Confederazione Cooperative Italiane (28 febbraio 2015).

[24] Sul tema cattolici e politica si legga: F. Pizzul, Perché la politica non ha più bisogno dei cattolici. La democrazia dopo il Covid-19, Edizioni Terra Santa, Milano 2020; M. Toso, Cattolici e politica, prefazione di Stefano Zamagni, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa, Roma 2019.

[25] Su questo si legga: M. Toso, Se vuoi la pace, prepara istituzioni di pace. Il caso Ucraina. Riflessioni per il discernimento. Prefazione di Stefano Zamagni, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa, Roma 2022.

[26] Cf art. 11 della Costituzione della Repubblica Italiana che, analogamente al Magistero sociale, testualmente recita: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».

[27] Su questo aspetto si veda quanto afferma Vladimiro Zagrebelsky secondo cui va lumeggiato un punto sul quale spesso non si riflette a sufficienza: «[…] il ripudio della guerra dichiarato nella prima parte dell’art. 11 della Costituzione non comporta l’esclusione di ogni tipo o occasione di guerra. Non è vietata la guerra difensiva da parte della sola Italia o collettiva nel quadro della partecipazione ad organizzazioni che agiscono a quello scopo», (V. Zagrebelsky, Il governo dichiari che armi invia a Kiev, in La Stampa, 8 giugno 2022, p. 29).

[28] Circa la forma di autorità politica mondiale, regolata dal diritto, come afferma la Fratelli tutti, non necessariamente si deve pensare a un’autorità personale. Dovrebbe almeno prevedere il dare vita a organizzazioni mondiali più efficaci, dotate di autorità per assicurare il bene comune mondiale, lo sradicamento della fame e della miseria, la difesa dei diritti umani fondamentali. È in questa prospettiva, precisa sempre papa Francesco, che diventa necessaria una riforma sia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che dell’architettura economica e finanziaria internazionale, affinché si possa dare reale concretezza al concetto di famiglia di Popoli. Senza dubbio ciò presuppone limiti giuridici precisi, per evitare che si tratti di un’autorità cooptata solo da alcuni Paesi e, nello stesso tempo, per impedire imposizioni culturali o la riduzione delle libertà essenziali delle nazioni più deboli a causa di differenze ideologiche. Il compito delle Nazioni Unite, a partire dai postulati del Preambolo e dei primi articoli della sua Carta costituzionale, può essere visto come lo sviluppo e la promozione della sovranità del diritto, sapendo che la giustizia è requisito indispensabile per realizzare l’ideale della fraternità universale. […] Bisogna assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni Unite, vera norma giuridica fondamentale», (Cf Fratelli tutti, nn. 172 – 173).

[29] N. Bobbio, Pace, Treccani, Arti Grafiche La Moderna, Guidonia Montecchio (Roma) 2022.

[30] Nel 2005 l’Assemblea generale e il Consiglio di sicurezza dell’ONU hanno creato la Commissione di Peace Building (PBC) come organismo intergovernamentale, con una composizione mista che coinvolge gli organismi principali delle Nazioni Unite, gli Stati che contribuiscono maggiormente in termine di fondi o di personale militare e gli Stati usciti dai conflitti.

[31] In vista di una riforma della finanza in senso umanitario si veda M. Toso, Finanza a servizio del bene comune alla luce dell’insegnamento sociale della Chiesa, in «La società», XXXI (2022), n. 3, pp. 92-128.

[32] Cf Francesco, Laudato sì’, n. 189.

[33] Paolo VI, Populorum progressio, n. 30.

[34] Su questo si confronti G. Galeazzi-M. Toso, Fede e ragione nel terzo millennio, Tipografia Faentina Editrice, Faenza 2022, pp. 29-31.

[35] In un suo intervento sul Corriere.it del 19 settembre 2022, il prof. Andrea Riccardi sembra innanzitutto identificare partito cattolico con partito di ispirazione cristiana. Ma non solo. Giunge a sostenere che i cattolici in politica debbono contraddistinguersi per la loro cultura generata dalla fede e non per la ispirazione cristiana. Ma la cultura generata dalla fede non può essere anche una cultura di ispirazione cristiana? Perché negare perentoriamente che la prospettiva di un partito di ispirazione cristiana sia superata dalla storia?

[36] Cf Francesco, Fratelli tutti, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2020, capitolo quinto.

[37] Si legga in proposito M. Toso, Fraternità o fratellanza? Introduzione alla lettura dell’Enciclica «Fratelli tutti», Tipografia Editrice Faentina, Faenza 2021.