- Premessa
Il titolo del nuovo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace suona così: La pace come cammino di speranza: dialogo, riconciliazione e conversione ecologica.[1] La Scuola di pace che il 3 gennaio 2020 è iniziata qui a Faenza ha voluto esprimere il titolo in modo più sintetico, con un’espressione breve ma, a mio modo di vedere, efficace, più evocativa dal punto di vista umano: sperare la pace. L’espressione scelta mette in primo piano la virtù della speranza, a dire appunto che la pace richiede un cammino contrassegnato da molteplici scelte ed azioni, sorrette tutte da un costante e stabile atteggiamento morale che le pervade e le orienta verso la realizzazione di un bene che concerne la vita sociale e al quale aspira tutta l’umanità. L’intimo anelito ad un mondo di pace, che è radicato nell’animo di ogni persona, trova costantemente ostacoli e prove. Cosa può sostenere nel cammino verso la realizzazione di un mondo di pace? Tutta una serie di virtù, ma in particolare la virtù della speranza. Può essere definita come quell’atteggiamento umano fermo e perseverante che contiene una tensione esistenziale e che aiuta a mettersi in cammino, e che dà ali per andare avanti verso il bene prezioso che è la pace, perfino quando gli ostacoli sembrano insormontabili (cf n. 1). Per avere qualche rappresentazione della pace è senz’altro utile riferirsi alle molteplici definizioni che troviamo nella dottrina o insegnamento sociale della Chiesa. Sperare la pace è desiderare un ordine sociale nuovo, che al dire della Pacem in terris, è fondato sui quattro pilastri della verità, della libertà, della giustizia e della solidarietà. Successivamente, nella Populorum progressio la pace viene prospettata come uno sviluppo umano, integrale, comunitario, planetario. Più tardi ancora, nella Laudato sì’, è presentata come uno sviluppo plenario, solidale, sostenibile, inclusivo, ossia per tutti.
Sorge, però, una domanda sin dal principio della nostra riflessione. Sperare con quale speranza? Una speranza solo umana?[2] La risposta alla domanda ci viene dalla celebrazione del mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio. Il Natale di Cristo, inaugurando la redenzione, ci parla di una speranza più che umana, avente origini in Dio creatore e redentore. Una speranza diversa, affidabile, divina. Visibile e comprensibile, proprio perché fondata nel Figlio che Dio invia nel mondo. Il Verbo di Dio incarnandosi entra nel mondo e ci dona la forza di camminare con Lui: Dio cammina con noi in Gesù. Camminare con Lui verso la pienezza della vita ci dà la forza di stare in maniera nuova nel presente, benché esso sia talvolta faticoso. Sperare per noi cristiani significa possedere la certezza di essere in cammino con Cristo verso la pace, verso il compimento umano in Dio, verso il Padre che ci attende. La speranza che il Bambino di Betlemme ci dona offre una meta trascendente, un destino buono al presente, la salvezza integrale per l’umanità, la beatitudine a chi si affida a Dio misericordioso. Con san Paolo possiamo ripetere che veniamo salvati e resi costruttori di pace nella speranza che è Cristo (cf Rm 8,24). Ma sul fondamento della speranza che si vive in Cristo, che è Cristo stesso, ritorneremo più avanti.
- La pace è frutto del superamento di mali sociali, economici, ma prima ancora di mali spirituali, morali, psicologici, relazionali
La pace implica il superamento di molteplici condizioni sociali negative, di diseguaglianze, di economie subumane, spesso espressioni di sfruttamenti ingiusti, di corruzioni, di illegalità e di violenze. «Ancora oggi, a tanti uomini e donne, a bambini e anziani – rimarca papa Francesco -, sono negate la dignità, l’integrità fisica, la libertà, compresa quella religiosa, la solidarietà comunitaria, la speranza nel futuro. Tante vittime innocenti si trovano a portare su di sé lo strazio dell’umiliazione e dell’esclusione, del lutto e dell’ingiustizia, se non addirittura i traumi derivanti dall’accanimento sistematico contro il loro popolo e i loro cari» (n. 1).
Così, la pace presuppone, ancor prima e simultaneamente ai precedenti, il superamento di una serie non piccola di mali interiori e psicologici, come anche di mali relazionali. «La guerra, lo sappiamo – osserva papa Francesco -, comincia spesso con l’insofferenza per la diversità dell’altro, che fomenta il desiderio di possesso e la volontà di dominio. Nasce nel cuore dell’uomo dall’egoismo e dalla superbia, dall’odio che induce a distruggere, a rinchiudere l’altro in un’immagine negativa, ad escluderlo e cancellarlo. La guerra si nutre di perversione delle relazioni, di ambizioni egemoniche, di abusi di potere, di paura dell’altro e della differenza vista come ostacolo; e nello stesso tempo alimenta tutto questo» (ib.). La pace e la stabilità internazionali, sintetizza papa Francesco, sono incompatibili con qualsiasi tentativo di costruirle sulla paura della reciproca distruzione o su una minaccia di annientamento totale quale quella prospettata dalla dissuasione nucleare. Queste affermazioni echeggiano la condanna, fatta recentemente in Giappone, con grande coraggio profetico, non solo dell’uso ma anche della detenzione delle armi nucleari.[3]
- Vie di uscita dai conflitti e dalle guerre verso il bene messianico della pace
Se non si può pretendere di mantenere la stabilità nel mondo attraverso la paura dell’annientamento, in un equilibrio quanto mai instabile, sospeso sull’orlo del baratro nucleare come, allora, costruire un cammino di pace e di riconoscimento reciproco? Dobbiamo perseguire una reale fratellanza, basata sulla comune origine da Dio ed esercitata nel dialogo,[4] nella fiducia reciproca.
In particolare, papa Francesco propone, come via di uscita da una situazione di perenne precarietà, oltre alla memoria delle vittime delle guerre e in specie di molti gesti di solidarietà (cf n. 2), che possono ispirare scelte coraggiose, un’etica globale di solidarietà e di cooperazione. Su tale etica, che dev’essere al servizio di un futuro modellato dall’interdipendenza e dalla corresponsabilità, si può convergere attraverso un ascolto reciproco, che attinge alle energie morali inscritte da Dio nella coscienza di ogni persona.
Alla suddetta etica di solidarietà e di cooperazione si perviene, dunque, facendo leva sulla coscienza morale universale, ma anche, soggiunge papa Francesco, sulla volontà personale e politica. Solo così si possono attivare nuovi processi che riconciliano e uniscono persone e comunità. Detto altrimenti, per costruire la pace, occorre attingere nel profondo del cuore umano e lavorare a rinvigorire la volontà politica, ossia la volontà del bene comune. In breve, la pace può essere realizzata quando tutti riconoscono la legge morale naturale, scritta da Dio nella coscienza di ognuno, e si adoperano ad acquisire le virtù umane e politiche necessarie. Non bastano le parole vuote. Il mondo ha bisogno di testimoni convinti, di artigiani della pace, aperti al dialogo, senza esclusioni né manipolazioni. Nell’ascolto reciproco possono crescere la conoscenza e la stima dell’altro, fino al punto di riconoscere nel nemico il volto del fratello.
La pace è un edificio sempre in costruzione. Per questo richiede un impegno che dura nel tempo e ha bisogno di un lavoro paziente di ricerca della verità e della giustizia. In particolare, ha bisogno di alcuni passi imprescindibili:
- La costruzione incessante di uno Stato di diritto, che secondo una democrazia sostanziale, importa la salvaguardia e la promozione dei doveri e dei diritti di tutti, specie dei deboli e degli emarginati, nella continua ricerca della verità, dal momento che le situazioni sociali, economiche e culturali sono sempre in cambiamento. Una democrazia sostanziale va realizzata mediante un’elaborazione continua, a tutti i livelli: locale, nazionale e mondiale;
- La promozione di una società democratica, partecipativa, in vista della quale è previa l’educazione alla vita associativa e il riconoscimento dei doveri e dei diritti di tutti, in termini di libertà e responsabilità insieme;
- Il perseguimento del bene comune, combattendo decisamente le diseguaglianze sociali mediante una solidarietà creativa;[5]
- La partecipazione della Chiesa alla realizzazione di un ordine giusto e pacifico, mediante: la memoria di Cristo, il servizio al bene comune, l’incremento della speranza della pace, la trasmissione dei valori cristiani, l’insegnamento morale e le opere sociali e di educazione.
- Le vie della riconciliazione fraterna e della costruzione di un sistema economico più giusto
Per i credenti, ma non solo, il cammino della pace è sostenuto dal perdono e dalla riconciliazione con i propri fratelli, perché tutti sono figli di Dio e fratelli nostri. I valori evangelici sollecitano ad essere uomini e donne di pace. Tali valori permeano non solo le nostre relazioni sociali. Strutturano anche le nostre attività economiche. Di qui l’incoraggiamento, da parte di papa Francesco – che intende rendere omaggio alla Caritas in veritate nel decimo anniversario di promulgazione -, non tanto a seguire vaghe utopie quanto piuttosto quel realismo antropologico che comanda la costruzione di sistemi economici giusti, pervasi dalla gratuità e dal dono: «Come scriveva Benedetto XVI, dieci anni fa, nella Lettera Enciclica Caritas in veritate: “La vittoria del sottosviluppo richiede di agire non solo sul miglioramento delle transazioni fondate sullo scambio, non solo sui trasferimenti delle strutture assistenziali di natura pubblica, ma soprattutto sulla progressiva apertura, in contesto mondiale, a forme di attività economica caratterizzate da quote di gratuità e comunione”» (n. 39). La prospettiva ideale e storica indicata da Benedetto XVI è rappresentabile come un’economia di mercato ove esiste un’imprenditorialità plurivalente (imprese profit, finalizzate al profitto; imprese non profit, non finalizzate al profitto; e un’area intermedia tra queste),[1] coadiuvata da leggi giuste, da un’attività redistributiva da parte della politica, da un’economia animata in tutte le sue fasi dalla giustizia (cf CIV n. 37), dai principi della fraternità e della gratuità, dalla logica del dono, che diffondono e alimentano la solidarietà e la responsabilità sociale nei confronti delle persone e dell’ambiente, sollecitando una forma di profonda democrazia economica (cf CIV 39). Su questo tema non mi fermo perché su di esso interverrà il professore Paolo Rizzi. Basti qui accennare che oggi è quanto mai necessaria, in vista della realizzazione della pace, la riforma del sistema finanziario e monetario internazionale affinché possano essere disponibili mercati finanziari liberi, trasparenti, stabili, non oligarchici, «democratici», ministeriali all’economia reale, alle famiglie, alle imprese, alle amministrazioni locali, all’ecologia integrale, al bene comune. Come ha anche detto papa Francesco in più occasioni occorre che i popoli si riapproprino della politica, assegnandole il primato rispetto alla finanza che assolutizza la rendita.[6] Peraltro, ciò potrà avvenire più facilmente quando sia creata a livello mondiale un’autorità politica adeguata, istituendola dal basso, democraticamente, con il consenso di tutti i popoli, ossia riformando profondamente l’attuale ONU.[7]
- La via della conversione ecologica
Dopo la Laudato sì e il Sinodo dei vescovi per la Regione Panamazzonica[8] non poteva non essere ribadito dal Messaggio che la pace ha bisogno di conversione ecologica.[9] Come va intesa la conversione se occorre superare l’abuso della natura e il dominio dispotico dell’essere umano sul creato, le guerre, l’ingiustizia e la violenza? Si tratta di una conversione che deve condurre ad un nuovo sguardo sulla vita, considerando la generosità del Creatore che ci ha donato la Terra e che ci richiama alla gioiosa sobrietà della condivisione. In particolare, si tratta di una conversione che va intesa in senso integrale «come una trasformazione delle relazioni che intratteniamo con le nostre sorelle e i nostri fratelli, con gli altri esseri viventi, con il creato nella sua ricchissima varietà, con il Creatore che è origine di ogni vita. Per il cristiano, essa richiede di “lasciar emergere tutte le conseguenze dell’incontro con Gesù nelle relazioni con il mondo”» (n. 4). La conversione ecologica, che non può essere separata dalla conversione spirituale, e che richiede di essere integrale (spirituale, etica, culturale, pastorale, comunitaria, economica, politica) sollecita i fedeli laici a partecipare, secondo la loro condizione, al servizio regale di Cristo, come spiega il Concilio Vaticano II quando esorta: «Con la loro competenza nelle discipline profane e con la loro attività, elevata intrinsecamente dalla grazia di Cristo, [i laici] portino efficacemente l’opera loro, affinché i beni creati […] siano fatti progredire […] per l’utilità di tutti gli uomini senza eccezione, e siano tra loro più convenientemente distribuiti e, secondo la loro natura, portino al progresso universale nella libertà umana e cristiana» (Cost. dogm. Lumen gentium, 36). Il fatto di voler trasformare questo mondo e salvarlo con Cristo, talvolta può portare al martirio, come attestano San Pietro e San Paolo. Tuttavia, questi gloriosi testimoni ci dimostrano che il messaggio evangelico di cui erano portatori, un messaggio apparentemente debole rispetto alle potenze mondane del potere e del denaro, non è un’utopia, ma, con la forza dello Spirito Santo e il sostegno della fede di coraggiosi discepoli missionari, può diventare realtà, una realtà sempre incompiuta, certo, e da rinnovare.[10]
- A mo’ di conclusione: si ottiene quanto si spera
Non si ottiene la pace se non la si spera. Si tratta, certamente, di credere, innanzitutto, nella possibilità della pace. Ma non bastano le forze umane. Il Messaggio di papa Francesco fa intendere che per realizzare la pace è, in particolare, urgente la speranza cristiana, ossia una virtù che fa leva sulla forza di Dio, sull’aiuto dello Spirito santo. Ciò che speriamo, in effetti, va oltre le nostre forze e il nostro sguardo. Sperare la pace non può che voler dire, per il credente, se non vivere la virtù teologale della speranza. Leggendo in profondità il Messaggio, specie là ove viene fatto appello ai valori cristiani (cf n. 2), ci si accorge che, in ultima analisi, da papa Francesco ci viene proposto di sperare Cristo stesso. Perché non si può sperare ultimamente la pace senza Cristo. È Lui la vera speranza a cui, in definitiva, aneliamo. Chi aspira dal profondo del cuore alla pace desidera ultimamente Cristo.
Volendo spiegare meglio la valenza del Messaggio in considerazione, siamo indotti, in particolare, a sviscerare di più il nesso inscindibile che c’è tra speranza, pace e Cristo.
Sperare la pace, pare suggerire papa Francesco, è in definitiva desiderare dal profondo del cuore un ordine sociale nuovo. Significa voler rifare nuove tutte le cose. Ma ciò è possibile solo se si crede in Gesù Cristo, che è venuto a realizzare una nuova creazione. Il credente pensa che si possano rinnovare tutte le cose perché Cristo, con la sua incarnazione, si è impegnato e continua a trasfigurare tutto. Cristo che rifà tutte le cose è il motivo della nostra speranza. Anzi, è Lui la nostra speranza. La speranza ha un nome. È una Persona!
In ultima analisi, cogliamo il legame esistente tra la speranza e la pace, e possiamo dire di sperare non inutilmente la pace, perché per fede abbiamo la certezza che Cristo compie il prodigio di una nuova creazione, aprendoci ad un futuro di comunione di vita con Dio, che è la meta ultima. La speranza è strettamente intrecciata con la fede. Perché? Perché la fede è la « sostanza » delle cose che si sperano; la prova delle cose che non si vedono (cf Eb, v. 1). Per fede noi speriamo ultimamente la vita eterna, non semplicemente un mondo giusto. Desideriamo «la vita beata», la vita che è semplicemente vita, semplicemente «felicità». La speranza cristiana non è rivolta unicamente ad un mondo giusto, come prospettava Karl Marx, che identificava la società giusta con la nuova Gerusalemme.[11] Nel nostro cammino di fede, Cristo, nostra speranza, sta all’inizio ma anche alla fine. Oltre che al principio è al termine del percorso della speranza. È approdo. Nel tragitto di cui stiamo parlando, la pace, invece, ove si colloca? La pace, connessa ad un retto ordine sociale, ossia concernente il nostro mondo terreno, rispetto al fine ultimo, ossia al compimento umano in Dio, si situa ad un livello più basso. È un fine infravalente. Un tale fine terreno possiamo conseguirlo più sicuramente, e con più efficacia, se coltiviamo la speranza, che è Cristo Gesù, e se partecipiamo all’opera da Lui posta in essere, e cioè la ricapitolazione in sé di tutte le cose, che genera cieli nuovi e terra nuova.
In breve, sperare la pace equivale a sperare innanzitutto Cristo, la sua salvezza integrale. Sperare la pace non è vivere di semplice ottimismo. Non è coltivare meri atteggiamenti umani. Vuol dire, piuttosto, lavorare nel cantiere della costruzione di una società più fraterna, giusta, pacifica. È impegnarsi alla realizzazione di uno sviluppo plenario, sostenibile, inclusivo, ad un’ecologia integrale, facendo leva sulla nuova creazione posta in essere dal Redentore, appoggiandosi non solo sulle proprie forze, ma sull’ausilio dello Spirito d’amore che rinnova la faccia della terra. Da questo punto di vista, la speranza è precisamente virtù teologale, ossia atteggiamento fermo e perseverante mediante cui desideriamo la costruzione di un mondo pacifico, per il quale ci impegniamo perché prima ancora bramiamo ardentemente il Regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità.
Per papa Francesco, sperare la pace significa, in altri termini, vivere in un «luogo» teologico, ove è all’opera il Redentore. Ciò comporta, da parte nostra, l’unione a Lui. La pace non è solo opera umana. È azione personale e comunitaria, propria di un popolo cristiano, ossia di persone che vivono e dimorano in Colui che fa nuove tutte le cose. Sperare la pace significa, in definitiva, vivere Cristo, con Lui, in Lui, il suo grande impegno di attuare una nuova creazione.
+ Mario Toso
Vescovo di Faenza-Modigliana
[1] Cf FRANCESCO, Messaggio per la 53a Giornata Mondiale della Pace 2020, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2019.
[2] Sul tema della speranza umana in rapporto alla speranza cristiana, virtù teologale, si legga l’enciclica di Benedetto XVI In spe salvi (30 novembre 2007). Come possiamo definire la speranza umana? È desiderare di poter ottenere qualcosa che appaga la persona nelle varie situazioni e stagioni della vita. Possiamo capire meglio la consistenza e il limite della speranza umana dalla descrizione che ne dà l’enciclica di papa Benedetto: «L’uomo ha, nel succedersi dei giorni, molte speranze – più piccole o più grandi – diverse nei diversi periodi della sua vita. A volte può sembrare che una di queste speranze lo soddisfi totalmente e che non abbia bisogno di altre speranze. Nella gioventù può essere la speranza del grande e appagante amore; la speranza di una certa posizione nella professione, dell’uno o dell’altro successo determinante per il resto della vita. Quando, però, queste speranze si realizzano, appare con chiarezza che ciò non era, in realtà, il tutto. Si rende evidente che l’uomo ha bisogno di una speranza che vada oltre. Si rende evidente che può bastargli solo qualcosa di infinito, qualcosa che sarà sempre più di ciò che egli possa mai raggiungere» (n. 30). In sintesi, noi abbiamo bisogno delle speranze – più piccole o più grandi – che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma, rimarca subito dopo papa Benedetto, «senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere. Proprio l’essere gratificato di un dono fa parte della speranza. Dio è il fondamento della speranza – non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme. Il suo regno non è un aldilà immaginario, posto in un futuro che non arriva mai (si pensi all’utopia di un mondo giusto di K. Marx); il suo regno è presente là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge. Solo il suo amore ci dà la possibilità di perseverare con ogni sobrietà giorno per giorno, senza perdere lo slancio della speranza, in un mondo che, per sua natura, è imperfetto. E il suo amore, allo stesso tempo, è per noi la garanzia che esiste ciò che solo vagamente intuiamo e, tuttavia, nell’intimo aspettiamo: la vita che è “veramente” vita» (n. 31). «Gesù che di sé ha detto di essere venuto perché noi abbiamo la vita e l’abbiamo in pienezza, in abbondanza (cf Gv 10,10), ci ha anche spiegato che cosa significhi “vita”: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3). La vita nel senso vero non la si ha in sé da soli e neppure solo da sé: essa è una relazione. E la vita nella sua totalità è relazione con Colui che è la sorgente della vita. Se siamo in relazione con Colui che non muore, che è la Vita stessa e lo stesso Amore, allora siamo nella vita. Allora “viviamo”» (n. 27). Così viene definita la speranza virtù cristiana dal Catechismo della Chiesa Cattolica: «..è la virtù teologale per la quale noi desideriamo ed aspettiamo da Dio la vita eterna come nostra felicità, riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci all’aiuto della grazia dello Spirito Santo per meritarla e perseverare sino alla fine della vita terrena» (CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA, Compendio, Edizioni san Paolo-Libreria Editrice Vaticana 2005, n. 387) .
[3] Ecco alcune importanti affermazioni di papa Francesco fatte il 24 novembre 2019 presso l’Atomic Bomb Hypocenter Park (Nagasaki), affermazioni che ritroviamo nel Messaggio per la Giornata mondiale della Pace 2020: «Uno dei desideri più profondi del cuore umano è il desiderio di pace e stabilità. Il possesso di armi nucleari e di altre armi di distruzione di massa non è la migliore risposta a questo desiderio; anzi, sembrano metterlo continuamente alla prova. Il nostro mondo vive la dicotomia perversa di voler difendere e garantire la stabilità e la pace sulla base di una falsa sicurezza supportata da una mentalità di paura e sfiducia, che finisce per avvelenare le relazioni tra i popoli e impedire ogni possibile dialogo. La pace e la stabilità internazionale sono incompatibili con qualsiasi tentativo di costruire sulla paura della reciproca distruzione o su una minaccia di annientamento totale; sono possibili solo a partire da un’etica globale di solidarietà e cooperazione al servizio di un futuro modellato dall’interdipendenza e dalla corresponsabilità nell’intera famiglia umana di oggi e di domani. Qui, in questa città, che è testimone delle catastrofiche conseguenze umanitarie e ambientali di un attacco nucleare, non saranno mai abbastanza i tentativi di alzare la voce contro la corsa agli armamenti. Questa infatti spreca risorse preziose che potrebbero invece essere utilizzate a vantaggio dello sviluppo integrale dei popoli e per la protezione dell’ambiente naturale. Nel mondo di oggi, dove milioni di bambini e famiglie vivono in condizioni disumane, i soldi spesi e le fortune guadagnate per fabbricare, ammodernare, mantenere e vendere le armi, sempre più distruttive, sono un attentato continuo che grida al cielo. Un mondo in pace, libero da armi nucleari, è l’aspirazione di milioni di uomini e donne in ogni luogo. Trasformare questo ideale in realtà richiede la partecipazione di tutti: le persone, le comunità religiose, le società civili, gli Stati che possiedono armi nucleari e quelli che non le possiedono, i settori militari e privati e le organizzazioni internazionali. La nostra risposta alla minaccia delle armi nucleari dev’essere collettiva e concertata, basata sull’ardua ma costante costruzione di una fiducia reciproca che spezzi la dinamica di diffidenza attualmente prevalente».Le parole più puntuali sulla condanna dell’uso e della detenzione di armi nucleari sono quelle adoperate da papa Francesco presso il Memoriale della pace d’Hiroshima sempre il 24 novembre 2019: «Con convinzione desidero ribadire che l’uso dell’energia atomica per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine, non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune. L’uso dell’energia atomica per fini di guerra è immorale, come allo stesso modo è immorale il possesso delle armi atomiche, come ho già detto due anni fa. Saremo giudicati per questo. Le nuove generazioni si alzeranno come giudici della nostra disfatta se abbiamo parlato di pace ma non l’abbiamo realizzata con le nostre azioni tra i popoli della terra. Come possiamo parlare di pace mentre costruiamo nuove e formidabili armi di guerra? Come possiamo parlare di pace mentre giustifichiamo determinate azioni illegittime con discorsi di discriminazione e di odio?». Le affermazioni di papa Francesco meritano senz’altro un approfondimento nel contesto del precedente magistero sociale della Chiesa: sia per spiegarne le profonde ragioni; sia per riflettere sulle reali possibilità di un disarmo nucleare graduale, effettivo, da parte di tutti i detentori di simili armi micidiali, in un quadro di disarmo integrale, ossia adoprandosi a smontare gli spiriti e la psicosi bellica; sia sul necessario giudizio etico circa l’uso e il possesso di altri armamenti micidiali oggi presenti nel mondo; sia sulla estirpabilità della guerra dalla condizione umana (su questo si veda M. TOSO, La non violenza stile di una nuova politica per la pace, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa, Roma 2017, pp. 35-39). Come ha rilevato opportunamente papa Benedetto XVI nell’enciclica In spe salvi «l’uomo rimane sempre libero e poiché la sua libertà è sempre anche fragile, non esisterà mai in questo mondo il regno del bene definitivamente consolidato» (BENEDETTO XVI, In spe salvi, n. 24). Detto altrimenti, sarà sempre necessaria una nuova faticosa ricerca di retti ordinamenti per le cose umane. Un tale compito non sarà mai semplicemente concluso, fino a quando non si abiterà in un mondo perfetto e definitivo. Quindi, rimane, purtroppo, sempre aperta la terribile possibilità delle guerre più atroci. L’unica via che possa garantire una certa sicurezza universale è la ricezione dell’aiuto di Dio all’uomo per l’uso retto della sua libertà (cf In spe salvi, nn. 24-25).
[4] Quale dialogo? In ogni ambito dev’essere instaurato un dialogo serio, adeguato e non meramente formale o sotto forma di diversivo. Dev’essere un interscambio che distrugge i pregiudizi e diviene fecondo in funzione della ricerca comune, della condivisione, e che comporta un tentativo di interazione delle volontà a favore di un lavoro comune o di un progetto condiviso. In un dialogo costruttivo e sincero non si devono passare sottosilenzio le differenze esistenti o minimizzarle: anche nelle cose che, a causa della nostra intima convinzione di fede, ci distinguono gli uni dagli altri, anzi proprio in esse, dobbiamo rispettarci e amarci a vicenda.
[5] Nell’approfondimento di questi punti può tornare utile la lettura del saggio di M. TOSO, Cattolici e politica. In un tempo di cambiamento epocale, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa, Roma 2019, specie pp. 107-144.
[6] Sul tema della riforma del sistema finanziario e monetario si legga almeno: Congregazione per la Dottrina della Fede-Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, Oeconomicae et pecuniariae quaestiones. Considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario (=OEPQ), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2018. Si può leggere con frutto il precedente, ma non meno significativo, pronunciamento del già Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011.
[7] Le varie istituzioni, comprese quelle internazionali, non possono adottare indifferentemente qualsiasi configurazione, proprio a motivo dell’«essenza» antropologica ed etica che deve caratterizzarle, «specificandole» rispetto al bene comune, ai principi di solidarietà e di sussidiarietà e ai valori democratici. Nella Nota del Pontificio Consiglio della Giustizia e della pace, in particolare, oltre alla riforma dell’attuale Organizzazione delle Nazioni Unite, si suggerisce anche quella delle Agenzie connesse, della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, che, pur essendo nati con una vocazione e un mandato di governo della finanza, hanno fallito platealmente l’obiettivo della stabilità monetaria e del ridimensionamento significativo delle situazioni di povertà. Si suggerisce, inoltre, di innovare anche rispetto al «G8» e al «G20», e di procedere alla costituzione di banche centrali regionali, supportate da entità politiche corrispondenti. Secondo il Pontificio Consiglio, il processo di riforma delle istituzioni internazionali dovrebbe svilupparsi «avendo come punto di riferimento l’Organizzazione delle Nazioni Unite, in ragione dell’ampiezza mondiale delle sue responsabilità, della sua capacità di riunire le Nazioni della terra e della diversità dei suoi compiti e di quelle delle sue Agenzie specializzate. Il frutto di tali riforme dovrebbe essere una maggiore capacità di adozione di politiche e scelte vincolanti poiché orientate alla realizzazione del bene comune a livello locale, regionale e mondiale. Tra le politiche appaiono più urgenti quelle relative alla giustizia sociale globale: politiche finanziarie e monetarie che non danneggino i Paesi più deboli; politiche volte alla realizzazione di mercati liberi e stabili e ad un’equa distribuzione della ricchezza mondiale mediante anche forme inedite di solidarietà fiscale globale. Nel cammino della costituzione di un’Autorità politica mondiale non si possono disgiungere le questioni della governance (ossia di un sistema di semplice coordinamento orizzontale senza un’Autorità super partes) da quelle di un shared government (ossia di un sistema che, oltre al coordinamento orizzontale, stabilisca un’Autorità super partes) funzionale e proporzionato al graduale sviluppo di una società politica mondiale. La costituzione di un’Autorità politica mondiale non può essere raggiunta senza la previa pratica del multilateralismo, non solo a livello diplomatico, ma anche e soprattutto nell’ambito dei piani per lo sviluppo sostenibile e per la pace. A un governo sovranazionale non si può pervenire se non dando espressione politica a preesistenti interdipendenze e cooperazioni.
[8] Cf SINODO DEI VESCOVI-ASSEMBLEA SPECIALE PER LA REGIONE PANAMAZZONICA, Amazzonia. Nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale. Instrumentum laboris, guida alla lettura di Maurizio Gronchi, Libreria Editrice Vaticana-Edizioni san Paolo, Città del Vaticano-Cinisello Balsamo 2019.
[9] Sul tema dell’ecologia nella Laudato sì’ vedi MARTÍN CARBAJO NÚŇEZ, Sorella madre terra, Edizioni Messaggero Padova, Padova 2017.
[10] Cf FRANCESCO, Discorso a un gruppo di giovani imprenditori francesi (2 dicembre 2019).
[11] In epoca moderna, spiega Benedetto XVI nell’enciclica In Spe salvi, essendosi dileguata la verità dell’aldilà, si trattava di stabilire la verità dell’aldiquà. La critica del cielo si trasforma nella critica della terra, la critica della teologia nella critica della politica. Il progresso verso il meglio, verso il mondo definitivamente buono, non viene più semplicemente dalla scienza, ma dalla politica – da una politica pensata scientificamente, che sa riconoscere la struttura della storia e della società ed indica così la strada verso la rivoluzione, verso il cambiamento di tutte le cose. Con puntuale precisione, anche se in modo unilateralmente parziale, Marx ha descritto la situazione del suo tempo ed illustrato con grande capacità analitica le vie verso la rivoluzione proletaria. Ma Marx commise un errore fondamentale. Egli ha indicato con esattezza come realizzare il rovesciamento dello stato esistente. Ma non ha detto come le cose avrebbero dovuto procedere dopo. Egli supponeva semplicemente che con l’espropriazione della classe dominante, con la caduta del potere politico e con la socializzazione dei mezzi di produzione si sarebbe realizzata la Nuova Gerusalemme. Allora, infatti, sarebbero state annullate tutte le contraddizioni, l’uomo e il mondo avrebbero visto finalmente chiaro in se stessi. Allora tutto avrebbe potuto procedere da sé sulla retta via, perché tutto sarebbe appartenuto a tutti e tutti avrebbero voluto il meglio l’uno per l’altro. Marx, però, ha dimenticato che l’uomo rimane sempre uomo. Ha dimenticato l’uomo e ha dimenticato la sua libertà. Ha dimenticato che la libertà rimane sempre libertà, anche per il male. Credeva che, una volta messa a posto l’economia, tutto sarebbe stato a posto. Il suo vero errore è il materialismo: l’uomo, infatti, non è solo il prodotto di condizioni economiche e non è possibile risanarlo solamente dall’esterno creando condizioni economiche favorevoli (cf In spe salvi, nn. 20-21). Poiché l’uomo rimane sempre libero e poiché la sua libertà è sempre anche fragile, non esisterà mai in questo mondo il regno del bene definitivamente consolidato. Chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre, fa una promessa falsa; egli ignora la libertà umana. La libertà deve sempre di nuovo essere conquistata per il bene. La libera adesione al bene non esiste mai semplicemente da sé. Se ci fossero strutture che fissassero in modo irrevocabile una determinata – buona – condizione del mondo, sarebbe negata la libertà dell’uomo, e per questo motivo non sarebbero, in definitiva, per nulla strutture buone (cf In spe salvi, n. 24).