[feb 8] Omelia – Messa nell’anniversario di don Giussani

08-02-2021

Dio non può far niente senza una nostra apertura, senza una nostra disponibilità ad accoglierlo. È quanto afferma Julián Carròn nell’introduzione alla Giornata d’inizio anno del 26 settembre 2020.

Dio non può far nulla sul piano del dono, della salvezza… Perché non può far nulla nei nostri confronti?

La ragione, secondo Carròn, sta nel fatto che siamo pervasi dal nihilismo, che è un male oscuro che ci divora dal di dentro: poiché rimaniamo da soli, senza Dio, sperimentiamo il poco che siamo, il nulla che ci avvolge. Il nihilismo odierno, che riempie il nostro spirito, possiede una caratteristica particolare: quella di essere un nihilismo spento, senza la forza intellettuale di scagliarsi contro i valori. In una situazione di pandemia, siamo presi da mille sentimenti, da mille interpretazioni della vita, ma in un vuoto di senso. Scarseggiano le certezze su cui costruire la casa della nostra vita. Tra l’altro, la carenza del senso del vivere ci affoga nel non senso. Il bene non è più un bene attraente, perché non è un bene donato da Dio, che supera le nostre facoltà e le sfida a compiersi in un oltre che le trascende e le colma di ogni vero, bene e verità. Diventa un bene «banale», che non fa vibrare il cuore. Perché? Il motivo ultimo è che vediamo solo il bene che creiamo noi, con le nostre forze creaturali. E così, quello che abbiamo a disposizione è un bene umano, troppo umano, fatto con le mani d’uomo. È frutto della nostra immaginazione, delle nostre facoltà ferite. È un bene immanente, secondo la nostra misura, a seconda della nostra immagine deturpata dal peccato. Non è un bene che fa vibrare, aperto su una misura trascendente. Per cui non arriviamo ad attingere un bene superiore a noi, il bene che proviene da Dio e per il quale siamo fatti. Non vediamo, in particolare, Dio stesso, il Bene assoluto, la vita che proviene da Lui, la vita che ci divinizza, che ci rende figli e figlie di Dio, fratelli tra noi.

Quand’è, invece, che noi vediamo un bene che ci trascende? Quando smettiamo di non vedere? Quando usciamo dal senso del nulla? Quando non ci lasciamo invadere da visioni ed interpretazioni artificiali della realtà. Quando apriamo la nostra intelligenza e la nostra vita a ciò che è l’ultimo piano oggettuale della realtà. Ossia, quando passiamo dal fenomeno al fondamento, dall’apparenza all’evento, che è messo a nostra disposizione da un’intelligenza intuitiva, che legge dentro le cose, le persone, la società, la storia. Quando non rimaniamo prigionieri entro la misura di noi stessi, entro le nostre interpretazioni assolutizzate della realtà. Quando, invece, ci apriamo a ciò che è altro da noi, che è al di là di noi e che ci misura.

Quando siamo pieni di noi stessi rischiamo di essere prede delle nostre interpretazioni, erette a sostituto della realtà che ci trascende. E così, vediamo solo le nostre impressioni, non vediamo la realtà in sé. Non siamo predisposti all’incontro con altri «tu», specie all’incontro con il Tu che è Dio o, meglio, all’incontro con il «noi» che è il Dio trinitario. Volendo sintetizzare: noi riusciamo a sfuggire alla presa del nulla, al nihilismo, quando abbiamo uno sguardo di contemplazione e non strumentalizzante la realtà. Quando riusciamo a giungere alla contemplazione di Dio presente in noi, nella storia, come il Soggetto che la muove e la conduce. Chi oggi adopera per affacciarsi sulla realtà lo strumento cognitivo di una ragione artificiale o di una ragione strumentale, meramente sociologica, che non discende nelle profondità dell’essere, rischia di rimanere sulla superficie delle cose e degli eventi. E non riesce a discendere nel cuore infiammato delle persone, nel loro centro metafisico, là ove gli «occhi» dello spirito sono limpidi e fanno sorgere un’ammirazione travolgente per il bene.

Cari fratelli e sorelle, rischiamo di essere prede del nulla, del non senso se gli occhi della nostra fede si precludono di riconoscere il mistero e non scorgono più la presenza del Signore Gesù che opera in noi e nella storia. Se il nostro sguardo non vede lo sguardo di Cristo pieno d’amore per noi, che ci chiama a rispondere con l’amore, rimaniamo sopraffatti dal nihilismo che ci distrugge. Il nostro cuore non palpita più all’unisono col cuore di Cristo salvatore e missionario. La nostra vita, colpita dalla tragedia della sofferenza e della morte, non è più fornace ardente, il luogo ove vivere un amore tragico ed eroico. I santi come don Giussani ci parlano dell’urgenza di coltivare un’intelligenza amorosa nelle tragedie del nostro tempo. Il nostro io più autentico, si forgia entro un’esperienza di impegno crocifisso che si vive costantemente in Cristo che sale sulla croce per rinnovare il mondo.

Alla luce di queste riflessioni siamo sollecitati a insegnare ai nostri giovani la bellezza di una vita il cui senso pieno si trova in Gesù Cristo, l’Uomo Nuovo. Non si tratta di ritornare alla cosiddetta «normalità», che è una normalità ammalata. Infatti la normalità prima della pandemia era malata di ingiustizia, diseguaglianze e degrado ambientale. Una tale normalità, peraltro, perdura tuttora. Per cambiare le cose occorre ritrovare il senso profondo della vita e della storia. Ciò avviene quando nessuno fa il finto tonto guardando da un’altra parte. Ciò che consentirà di uscire dalla crisi, che è multidimensionale, è l’aderire lealmente alla realtà, come ha fatto il Buon samaritano. È, soprattutto, il darsi, è dare, che non è fare un’elemosina e basta, ma è un darsi che viene dal cuore e che si esprime mediante la tenerezza, ossia l’amore di Gesù che si fa prossimo e che si prende cura dell’umanità. La persona si costruisce mediante il dono eroico di sé, ove sperimenta la felicità. I nostri giovani e noi stessi riscopriamo il senso di una vita non banale quando prendiamo su di noi la croce, ossia quando viviamo la nostra esistenza come un atto d’amore continuo e crocifisso come quello di Cristo.

Come discepoli di Gesùdobbiamo vivere come il Figlio di Dio che si abbassa, si fa uno di noi per camminare con noi, per guarire, per aiutare, per sacrificarsi per l’altro. È importante che puntiamo alla normalità del Regno di Dio: una normalità che è straordinarietà di vita da parte dei figli e delle figlie di Dio che si impegnano, costi quel che costa, a costruire il Regno di Dio. Il che sollecita a far sì che tutti abbiano il pane, che l’organizzazione sociale si basi sul contribuire, condividere e distribuire, con tenerezza, non sul possedere per possedere, sull’escludere, sull’accumulare all’infinito. In vista di una società fraterna, giusta e pacifica occorre una cultura della cura. La cultura del prendersi cura gli uni degli altri consente di debellare la cultura dell’indifferenza, del non senso. Ci aiuta a scoprire che siamo fatti ad immagine somigliantissima della Trinità, comunità d’amore ardente.

                                                     + Mario Toso