Cari fratelli e sorelle,
Geremia, a fronte di pastori infedeli e mercenari che fanno perire e disperdono il gregge, annuncia l’impegno di Dio di radunare le pecore disperse, per farle tornare ai loro pascoli. Egli costituirà sopra di esse «pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi» (Ger 23, 1-6). Ma, in particolare, susciterà un nuovo germoglio, giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra. In altre parole, Dio pensa di mandare per Israele e per il mondo un pastore nuovo, un Salvatore, che per il Nuovo testamento è Gesù, Figlio di Dio, che dà la sua vita a tutti, per tutti. Attraverso il suo Spirito d’amore diventa causa di pace tra i popoli e li conduce ad essa. Egli affratella e toglie l’inimicizia. Infatti il suo Spirito donato riconcilia tutti con Dio e con i fratelli. Tramite ad esso ci si può presentare al Padre con uno stesso cuore (cf Ef 2, 13-18). Lo Spirito d’amore di Dio e di Cristo è riversato e abita in noi mediante la preghiera, con l’ascolto della Parola del Signore.
Gesù Cristo è, in definitiva, Colui che dona e porta la pace nel mondo. Il contrario della pace è il conflitto, l’ingiustizia, la guerra, la devastazione. Quando c’è guerra, tutti ne vengono tragicamente coinvolti. In questo territorio commemoriamo un terribile eccidio che l’ha insanguinato: un’esperienza impossibile da cancellare. La guerra, checché se ne pensi, è una sconfitta per tutti, anche per i vincitori, come aveva ammonito papa Benedetto XV. È una follia perché distrugge persone, grandi e piccini. Stravolge i legami tra fratelli. È spesso fonte di nuovi rancori e conflitti. Ancora oggi non ne siamo fuori. Anche nel nostro tempo l’aspirazione alla pace e l’impegno per costruirla si scontrano col fatto che nel mondo sono in atto numerosi conflitti armati. C’è chi questo clima vuole addirittura crearlo. In particolare, coloro che cercano lo scontro tra diverse culture e civiltà, coloro che speculano sulle guerre per vendere altre armi. Così, una terza guerra mondiale «a pezzi» è sotto gli occhi di tutti e miete vittime tra gli stessi bambini, anziani e donne che si trovano nei campi profughi. Provoca dislocamenti forzati di popolazioni, distruzione di comunità, case, strade, fabbriche, ponti e ferrovie.
Ma per fortuna, proprio dai nostri cuori attoniti, abitati da Cristo, principe della Pace, specie in questo luogo si rafforza in noi il convincimento e si leva il grido: «Mai più la guerra»! Proprio qui non possono, peraltro, non risuonare le parole di Gesù nel Vangelo: «Beati gli operatori di pace». Egli non dice: «Beati i predicatori di pace». Tutti sono capaci di proclamarla o di manifestare in piazza per essa. Occorre, invece, fare la pace. È su questo sentiero che occorre muoversi, senza indugio. Non saranno tanto i grandi manifesti o i grandi Congressi internazionali a costruire la pace che tutti chiedono. Occorre avere la sapienza di fare la pace nelle piccole cose di ogni giorno, non si stanca di ripetere papa Francesco. Bisogna iniziare da se stessi, con uno stile da artigiani, come anche dalla propria famiglia e dal proprio Paese, dal posto di lavoro, dai mercati finanziari. È indispensabile, in particolare, vivere uniti. Ci vuole, poi, pazienza, tenacia. Fare la pace è un lavoro di tutti i giorni, passo dopo passo, promovendo la giustizia. Praticare la giustizia porterà la pace, anche con riferimento ai fenomeni globali delle migrazioni di persone. Essi non possono essere affrontati con efficacia facendo leva solo sull’emotività esasperata, sull’idea di una continua emergenza. Le migrazioni oggi, per varie ragioni, in un mondo globalizzato, sono una dimensione strutturale, e quindi non un fatto occasionale. Non si può essere impreparati, scoordinati, confusi, come appaiono ancora gli Stati Europei. Con riferimento a ciò papa Francesco parla di accogliere, proteggere, promuovere ed integrare. Ma spesso quanto dice è strumentalizzato. Le sue parole vanno intese bene e prese per intero. Durante il suo volo di ritorno da Ginevra, in occasione del 70° anniversario della Fondazione del Consiglio ecumenico delle chiese, lo scorso 21 giugno ha ribadito quanto aveva già scritto nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2018. E cioè che l’accoglienza non può essere senza limiti. Dev’essere vissuta, specie da parte dei governanti, con prudenza, come un’accoglienza sostenibile, secondo le capacità reali delle singole Nazioni di integrare, ossia nei limiti consentiti dal bene comune rettamente inteso, rispettoso dei diritti sia dei profughi come dei cittadini dei Paesi ospitanti. Se una Nazione non è in grado di integrare oltre un certo numero di profughi non può accoglierli sconsideratamente. Quando non vi sia una concreta e corretta integrazione vi è, infatti, il grave rischio di produrre frustrazioni e conflitti civili, contrari ad una società giusta e pacifica. Non solo, dunque, secondo papa Francesco, ci vuole un’integrazione sostenibile, ma anche un’azione congiunta tra i Paesi Europei, affinché – in continuità fra l’altro con il Concilio Vaticano II (cf Gaudium et spes) che sollecitava ad aiutare i migranti nella loro patria di origine, perché prima del diritto di emigrare vi è il diritto di non emigrare -, sia varato un piano d’urgenza, o un piano Marshall per l’Africa, ovvero l’impegno sinergico ad investire per l’educazione, a collaborare perché vi sia lavoro e sviluppo integrale per tutti.
Chi intende realizzare la pace deve costruire sui pilastri della verità, della libertà, della giustizia e della solidarietà, scrisse san Giovanni XXIII. La pace è senza dubbio un dono di Dio, ma anche un dono che dev’essere accolto e seminato con un lavoro artigianale quotidiano, ovunque si sia. La comunione con Gesù Cristo e il suo Spirito d’amore ci colmi in questa Eucaristia di passione per la pace, per farla crescere in tutti i cuori.