Verona, 26 novembre 2016
26-11-2016
Carissimi,
la liturgia odierna, alle porte della prima domenica di Avvento, ci presenta un brano tratto dal Libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (Ap 22, 1-7). Giovanni vide un fiume d’acqua viva, limpido come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello e scorreva nel mezzo della città. Nel centro della piazza si trova un albero di vita che dà frutti, nutre e guarisce: le foglie dell’albero servono anche a guarire le Nazioni. Il linguaggio è immaginifico, evocativo, incalzante. Quello che viene detto è difficile da organizzare visivamente, spazialmente.
Ma il messaggio appare piuttosto chiaro.
Il fiume di vita che scende da Dio e dall’Agnello irrora la città del popolo di Dio. In mezzo ad esso vive Cristo quale albero che nutre e guarisce.
La visione di Giovanni sembra non applicarsi direttamente – indirettamente sì – alla città dell’uomo, alla città secolare, diremmo noi oggi: città di cui ci hanno parlato tanti pensatori cristiani, non ultimi Jacques Maritain, Giorgio la Pira, Giuseppe Lazzati.
Ma il popolo di Dio, alimentato e guarito da Cristo, vive seminato nella famiglia umana. Così, la città di Dio costituisce il lievito morale, spirituale e culturale della polis umana, nella quale pulsa il cuore di un popolo che si percepisce e si fa incessantemente tale. Contribuisce a consolidare l’ethos civile. Oggi per noi è questo il problema capitale. Non si tratta solo di accogliere ed integrare gli immigrati e i profughi. Occorre che i molti, che sono caratterizzati da etnie, costumi, culture e religioni diverse, possano amalgamarsi, senza perdere la propria identità, trovando una piattaforma comune di beni-valori condivisi, coltivati e promossi collaborando insieme. Ci vorrà una grande opera educativa.
Il popolo, composto da cittadini chiamati al bene comune, cresce più compatto quando gli stessi cittadini, riconoscendosi figli dello stesso Padre, si accolgono come fratelli. Noi cristiani, discepoli di Cristo, ovvero coloro che imparano da Cristo, imparano Cristo, possiamo essere lievito e sale rafforzando l’unione morale e spirituale delle Nazioni, permeando attività e istituzioni con lo spirito evangelico. Ma non solo. Possiamo anche crearne di nuove. Infatti, come ci hanno insegnato grandi cristiani e intellettuali del secolo scorso, dall’esperienza di Cristo e della sua salvezza integrale, dal cristianesimo che modella antropologie ed umanesimi, derivano culture nuove, stili di vita ispirati dal Vangelo, humus civili, che gradualmente si sedimentano e giungono ad essere i pilastri valoriali e giuridici della città dell’uomo, della democrazia, dell’Europa. Basti rammentare qui il saggio maritainiano sul cristianesimo e sulla democrazia.
Il popolo di Dio è incamminato, lo sappiamo, verso la Gerusalemme celeste, la città dai basamenti solidi ed eterni. Cresce e vive pellegrino su questa terra, nella storia.
Tra il popolo di Dio e il popolo o, meglio, i popoli della famiglia umana, c’è distinzione ed unità. Le persone sono cittadini di entrambe le città. Mentre si vive uniti a Cristo si esiste, come diceva sant’Agostino, nel sobborgo della città di Dio, ovvero nella città dell’uomo.
Cristo è vita, è luce che illumina e vince la notte della morte, della menzogna, dell’incomunicabilità, delle separazioni. Per essere suoi veri discepoli dobbiamo vigilare. Il nostro cuore, come suggerisce il Vangelo di Luca (cf Lc 21, 34-36), non deve appesantirsi in dissipazioni, in affanni della vita, in appartenenze totalitarie, ossia in appartenenze che escludono Dio, o lo rendono subalterno a finalità meramente strumentali.
In questa celebrazione eucaristica facciamo, allora, il proposito di vegliare e pregare perché Cristo inondi sempre di più la nostra vita e, mediante essa, fornisca alimento e guarigione alla vita politica, alla città dell’uomo, alle sue istituzioni, al suo linguaggio, alla comunicazione sociale. Mentre viviamo il mistero della morte e risurrezione di Cristo pensiamo a poche cose, che debbono essere poi messe in pratica:
la liturgia odierna, alle porte della prima domenica di Avvento, ci presenta un brano tratto dal Libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (Ap 22, 1-7). Giovanni vide un fiume d’acqua viva, limpido come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello e scorreva nel mezzo della città. Nel centro della piazza si trova un albero di vita che dà frutti, nutre e guarisce: le foglie dell’albero servono anche a guarire le Nazioni. Il linguaggio è immaginifico, evocativo, incalzante. Quello che viene detto è difficile da organizzare visivamente, spazialmente.
Ma il messaggio appare piuttosto chiaro.
Il fiume di vita che scende da Dio e dall’Agnello irrora la città del popolo di Dio. In mezzo ad esso vive Cristo quale albero che nutre e guarisce.
La visione di Giovanni sembra non applicarsi direttamente – indirettamente sì – alla città dell’uomo, alla città secolare, diremmo noi oggi: città di cui ci hanno parlato tanti pensatori cristiani, non ultimi Jacques Maritain, Giorgio la Pira, Giuseppe Lazzati.
Ma il popolo di Dio, alimentato e guarito da Cristo, vive seminato nella famiglia umana. Così, la città di Dio costituisce il lievito morale, spirituale e culturale della polis umana, nella quale pulsa il cuore di un popolo che si percepisce e si fa incessantemente tale. Contribuisce a consolidare l’ethos civile. Oggi per noi è questo il problema capitale. Non si tratta solo di accogliere ed integrare gli immigrati e i profughi. Occorre che i molti, che sono caratterizzati da etnie, costumi, culture e religioni diverse, possano amalgamarsi, senza perdere la propria identità, trovando una piattaforma comune di beni-valori condivisi, coltivati e promossi collaborando insieme. Ci vorrà una grande opera educativa.
Il popolo, composto da cittadini chiamati al bene comune, cresce più compatto quando gli stessi cittadini, riconoscendosi figli dello stesso Padre, si accolgono come fratelli. Noi cristiani, discepoli di Cristo, ovvero coloro che imparano da Cristo, imparano Cristo, possiamo essere lievito e sale rafforzando l’unione morale e spirituale delle Nazioni, permeando attività e istituzioni con lo spirito evangelico. Ma non solo. Possiamo anche crearne di nuove. Infatti, come ci hanno insegnato grandi cristiani e intellettuali del secolo scorso, dall’esperienza di Cristo e della sua salvezza integrale, dal cristianesimo che modella antropologie ed umanesimi, derivano culture nuove, stili di vita ispirati dal Vangelo, humus civili, che gradualmente si sedimentano e giungono ad essere i pilastri valoriali e giuridici della città dell’uomo, della democrazia, dell’Europa. Basti rammentare qui il saggio maritainiano sul cristianesimo e sulla democrazia.
Il popolo di Dio è incamminato, lo sappiamo, verso la Gerusalemme celeste, la città dai basamenti solidi ed eterni. Cresce e vive pellegrino su questa terra, nella storia.
Tra il popolo di Dio e il popolo o, meglio, i popoli della famiglia umana, c’è distinzione ed unità. Le persone sono cittadini di entrambe le città. Mentre si vive uniti a Cristo si esiste, come diceva sant’Agostino, nel sobborgo della città di Dio, ovvero nella città dell’uomo.
Cristo è vita, è luce che illumina e vince la notte della morte, della menzogna, dell’incomunicabilità, delle separazioni. Per essere suoi veri discepoli dobbiamo vigilare. Il nostro cuore, come suggerisce il Vangelo di Luca (cf Lc 21, 34-36), non deve appesantirsi in dissipazioni, in affanni della vita, in appartenenze totalitarie, ossia in appartenenze che escludono Dio, o lo rendono subalterno a finalità meramente strumentali.
In questa celebrazione eucaristica facciamo, allora, il proposito di vegliare e pregare perché Cristo inondi sempre di più la nostra vita e, mediante essa, fornisca alimento e guarigione alla vita politica, alla città dell’uomo, alle sue istituzioni, al suo linguaggio, alla comunicazione sociale. Mentre viviamo il mistero della morte e risurrezione di Cristo pensiamo a poche cose, che debbono essere poi messe in pratica:
- Per essere lievito, luce, sale del mondo, dobbiamo coltivare l’unione a Cristo, dobbiamo vivere Lui e essere in comunione tra noi;
- Per essere portatori di vita nuova, che fa vivere in pienezza secondo la statura di Cristo, una vita che contribuisce a guarire la città dell’uomo, la politica, l’ethos, viviamo da fratelli che si incontrano, dialogano, si accolgono, anzitutto nel nome di Cristo. Non si può essere popolo di Dio, non si può sentirsi, essere e farsi incessantemente popolo politico se non si vive la fraternità, precondizione di una relazionalità generativa;
- Le nostre appartenenze sociali, pur importanti, non possono essere superiori e più cogenti rispetto alla nostra appartenenza a Cristo.
Durante l’Eucaristia ci accompagni l’invocazione: vieni, Signore Gesù!