Papa Francesco comunicatore in una società liquida

24-10-2017

Premessa: pontefice in una società liquida

In una società fluida, in cui tutto passa rapidamente e in cui prevale una rappresentazione artificiale, in cui il reale è spesso tradotto con un linguaggio virtuale, semplificatore e mistificatore, il pontefice desidera porsi nei confronti della gente con au­ten­ti­ci­tà, sem­pli­ci­tà e im­me­dia­tez­za. Egli, mentre riconosce la valenza positiva dei nuovi mezzi di comunicazione, si propone di comunicare oltrepassando quell’elaborazione della realtà che giunge a modificare anche le nostre coscienze, producendo addirittura un cambiamento antropologico ed etico.[1] E ciò per arrivare ad incontrare realmente le persone, entrando empaticamente in contatto con loro. Anche con riferimento ai mass media, secondo papa Francesco, vale il principio che la realtà è superiore alle idee, al linguaggio virtuale. Ogni persona, lo sappiamo, desidera di essere riconosciuta per quello che è e di essere intercettata nel suo nucleo interiore, nel «cuore» del suo essere, nel suo vissuto. E la migliore via per giungere a toccare il cuore delle persone è quella dell’amore, come già insegnava Jacques Maritain.

Ma da cosa na­sce la for­za comunicativa delle af­fer­ma­zio­ni di papa Francesco? Se da un lato in que­sti anni Fran­ce­sco è sta­to de­fi­ni­to come un «Papa Pop», con­qui­stan­do co­per­ti­ne di ri­vi­ste come Time e Rol­ling Sto­ne, cosa ren­de così spe­cia­le il suo mes­sag­gio? Secondo mon­si­gnor Da­rio Edoar­do Vi­ga­nò, già di­ret­to­re del Cen­tro Te­le­vi­si­vo Va­ti­ca­no e dal 2015 Pre­fet­to del­la Se­gre­te­ria per la co­mu­ni­ca­zio­ne del­la San­ta Sede, ciò che ren­de così peculiare la co­mu­ni­ca­zio­ne di papa Fran­ce­sco e le sue pras­si co­mu­ni­ca­ti­ve «è, in primo luogo, la sua ca­pa­ci­tà di tra­sfor­ma­re l’or­di­na­rio in straor­di­na­rio, com­pien­do ciò che i so­cio­lo­gi chia­ma­no “even­to tra­sfor­ma­ti­vo”. Que­sto ele­men­to è sta­to chia­ro fin dal mo­men­to in cui il Papa si è pre­sen­ta­to per la pri­ma vol­ta a piaz­za San Pie­tro. Il suo sa­lu­to è lie­ve. Il Pon­te­fi­ce si pre­sen­ta con una pa­ro­la sussurrata, che non vuole competere con i messaggi urlati, oggi di moda nei talk show. Il se­con­do aspet­to vie­ne, in­ve­ce, dai sel­fie, che van­no in­qua­dra­ti nel­la ca­pa­ci­tà del Papa di “ri­ter­ri­to­ria­liz­za­re” il cor­po. Non ci tro­via­mo di fron­te alla com­pia­cen­za nar­ci­si­sti­ca cui sia­mo abi­tua­ti quan­do par­lia­mo di que­sta pra­ti­ca, ben­sì a un qual­co­sa che ten­de al­l’ag­gre­ga­zio­ne. I sel­fie di­ven­ta­no al­lo­ra ge­sti gio­io­si di con­tat­to e eu­fo­ri­ca in­cor­po­ra­zio­ne re­ci­pro­ca. La ter­za ca­rat­te­ri­sti­ca com­pe­te in­ve­ce un al­tro aspet­to: l’as­sen­za di un op­po­nen­te nel­le sue nar­ra­zio­ni».[2]

 

  1. Il confronto con i suoi predecessori

 

Sono ormai in parecchi, specie coloro che lavorano nei massmedia, che hanno studiato il modo di comunicare di papa Francesco. È palese che il pontefice argentino si differenzia dai suoi predecessori, i quali secondo un noto aforisma: «Giovanni Paolo II era un papa da guardare, Benedetto XVI un papa da ascoltare, mentre papa Francesco è un papa da incontrare». Sotto questo profilo, scrive Mimmo Muolo, in un suo recente volume,[3] il senso prevalente con cui la gente inquadrava e percepiva san Giovanni Paolo II era la vista. Il pontefice polacco, infatti, soleva comunicare non solo con la parola, ma anche con altri codici linguistici, soprattutto la gestualità. Non va, infatti, dimenticato che in gioventù era stato un attore. Mentre il pontefice Joseph Ratzinger, anche una volta divenuto successore di Pietro, si contraddistingueva per la sua parola ragionata. Il senso con il quale ci si rapportava a lui era essenzialmente l’udito. Egli era un papa da ascoltare e, poi, da leggere, o meglio, da ri-leggere.

Con Francesco si è di fronte ad un significativo cambiamento. Egli è un papa da incontrare, quasi da toccare. Il senso maggiormente stimolato quando si entra in relazione con lui è il tatto. Gli ammalati e i sofferenti – ai quali concede maggior tempo durante le udienze – sembrano tendere ad un contatto fisico con la sua persona. Non che ciò non avvenisse con i suoi predecessori. Ma papa Bergoglio pare possedere un carisma tutto suo. E se incontrare non vuol dire solo parlare, ma anche porre in essere atteggiamenti e modalità di esprimersi, ebbene papa Francesco è davvero maestro in questo.

Sembra che la ragione del suo successo, ben oltre i confini ecclesiali, risieda nel fatto di aver sdoganato i gesti della normale quotidianità anche per l’uomo bianco vestito. Un papa che non ha timore di mostrarsi, che non fa mistero dei suoi affetti, che conserva gli amici di ieri.

 

  1. Un nuovo linguaggio: quello dei gesti

 

Papa Francesco, l’abbiamo notato anche nella sua recente visita a Bologna, lo scorso ottobre, quando posava con insistenza accanto ai profughi per un selfie, si caratterizza soprattutto per alcuni gesti. Egli li valorizza appositamente. Mediante essi intende comunicare con più efficacia, per insegnare con più incisività.  I suoi gesti intendono porsi quasi come «atto esemplare, magisteriale». Tant’è che alcuni hanno osato affermare che papa Francesco sta scrivendo con il suo pontificato anche un’enciclica dei gesti.

Detto altrimenti, il pontefice, conoscendo la valenza e l’efficacia comunicativa dei gesti e come oggi si viva in una società della comunicazione, adopera scientemente e a bella posta il linguaggio gestuale. A papa Francesco un simile stile comunicativo gli deriva dalla precedente esperienza pastorale, da una capacità affinata di ascolto della gente. Essendo vissuto per parecchio tempo come pastore tra le gente semplice, tra i molteplici modi di comunicare preferisce quello dell’incontro e dei gesti a quello delle omelie e dei testi magisteriali. Il pontefice che si ferma dinnanzi al muro che divide Israele dai territori palestinesi dice con quella sosta e con l’atto di appoggiare la mano sulla cortina di cemento molto di più che se avesse pronunciato un lungo discorso. E lo stesso vale per la visita a Lampedusa e a Lesbo.

In tal modo, il suo magistero esce dai ristretti confini della carta e degli schermi del computer. Si può dire che papa Francesco abbatte i muri e costruisce ponti più con i gesti che con le parole.

  1. I gesti della quotidianità

Che tipo di papa fosse stato eletto, quel tardo pomeriggio del 13 marzo 2013, la gente ha impiegato pochissimo a comprenderlo. L’enciclica dei gesti trova il suo incipit nel «Fratelli e sorelle, buonasera», pronunciato al suo primo affacciarsi da papa. Quel buonasera dà subito la percezione che qualcosa è cambiato e sta cambiando. Quella semplice parola, la più colloquiale che esista, colpisce positivamente, in una maniera famigliare. Accompagnata da una presentazione semplice, con la veste bianca, senza mozzetta rossa e la stola dei predecessori. Molti di coloro che erano seduti a casa propria udendo il saluto del pontefice hanno avuto la sensazione che entrasse in casa loro un conoscente, una persona di famiglia, un nonno. Così, non è passata inosservata la sua richiesta di una preghiera per il vescovo di Roma, prima che il vescovo benedicesse il popolo. Il papa fa recitare alla gente di piazza san Pietro il Padre nostro, l’Ave Maria e il Gloria al Padre. Anche questo non era mai successo.

Come cambiò il modo di presentarsi in pubblico del pontefice, così ne cambiò i gesti della vita quotidiana. Nei giorni seguenti torna alla Casa del Clero di Via della Scrofa per pagare il conto. Prende alloggio a Santa Marta, non tanto per una professione di sobrietà ma perché, a suo dire, egli non  potrebbe vivere isolato nel Palazzo papale. Si sposta in Roma a bordo di una semplice Ford Focus e, all’estero, con automobili utilitarie. Viaggiando in aereo si porta la borsa. Insomma, il papa intende, per quanto possibile, vivere come una persona normale.

 

  1. Un uso sapiente della comunicazione: un papa social ed interattivo

Aiutato dai suoi collaboratori, papa Francesco dimostra una discreta capacità di usare i new media. Si può definire il primo papa social. Il suo approccio ai new media non è ingenuo e sprovveduto. Sa che i mezzi moderni di comunicazione possono essere ambivalenti. L’ambiente digitale, egli ha scritto, è una piazza, un luogo di incontro, ove si può accarezzare o ferire, avere una discussione proficua o un linguaggio mortale.

Il linguaggio di papa Francesco è creativo. Egli conia neologismi, specie quando desidera esprimere concetti per i quali le parole di uso comune gli stanno strette. Esempi. Primerear: anticipare: la grazia deve anticipare il peccato. Martalismo: fare come Marta, ossia essere troppo impegnati nel fare, come taluni nella Curia. Zizzanieri: creatori di divisione nella Chiesa. Balconear: guardare dal balcone, senza coinvolgersi.  Quest’ultima parola la adopera con i giovani a Cracovia, lì convenuti per la Giornata mondiale della Gioventù. Il 1 ottobre 2017 il papa, in visita alla città di Cesena, salutando coloro che erano presenti in Piazza del Popolo, adopera almeno tre volte l’espressione “stare al balcone”. Ecco quanto dice precisamente: «Da questa piazza vi invito a considerare la nobiltà dell’agire politico in nome e a favore del popolo, che si riconosce in una storia e in valori condivisi e chiede tranquillità di vita e sviluppo ordinato. Vi invito ad esigere dai protagonisti della vita pubblica coerenza d’impegno, preparazione, rettitudine morale, capacità d’iniziativa, longanimità, pazienza e forza d’animo nell’affrontare le sfide di oggi, senza tuttavia pretendere un’impossibile perfezione. Un sano realismo sa che anche la migliore classe dirigente non può risolvere in un baleno tutte le questioni. Per rendersene conto basta provare ad agire di persona invece di limitarsi a osservare e criticare dal balcone l’operato degli altri. E questo è un difetto, quando le critiche non sono costruttive. Se il politico sbaglia, vai a dirglielo, ci sono tanti modi di dirlo: “Ma, credo che questo sarebbe meglio così, così…”. Attraverso la stampa, la radio… Ma dirlo costruttivamente. E non guardare dal balcone, osservarla dal balcone aspettando che lui fallisca».

Dal punto di vista di analisi del linguaggio e della comunicazione, il discorso di papa Francesco, rivolto alla gente sulla necessità di impegnarsi in politica e,[4] per conseguenza, sull’urgenza di preparasi in vista di ciò, appare fatto senza fare ricorso alle ragioni proprie dell’ordine della fede. Il pontefice si muove principalmente sul piano della ragione. In un’altra occasione, scrivendo  l’esortazione apostolica Evangelii gaudium, e motivando l’impegno nel sociale e nel politico, fa appello, invece, prevalentemente alle motivazioni proprie dell’ordine della fede. I credenti devono essere coscienti della loro vocazione al sociale e praticare la dimensione sociale della fede, perché confessano un Padre, il Figlio di Dio incarnato e lo Spirito santo. Ciò induce a riconoscere che nel sociale si è chiamati a vivere secondo la fraternità, vedendo e amando negli altri il volto stesso di Cristo, riconoscendo che le relazioni sociali vanno vissute in maniera trinitaria (cf Evangelii gaudium, n. 178).

  1. Il rovescio della medaglia

In Francesco colpisce il ricorso a espressioni idiomatiche italiane: «Fare figli come conigli»; «Dare un calcio ove non batte il sole». Un’altra espressione è «Mettersi nelle scarpe degli altri», probabilmente mutuata dal gergo argentino. Sulla prima si ritornerà. Queste espressioni quotidiane e inusuali nel gergo pontificio non sono un vezzo, bensì sono un mezzo per comunicare in maniera comprensibile, diretta, senza un linguaggio ricercato e sofisticato, quale quello delle persone che vivono chiuse in ambienti culturali ristretti, e che anziché avvicinare la gente la allontanano.

Naturalmente non sempre l’effetto è quello desiderato. C’è, infatti, il rovescio della medaglia. La forza icastica di alcune frasi, qualche metafora ardita hanno finito per creare qualche problema. Il primo esempio è quello relativo all’espressione già citata «Fare figli come conigli», cui papa Francesco si riferirà tornando dalle Filippine, parlando a proposito della contraccezione. L’espressione suscitò non pochi fraintendimenti e più di una polemica, anche tra i cattolici. Quello che voleva dire papa Francesco lo si capisce rileggendo per intero quanto egli disse effettivamente. Dicendo no alla contraccezione Paolo VI voleva contrastare il neomalthusianismo che la proponeva come soluzione all’eccessivo aumento della popolazione mondiale. Se il cristiano deve dire no al drastico controllo delle nascite non significa che debba fare figli in serie. Si deve parlare, piuttosto, di paternità e di maternità responsabili. Non si deve, peraltro, nemmeno scendere sotto la soglia dei tre figli, per non finire dentro il cosiddetto inverno demografico.[5]

La decontestualizzazione della frase rispetto al complesso del discorso porta al fraintendimento del senso.

  1. L’anelito ad una comunicazione più aderente ai contenuti della fede

Nella coniazione di un nuovo linguaggio, meno ingessato e meno tradizionale, meno iniziatico, ossia riservato solo ad alcuni addetti ai lavori, si deve scorgere il desiderio del pontefice di farsi capire, di riuscire ad esprimere, con un linguaggio più comprensibile anche alla gente non «coltivata» dal punto di vista teologico, la verità e la bellezza della fede. In Francesco il desiderio di cambiare il linguaggio è accompagnato, in pari tempo, dall’intento della fedeltà al messaggio evangelico. Egli non intende, generalmente, cambiare la dottrina, fatta eccezione ad esempio per la pena di morte. Talvolta, sottolinea lo stesso pontefice, i sacerdoti sono fedeli ad una formulazione concettuale del passato e non trasmettono la sostanza del Vangelo. Pur con la santa intenzione di comunicare la verità su Dio e sull’essere umano trasmettono un’idea falsa di Dio e dell’essere umano. Occorre, dunque sviluppare un nuovo linguaggio, meno arcaico, meno normativo e sanzionatorio. Bisogna coniare nuovi codici comunicativi, più biografici, propositivi, famigliari e popolari, non riservati agli specialisti, ai biblisti, ai teologi e ai canonisti, senza, peraltro, disprezzare il linguaggio specialistico di questa o quella scienza. Specie nell’epoca dei media, che avvolgono e condizionano la nostra vita, è da tenere presente che il linguaggio è divenuto molto importante, giacché è accresciuta la sua capacità di impatto e il suo potere di cambiare il nostro modo di percepirci, di descriverci.

Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium (=EG), papa Francesco giunge ad affermare, a proposito di uno degli strumenti comunicativi più rilevanti dei presbiteri: «L’omelia è la pietra di paragone per valutare la vicinanza e la capacità d’incontro di un Pastore con il suo popolo» (EG n. 135).

Ebbene, l’omelia che papa Francesco ha tenuto nella prima Messa solenne, in piazza san Pietro, dopo la sua elezione, è paradigmatica. Qualcuno ha osservato che l’omelia tenuta dal pontefice sembrava molto povera di dottrina. Altri, invece, hanno obiettato dicendo: «Come le parole di Gesù, se confrontate con i contenuti della Lettera di san Paolo ai Romani».

Quella celebrazione era certamente di particolare solennità e lo dimostrava l’assemblea lì radunata e la sua composizione. Da un lato le rappresentanze diplomatica, dall’altra cardinali, vescovi e preti, e più oltre tanta, tantissima gente. Il papa scelse messaggio e linguaggio più adatti a quegli interlocutori. Gli interlocutori privilegiati ai quali il papa presta la sua attenzione non sono gli appartenenti alle Accademie teologiche, ma gli operatori pastorali impegnati nel lavoro di base, sia clero sia laici. Pertanto, i contenuti e il linguaggio sono proporzionati al destinatario. Non è inutile osservare che dietro alcune scelte pastorali sta una particolare ecclesiologia, ossia l’ecclesiologia conciliare, ecclesiologia della comunione e della missione: un’ecclesiologia che supera la concezione piramidale preconciliare, con la divisione in Chiesa che insegna da una parte e Chiesa che impara dall’altra, e vede l’intera compagine della Chiesa come impregnata di Vangelo e animata dallo Spirito santo, in cui i pastori non hanno solo da insegnare e santificare, ma anche da imparare ed essere santificati. Emblematico – lo si richiama qui per la seconda volta – è stato il gesto di papa Francesco appena eletto, quando chiese che i fedeli che gremivano piazza san Pietro, pregassero per lui e che, inchinatosi, lo benedicessero (cf don Chino Biscontin).[6]

In una visione conciliare di Chiesa, l’omelia assume una fisionomia particolare. Non è solo l’insegnamento che un membro del clero impartisce all’assemblea celebrante, ma è il frutto di una coralità nell’adesione alla fede che l’omelia assume ed esprime. L’omelia del presbitero deve esprimere la maternità della Chiesa. Questa è madre e predica al popolo come una madre che parla al suo figlio, sapendo che il figlio ha fiducia che tutto quanto gli viene insegnato sarà per il suo bene perché sa di essere amato. Inoltre, la buona madre sa riconoscere tutto ciò che Dio ha seminato in suo figlio, ascolta le sue preoccupazioni e apprende da lui.

L’omelia è più di una comunicazione. Essa non può ridursi solo a un insegnamento dottrinale, a indicazione morale, a spiegazione esegetica. È certamente anche questo, ma non solo questo. C’è in essa un aspetto di empatia, di gratuità, che va oltre il funzionalismo. È quasi un dialogo, che è molto di più che comunicazione di semplici verità oggettive. «Il predicatore – afferma papa Francesco – ha la bellissima e difficile missione di unire i cuori che si amano: quello del Signore e quelli del suo popolo. Il dialogo tra Dio e il suo popolo rafforza ulteriormente l’Alleanza tra di loro e rinsalda il vincolo della carità. Durante il tempo dell’omelia, i cuori dei credenti fanno silenzio e lasciano che parli Lui» EG n. 143).

  1. Un impatto ben oltre la Chiesa

Lo stile comunicativo del papa Francesco, che è diretto e che lascia spazio all’eloquenza dei gesti, punta dritto al bersaglio, anche quando si tratta di affrontare temi delicati e complessi come la guerra, la misericordia, la tratta della persona, gli immigrati, la pena di morte, il fine vita, la cura del creato, manifesta un impatto che va ben oltre l’uditorio dei credenti. Esso intercetta la coscienza di molti, siano essi credenti in un’altra fede, siano uomini di buona volontà, siano persone agnostiche e di opinioni differenti. Dà voce ai problemi della gente comune, mentre non raramente i politici appaiono distratti, con la faccia rivolta altrove.

Più di una volta, a fronte delle grandi questioni mondiali, si ha la sensazione che il pontefice rappresenti una delle poche autorità che esprimono coraggio nel prendere posizione, nello schierarsi dalla parte dei più poveri, nello stigmatizzare il male, nell’offrire una prospettiva di soluzione ed una visione delle cose. Questo modo di fare ha fatto guadagnare molte simpatie al di fuori dello stesso mondo cattolico, tra i leaders religiosi, presso le istituzioni internazionali e non pochi mussulmani. Anche in casa nostra, personaggi come Eugenio Scalfari hanno espresso stima nei suoi confronti. In un periodo post-ideologico lo stesso giornale comunista Il Manifesto non ha esitato a pubblicare un volume inedito con tre discorsi di papa Francesco, pronunciati nel corso di altrettanti incontri mondiali di movimenti popolari. E la ragione della pubblicazione è stata così espressa dalla direttrice Norma Rangeri: i tre discorsi di papa Bergoglio sono parsi quasi un’enciclica, quasi una nuova Rerum novarum riguardo al rapporto fra etica e politica. Nelle parole del papa c’è un’idea nuova di politica, una critica serrata degli attuali processi economici e degli eufemismi che si usano oggi per capire i problemi.

  1. Semplicità di linguaggio ma non povertà di messaggio

La semplicità di linguaggio di papa Francesco è reale, ma non va scambiata per una modalità espressiva banale o innocua. Dietro un linguaggio apparentemente dimesso, diremmo domestico, sta una grande preparazione teologica, una notevole esperienza pastorale, come anche una capacità comunicativa smaliziata. È chiaro che il pontefice ama esprimere il suo magistero in maniera prioritaria secondo la dimensione pastorale. Questa non è separata dalla riflessione teologica dogmatica. Tutt’altro. Ma con essa, fermando l’attenzione all’ambito della vita morale, egli privilegia la considerazione del soggetto morale rispetto all’oggetto morale. Ponendosi in un’ottica pastorale sollecita ad un cambio prospettico notevole: desidera porre in primo piano la persona concreta più che il bene o il male considerati in se stessi, quali dati oggettivi, senza peraltro perderli di vista. Il pastore non ha come compito primario quello di incasellare le persone, i penitenti, nelle casistiche descritte nei manuali di etica.

La pastoralità plasma la persona di papa Francesco, il suo modo di porsi di fronte alle persone, che vengono accompagnate nella crescita della loro fede. Esse non sono soggetti ai quali dev’essere consegnata una verità morale da applicare semplicemente alla propria vita, quasi fosse un vestito preconfezionato da indossare. Il credente vive una fede che progredisce nel tempo. Egli è un essere storico, che si costruisce moralmente giorno dopo giorno, mediante libere scelte, atteggiamenti, stili di vita, la configurazione di una condotta. Questa non è il semplice risultato di un’adeguazione meccanica alle norme morali, esteriori ed eteronome, che gli giungono dal di fuori della sua coscienza. La condotta morale di persone libere e responsabili è frutto di un lavoro interiore del soggetto, che costruisce un ordine virtuoso alla luce di una visione integrale dei fini da conseguire, non comunque presi, ma considerati secondo una scala di valori; alla luce delle stesse norme e leggi, della plasmazione della propria affettività, delle condizioni storiche in cui si vive, delle passioni e delle inclinazioni. Con la modalità pastorale del suo insegnamento papa Francesco accentua una prospettiva personalista, quella del soggetto morale, rispetto alla prospettiva della verità oggettiva, pur importante nel determinare la qualità morale della condotta umana e che non deve mai essere tralasciata.

Una summula di questa nuova attenzione al soggetto morale, in vista del discernimento della precisa responsabilità che ha circa le proprie azioni, si può trovare nell’esortazione apostolica Amoris Laetitia (=AL). In questa esortazione post-sinodale è anche indicata la ragione del suo privilegiare la considerazione del soggetto morale, senza ovviamente staccarlo dalla considerazione della verità oggettiva, che egli deve cercare di incarnare nella sua vita. Eccola: «È meschino fermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questa non basta a discernere una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano» (AL 304). Occorre considerare la sua coscienza, la sua libertà e responsabilità.

Infatti, un simile modo di valutare la condotta delle persone – un modo ancora piuttosto diffuso oggi nella pastorale penitenziale – dà per scontata la presenza sia della consapevolezza sia della volontarietà nell’agente dell’azione immorale compiuta. Dà per presupposta l’imputabilità, perché l’azione è meramente difforme dalla norma morale. In una tale prassi pastorale manca la giusta considerazione delle condizioni morali, sociali, personali del soggetto morale. Si dovrebbe, invece, distinguere l’azione compiuta e la sua imputabilità al soggetto che l’ha compiuta.

A partire da queste semplici considerazioni morali papa Francesco giunge ad affermare che «un pastore non può sentirsi soddisfatto solo applicando leggi morali a coloro che sbagliano lanciandole come pietre contro di essi. Per un pastore è importante poter capire se una persona è di fatto presente o meno col suo pieno comprendere e con il suo libero volere in ciò che compie e se la modalità di questa presenza è piena e forte oppure parziale e debole. Questo non è possibile saperlo a priori, ossia prima del discernimento, dell’accompagnamento. È possibile saperlo solo dopo di essi. Detto altrimenti, nell’azione pastorale bisogna evitare facili schematismi ed avere una cura personalizzata per ognuno, anche per il gay, per le persone separate. La persona è molto di più che i suoi semplici comportamenti, le sue azioni fattuali. È mondo interiore, psicologico, biologico. È insieme di pulsioni e sentimenti. È essere libero e responsabile, è trascendenza, ma anche soggetto condizionato dagli usi e costumi, dall’ambiente sociale e culturale, da un’educazione sbagliata. È una meraviglia mai conclusa, un paradosso sempre aperto, ove il non-essere si oppone all’essere, le potenzialità del male si mescolano alle potenzialità del bene, che è sempre da conquistare.[7] Occorre essere severi col peccato e misericordiosi col peccatore, proprio perché non sempre egli agisce con piena avvertenza e deliberato consenso. Il male e il peccato ci sono se non quando la persona, nella pienezza delle proprie facoltà, li decide e li opera: solo a queste condizioni la persona si sceglie come persona cattiva e quindi lo diventa, perché realmente sa quel che vuole e liberamente lo vuole. Solo a questo livello si può parlare di peccato abituale, peccato che non è mai un dato di fatto o una situazione in cui ci si trova o una condizione in cui si versa.[8]

Esemplificando: un divorziato risposato, che non è moralmente tenuto a sciogliere la nuova unione per ulteriori doveri naturali subentrati – ad esempio per la nascita di nuovi figli – non vive in stato di peccato abituale per questo semplice fatto di convivenza, che non è ipso facto peccaminosa, ma lo è solo se adulterina. Non è adulterina se detto divorziato risposato si impegna a fare ciò che di per sé può per vivere in coerenza con l’unione precedente ancora valida: non può moralmente sciogliere la nuova convivenza, può invece evitare un vissuto sessuale pienamente coniugale, come la tradizione ecclesiale richiede e il recente magistero conferma: c’è il fatto della convivenza, ma non il peccato della convivenza, tanto più abituale, perché il peccato non è un fatto ma una decisione. In questo sincero impegno possono sussistere reali e forti condizionamenti sulla pratica effettiva di questa possibilità: sono da discernere accuratamente per valutare la presenza di quella consapevolezza e di quella libertà che sole possono individuare una scelta peccaminosa. Un divorziato risposato che sinceramente si impegna a non vivere more uxorio nella nuova unione, ma non dovesse riuscirvi, non vive in uno stato di peccato abituale perché contro il peccato lotta, stato in cui invece versa chi non pensa o non vuole impegnarsi. Sarà poi l’accompagnamento del confessore o del direttore spirituale a modulare pratiche, anche sacramentali, opportune ad ogni individuo.

  1. Una preghiera inculturata

Papa Francesco è creativo anche quando prega. Modella la sua preghiera adattandola ai contenuti di nuove questioni sociali, come è quella ecologia.  Da questo punto di vista egli è maestro per la pastorale delle nostre comunità ecclesiali. Ecco come si esprime al termine dell’enciclica Laudato si’:

«Dopo questa prolungata riflessione, gioiosa e drammatica insieme, propongo due preghiere, una che possiamo condividere tutti quanti crediamo in un Dio creatore onnipotente, e un’altra affinché noi cristiani sappiamo assumere gli impegni verso il creato che il Vangelo di Gesù ci propone.

Preghiera per la nostra terra

Dio Onnipotente,
che sei presente in tutto l’universo
e nella più piccola delle tue creature,
Tu che circondi con la tua tenerezza
tutto quanto esiste,
riversa in noi la forza del tuo amore
affinché ci prendiamo cura
della vita e della bellezza.
Inondaci di pace, perché viviamo come fratelli e sorelle
senza nuocere a nessuno.
O Dio dei poveri,
aiutaci a riscattare gli abbandonati
e i dimenticati di questa terra
che tanto valgono ai tuoi occhi.
Risana la nostra vita,
affinché proteggiamo il mondo e non lo deprediamo,
affinché seminiamo bellezza
e non inquinamento e distruzione.
Tocca i cuori
di quanti cercano solo vantaggi
a spese dei poveri e della terra.
Insegnaci a scoprire il valore di ogni cosa,
a contemplare con stupore,
a riconoscere che siamo profondamente uniti
con tutte le creature
nel nostro cammino verso la tua luce infinita.
Grazie perché sei con noi tutti i giorni.
Sostienici, per favore, nella nostra lotta
per la giustizia, l’amore e la pace.

 

Preghiera cristiana con il creato

Ti lodiamo, Padre, con tutte le tue creature,
che sono uscite dalla tua mano potente.
Sono tue, e sono colme della tua presenza
e della tua tenerezza.
Laudato si’!

Figlio di Dio, Gesù,
da te sono state create tutte le cose.
Hai preso forma nel seno materno di Maria,
ti sei fatto parte di questa terra,
e hai guardato questo mondo con occhi umani.
Oggi sei vivo in ogni creatura
con la tua gloria di risorto.
Laudato si’!

Spirito Santo, che con la tua luce
orienti questo mondo verso l’amore del Padre
e accompagni il gemito della creazione,
tu pure vivi nei nostri cuori
per spingerci al bene.
Laudato si’!

Signore Dio, Uno e Trino,
comunità stupenda di amore infinito,
insegnaci a contemplarti
nella bellezza dell’universo,
dove tutto ci parla di te.
Risveglia la nostra lode e la nostra gratitudine
per ogni essere che hai creato.
Donaci la grazia di sentirci intimamente uniti
con tutto ciò che esiste.
Dio d’amore, mostraci il nostro posto in questo mondo
come strumenti del tuo affetto
per tutti gli esseri di questa terra,
perché nemmeno uno di essi è dimenticato da te.
Illumina i padroni del potere e del denaro
perché non cadano nel peccato dell’indifferenza,
amino il bene comune, promuovano i deboli,
e abbiano cura di questo mondo che abitiamo.
I poveri e la terra stanno gridando:
Signore, prendi noi col tuo potere e la tua luce,
per proteggere ogni vita,
per preparare un futuro migliore,
affinché venga il tuo Regno
di giustizia, di pace, di amore e di bellezza.
Laudato si’!
Amen».

 

[1] Su questo ci permettiamo di rinviare a MARIO TOSO, Valenza antropologico-sociale dei «media», l’educazione democratica, l’impegno dei cattolici, in GUIDO GATTI, Etica della comunicazione, LAS, Roma 2008, pp. 147-162.

[2] Cf https://www.sicilianpost.it/dario-edoardo-vigano-racconta-i-segreti-della-comunicazione…

[3] MIMMO MUOLO, L’enciclica dei gesti di papa Francesco, Paoline, Milano 2017, pp. 5-6. A questo saggio ci riferiremo più di una volta durante le nostre riflessioni.

[4] Su questo aspetto rimandiamo a MARIO TOSO, Ritornare all’unità per rifondare la democrazia. La ripartenza dei cattolici italiani, in ASSOCIAZIONE “COSTRUIRE INSIEME”, Il tempo del coraggio. L’Italia fra rassegnazione e riscatto. La ripartenza dei cristiano popolari, Rubbettino Editore, Roma 2017, pp. 29-40.

[5] Cf MIMMO MUOLO, L’enciclica dei gesti di papa Francesco, pp. 148-153.

[6] Cf  https://www.youtube.com/watch?v=95_GsupVof8

 

[7] Cf SABINO PALUMBIERI, L’uomo meraviglia e paradosso. Trattato sulla costituzione, con-centrazione e condizione antropologica, Compendio a cura di Cristiana Freni, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2006.

[8] Cf PAOLO CARLOTTI, La morale di papa Francesco, EDB, Bologna 2017, p. 76.