OMELIA per la CHIUSURA del GIUBILEO DELLA MISERICORDIA in DIOCESI

Faenza - Basilica cattedrale, 13 novembre 2016
13-11-2016

Il brano del Vangelo di Luca (21, 5-19) ridimensiona la prospettiva di quanti attendono con impazienza la fine del mondo ma anche il modo di pensare dei rassegnati e di quelli che non attendono più nulla di nuovo sulla faccia della terra. Richiama sia i catastrofisti o pessimisti, come anche coloro che hanno gettato la spugna e non lottano più, all’impegno nel presente, nel mondo ove vive e cresce la Chiesa, il popolo di Dio, una nuova umanità. Il nostro è il tempo della testimonianza in mezzo alle persecuzioni, facendo leva sulla fiducia e sulla perseveranza, in attesa della liberazione con la venuta gloriosa del Figlio dell’uomo. I discepoli di Gesù sono chiamati a seguire le orme del Maestro, a seminare con Lui, nei solchi della storia, una nuova umanità senza perdere speranza, facendo leva sulla potenza rinnovatrice dello Spirito del Risorto. Essi sono chiamati a decifrare i segni delle guerre, delle violenze e delle ingiustizie come luogo ove, grazie a Gesù Cristo vincitore del male e del peccato, si delinea, nonostante tutto, una nuova stagione che segue il tempo cattivo.

Il Vangelo odierno di san Luca è quanto mai intonato con la celebrazione della chiusura dell’anno santo. Questa è momento di ringraziamento per i benefici ricevuti e motivo di ripartenza. È momento di alzare il capo e di risollevarsi. La chiusura della Porta Santa non significa concludere il percorso della conversione, semmai continuarlo per far sorgere una nuova primavera nella Chiesa e nel mondo. Il nostro dev’essere, allora, un grande Grazie a Dio in Gesù, principio e fine della storia, ricapitolatore di tutte le cose. Viene spontaneo pensare che dobbiamo riconoscenza a Dio per i traguardi raggiunti entro l’esperienza della Misericordia ricevuta, celebrata e confessata. Ne elenco solo alcuni: l’inaugurazione della sede del nuovo Centro d’ascolto, la Casa di accoglienza e il Centro Caritas a Fognano, l’inaugurazione della nuova Casa del Clero, il rilancio dell’iniziativa «Solidarietà di vicinato» a favore specialmente delle famiglie bisognose con più figli, l’impegno di ricezione comunitaria dell’Evangelii gaudium, l’inaugurazione di un corso di approfondimento sull’Amoris laetitia, i giubilei celebrati dalle diverse categorie, associazioni, organizzazioni e movimenti, senza dimenticare le parrocchie, le comunità religiose. Ma possiamo considerare segni di una Misericordia accolta e sperimentata anche la GMG a Cracovia, con la partecipazione di più di duecento giovani, l’incontro a Gamogna di molti di loro, il pellegrinaggio dei cresimati a Roma che ha registrato circa settecento presenze, la celebrazione della Giornata missionaria con le annesse esperienze di una «Chiesa in uscita». Tutta la Chiesa di Faenza-Modigliana si è mobilitata per passare attraverso la Porta Santa, che è Cristo. Sono convinto che, senza frastuono e senza eccessiva presenza in quei mass media che fanno fatica a leggere la realtà, è cresciuto un popolo nuovo, più cosciente della sua vocazione missionaria e di comunione, a partire da una rinnovata intimità con il Missionario per eccellenza, Gesù, l’inviato dal Padre. Abbiamo imparato che la misericordia di Dio, sperimentata come vita nuova, ossia trasfigurata dall’amore di Dio, va vissuta e testimoniata non solo come intensificazione della carità assistenziale, ma soprattutto e simultaneamente come annuncio rinnovato di Gesù Cristo, che offre a tutti la sua vita. Il confronto con la Misericordia di Dio, donata a tutti, ci ha resi più sensibili rispetto al nostro essere missionari, in un territorio che mostra forti segni di secolarismo e di rarefazione delle vocazioni sacerdotali e religiose. Detto altrimenti, l’anno giubilare ci ha colmati di passione missionaria in un contesto pluralistico e multireligioso. Ci ha aiutati a capire che siamo una missione, perché siamo strutturati come missionari e, pertanto, non possiamo non evangelizzare, ovunque viviamo. Ha contribuito, peraltro, a mettere a nudo le nostre paure di essere e di dirci cristiani, come anche una nostra certa incapacità a comunicare l’esperienza della fede alle nuove generazioni, ma anche ai non credenti. Riusciremo a vincere le nostre timidezze e inadeguatezze? Ciò potrà avvenire accrescendo non solo l’acquisizione di nuove metodologie o strategie pastorali e pedagogiche, ma soprattutto lo spirito contemplativo, la preghiera, il dialogo e lo stare con Lui. Il nostro destino non è quello di essere nella storia un popolo timido o rassegnato, in fuga di fronte alle sfide più impegnative, ritirato nelle catacombe o nel sottobosco della storia, oppure semplicemente rintanato in famiglie spirituali lontane dall’ispirazione cristiana, senza neppure esercitare il diritto di una sana critica, uniformandosi passivamente agli ordini di scuderia. Ciò che caratterizza il popolo cristiano è di essere sempre in cammino, verso l’oltre che è il compimento umano in Cristo, per proporre ed incarnare nella storia una nuova libertà, una giustizia più grande di quella semplicemente umana. Il credente non opera stancamente, con poca convinzione, bensì con passione e slancio, divenendo sale della terra, luce del mondo. Non è un profeta di sventura, ma portatore di un ottimismo contagioso, seppur tragico ed eroico, come soleva sottolineare un grande pensatore del secolo scorso, Jacques Maritain. Non bisogna mai dimenticare che essere cristiani implica un’esistenza per Cristo, che è Amore nella verità; comporta una vita per la giustizia. Per chi è persona di fede, la croce rappresenta una via obbligata per giungere alla risurrezione. Non c’è vittoria sul male, su ogni forma di peccato senza croce, senza cioè un amore totale e fedele. Chi non osa proporre Cristo, figura di uomo completo, sottrae ai propri fratelli la speranza dell’emancipazione e del riscatto, la pienezza umana. Chi non propone e difende i valori della vita dal grembo materno alla morte, della famiglia cristiana, della libertà religiosa, compresa quella della scuola cattolica (affermando così il pluralismo del sistema scolastico, non negandolo, come pensano erroneamente alcuni); chi non professa la risurrezione dei corpi e la trascendenza, e non sostiene la prospettiva del lavoro per tutti come antidoto alla povertà e titolo di partecipazione; chi non è determinato a vivere Cristo nell’economia, nella finanza, nei mass media, nella scuola, finisce per tradire la propria identità più profonda e per non essere più sale che dà sapore. Non dobbiamo aver paura. Neppure un capello del nostro capo andrà perduto. Con la perseveranza salveremo la nostra vita, afferma il già citato Vangelo di Luca.

L’esperienza della nostra Chiesa nella celebrazione del Giubileo ha visto riconfermato l’urgenza di un duplice impegno: la formazione di un laicato sia ad intra che ad extra della vita ecclesiale – per quest’ultimo aspetto restano sempre attuali le linee offerte dalla Lettera pastorale del vescovo Misericordiosi come il Padre – sia l’impegno vocazionale e l’educazione alla fede delle nuove generazioni. Anche nella nostra comunità è maturato il desiderio che sta al centro del prossimo Sinodo ecclesiale del 2018, indetto da papa Francesco, e cioè la riflessione sui giovani, la fede e il discernimento vocazionale. Già come comunità e Centri pastorali diocesani interessati ci si sta muovendo verso un Sinodo diocesano coi giovani, dei giovani, per i giovani. La Chiesa non può intraprendere una nuova tappa nell’evangelizzazione senza l’apporto e il coinvolgimento delle nuove generazioni.

In questa celebrazione eucaristica preghiamo anche per l’impegno di rinnovamento delle strutture diocesane, come le unità pastorali, la Caritas e il settore amministrativo. La Madonna, beata Vergine delle Grazie, ci accompagni nella riformulazione degli itinerari catechetici, fulcro di una fede radicata nella vita. E così sia.