Verona, 1° febbraio 2025.
Premessa
Le presenti riflessioni vengono proposte rispetto alle tre sfide che il pensiero sociale della Chiesa, secondo il professor Stefano Zamagni, deve saper accogliere nella stagione di una cultura post-moderna.[1] Nella conclusione del suo breve ma denso e profondo testo, che ci è giunto in anticipo, in preparazione di questo incontro sulla Dottrina sociale della Chiesa, il già Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze sociali, si augura che la Dottrina sociale della Chiesa, possa contribuire alla elaborazione di un pensiero pensante, ossia un pensiero che miri a suggerire una via pervia per giungere alla comunanza etica – la Koinotes dei greci – nella società attuale del pluralismo culturale e religioso, di scristianizzazione. La condizione da soddisfare a tale scopo è che quel pensiero venga proposto non come una teoria morale ulteriore rispetto alle tante teorie già disponibili, teorie di prevalente stampo secolare, ma come «grammatica comune» a tutte queste, perché fondato su uno specifico principio, quello del prendersi cura del bene umano.
Sarà mai possibile trovare una comunanza etica tra i molti ethos esistenti, in un contesto in cui se la Chiesa vuole rimanere ancorata alla verità profonda del cristianesimo deve affermare che esso non è un’etica, ma che per convincere il mondo della sua rilevanza pratica deve portare il suo messaggio, in qualche modo, come pure afferma lo stesso prof. Stefano Zamagni, sul piano dell’etica? Sciogliere un dilemma del genere è davvero una grande sfida. Il cristiano, a differenza del “cristianista”, non ama perché aiuta l’altro e si pone al servizio del povero, ma aiuta e serve perché ama – mi permetto di aggiungere, svolgendo il pensiero – «in Dio». Occorre porre attenzione all’aggiunta che ho fatto, esplicitando quanto affermato dal professore Zamagni. Una grammatica comune a tutte le teorie morali esistenti potrà, dunque, essere trovata più facilmente su un principio specifico, quello del prendersi cura del bene umano, correttamente inteso, conseguibile a condizione che sia un bene visto ed amato precisamente in Dio. Il cristianesimo che, si fonda sul permanente incontro con la persona di Cristo, con l’Evento della sua incarnazione, morte e risurrezione, – più che con gli involucri storici delle cristianità, con i sistemi dottrinali ed etici – sviluppa dentro le culture che lo recepiscono diversi umanesimi trascendenti e comunitari, un pensiero pensante, sempre attivo e fecondo a partire dal suo cuore originante, l’Amore infinito di Dio, Amore pieno di Verità, Amore trinitario, partecipato a noi mediante il Verbo che si fa carne. Gli umanesimi trascendenti e comunitari sono capaci di superare l’indifferenza radicale nei confronti di Dio e dell’individualismo libertario, il “singolarismo”. Sviluppano i germi di una grammatica comune, seminata in tutti i popoli da Dio creatore, purificata, guarita, lievitata da Gesù Cristo. Incarnandosi, Gesù Cristo innesta e stabilizza nella nostra umanità il principio divino dell’amore trinitario, un amore trascendente, che accresce la consapevolezza della paternità di Dio e la responsabilità fraterna di ogni uomo e di ogni donna nei confronti di tutti gli altri.
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- In vista della individuazione di una grammatica comune che si fonda, come sostiene il professore Zamagni, sul principio del prendersi cura del bene umano (in Dio), vorrei richiamare l’attenzione su due aspetti che, dal mio punto di vista, rischiano di restare oggigiorno impliciti e sullo sfondo quando si parla di dottrina sociale della Chiesa (=DSC) e, forse ancor più, quando si tenta pazientemente di operare secondo gli insegnamenti della DSC.
Mi riferisco alla 1) insostituibilità degli habitus virtuosi da cui procedono le scelte e 2) all’ordinamento alla virtù teologale di carità, condizione per realizzare il bene umano, il vero bene comune. Una “novità antica”, si potrebbe obiettare, ma proprio per questo perennemente attuale, bussola preziosa per orientare la riflessione e l’azione in modo non effimero. Mi si consenta di spendere qualche parola intorno a questi due aspetti, che reputo decisivi.
- Anzitutto, la necessità di habitus virtuosi per assicurare l’agire buono, come singoli e come membri di aggregazioni civili e politiche. Il tema delle virtù – fino a qualche decennio fa nerbo indiscusso della formazione cattolica ad ogni livello – è pressoché scomparso dal raggio d’interesse dell’educazione, rendendo quasi impraticabile anche lo stesso termine, con quella patina di arcaismo che lo fa sembrare retaggio d’un mondo ormai tramontato.
Curiosamente, però, nell’ambito accademico “laico”, specie anglofono, sta guadagnando sempre maggior interesse una comprensione dell’agire etico improntata proprio sugli habitus virtuosi; tra questi, la virtù di prudenza, di aristotelica memoria, gioca la parte principale, con fior di pubblicazioni in materia. Curioso, dico, perché questo patrimonio sapienziale sull’agire buono, sulle virtù, viene oggigiorno riproposto proprio laddove non ce lo aspetteremmo: dall’accademia; segno, probabilmente, che l’acquisizione di disposizioni interiori stabili, che preparano e rendono possibile l’agire buono – questo intendo per virtù – è il punto capitale che sempre emerge quando ci interroghiamo su ciò che è buono e deve essere fatto. La vita sociale e la politica per raggiungere le loro finalità più proprie hanno bisogno di persone e di cittadini virtuosi. Parimenti, la democrazia non può presupporre il rifiuto della politica delle virtù. Sarebbe la sua fine. Le istituzioni della democrazia non possono fare a meno della vita retta della moltitudine. Le regole procedurali della democrazia, senza un’anima etica che le sostanzi, non produrrebbero il bene comune, il bene di tutti.[2]
- Le ricadute di questo discorso interessano anche il modo di intendere la DSC e di praticare i suoi insegnamenti nel contesto attuale. È innegabile, infatti, il rischio di concentrarsi in modo pragmatico sulla soluzione di problemi (o sfide, come si usa dire), dimenticando che la costruzione del bene comune non può mai prescindere dal retto ordine interiore dei singoli, attinto incessantemente dall’amore umano e divino di Cristo[3] e tradotto in una spiritualità che si incarna e si traduce nell’impegno di prolungarlo nei fratelli, guarendo i cuori feriti, facendone innamorare il mondo, con una comunione missionaria di servizio.[4]
Ed esattamente questo si propongono le virtù: filtrare la comprensione della realtà alla luce dei fini supremi dell’uomo, preparando così la deliberazione e il giudizio di scelta. Sono le virtù che tengono aperta la condotta umana a Dio. Sono le virtù che aiutano a ricomporre l’unità interiore tra credenza religiosa e azione temporale. Sono esse che consentono la presenza nelle attività umane sia della fede come faro che illumina sia della Carità come forza che vivifica e orienta al compimento umano in Dio.[5] La pratica delle virtù e la vita buona non sono un’impresa autarchica totalmente autonoma rispetto a Dio e alla sua salvezza. La persona virtuosa non punta a realizzare uno stato di cose e di relazioni meramente efficientiste, semplicemente come benessere della vita terrena, indipendentemente dall’amore umano al bene, nutrito dall’amore a Dio bene Sommo. La persona virtuosa, come peraltro ci hanno mostrato ed insegnato i martiri e i santi, può perdere alcuni beni terreni, compresa la vita, ma non il Bene che è Dio, il Bene più grande.[6]
Le virtù, insomma, stanno lì a ricordarci che l’agire umano non è soltanto questione di opzioni giuste da azzeccare o di procedure da rispettare. L’agire esteriore dell’uomo, che impatta positivamente sulla società e sul cosmo, procede sempre da un assetto interiore fatto di vita sacramentale, di spiritualità, di convinzioni, quadri valoriali, fini e concezioni del mondo. È a questo livello che si collocano le virtù, a monte dell’agire. Sarebbe illusorio auspicare di rettificare le scelte esteriori che realizzano il bene comune politico, disinteressandosi dell’ordine interiore da cui procedono. Si otterrebbe forse qualche convergenza temporanea su singole questioni, ma non certo la costruzione del vero bene comune e di una società davvero a misura d’uomo (come Dio auspica per l’uomo!).
Un tentativo in questa direzione, l’ho riscontrato in un breve volume del prof. Zamagni dedicato alla Prudenza (Il Mulino, 2015), dove si offre una riabilitazione di questa virtù quale elemento decisivo per la costruzione di un’economia alternativa tanto alla sola ricerca del profitto individuale, quanto al dirigismo collettivista.
L’appello alle virtù come indispensabile correttivo dell’attività economica e della sua fioritura era già, tra l’altro, uno degli insegnamenti portanti di Caritas in veritate (cf. soprattutto nn. 34 e 36).[7] Lo stesso ragionamento è stato esteso anche al di fuori dell’ambito economico, per investire le questioni sociali, politiche e ambientali, che sono al centro dell’interesse della DSC sia nell’enciclica Laudato sì[8] sia nella Fratelli tutti.[9] Sarebbe riduttivo – e ultimamente incoerente con la natura della DSC – auspicare soluzioni o linee programmatiche che non si propongano anzitutto una vera ecologia del cuore umano, resa possibile dalla paziente coltivazione di tratti virtuosi.
- E con ciò vengo al secondo aspetto che ritengo decisivo per l’azione sociale e politica dei cattolici oggi, quell’azione di cui parla anche l’enciclica Fratelli tutti: il vero bene comune si realizza se le realtà umane, le varie condizioni sociali, vengono ordinate a Dio secondo la virtù di carità. La carità politica ci fa amare il bene comune e fa cercare effettivamente il bene di tutte le persone, considerate non solo individualmente, ma anche nella dimensione sociale che le unisce, con riferimento a Dio,[10] alla sua opera di salvezza. Anche queste affermazioni esigono qualche chiarimento in più.
Le virtù di cui ho parlato non sono un’accozzaglia indistinta: le virtù sono connesse e armonizzate in vista del bene umano che si propongono, cosicché una virtù sarà tanto più strategica, architettonica, quanto più è decisivo il bene che tale virtù va a tutelare. Pertanto, la virtù che ha Dio come oggetto (obiectum), ossia la carità, sarà giocoforza la virtù suprema: non nel senso che “tiranneggi” le altre virtù o imponga un vincolo esplicito a Dio, misconoscendo la legittima autonomia delle realtà terrene (cf. Gaudium et spes, n. 36). È virtù rispettosa, la carità: essa assicura che quelle realtà umane – di cui si occupa anche la prassi sociale – vengano configurate in modo da essere ordinate/ordinabili a Dio, non prescindano, cioè, dal riferimento a Lui: «La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce», commenta efficacemente la Gaudium et spes.[11] 36.
Il riferimento a Dio, lungi dal costituire un ingombro ostacolante, immette nelle realtà terrene la potenza delle grandi verità della Rivelazione: la dimensione trinitaria della creazione, la redenzione operata da Cristo, la destinazione alla comunione con Dio. Anche la comprensione del servizio alle realtà terrene ne esce rafforzata e, per così dire, dilatata nel suo serissimo compito: «preparare quasi la materia per il regno dei cieli».[12]
La fede che dischiude l’accesso alla Rivelazione, e la carità che si sforza di ordinare le realtà umane secondo Dio, tracciano il perimetro dell’agire cristiano, dunque anche dell’azione sociale, che non potrà prescindere da esse. Trovo piena sintonia con quanto scriveva sant’Ignazio di Antiochia, con la sua disarmante franchezza: «Queste due virtù sono il principio e il fine della vita: la fede è il principio, la carità il fine. L’unione di tutte e due è Dio stesso, e le altre virtù che conducono l’uomo alla perfezione ne sono una conseguenza» (Ignazio di Antiochia, Lettera agli Efesini, 14).
- Mi preme precisare che questi presupposti teologici innervano e sostengono l’intera elaborazione della DSC, le conferiscono la sua caratteristica specificità e ne giustificano l’elevazione a strumento di evangelizzazione (cf. Centesimus annus, n. 54).[13] Sarebbe fuorviante concepirli soltanto come premesse o convinzioni personali, da cui però prescindere metodicamente per entrare “alla pari” nell’agone politico e operativo. Un approccio del genere, se pur potrebbe occasionalmente favorire alleanze tattiche su singoli temi, alla lunga si rivelerebbe controproducente, relegando l’impegno sociale dei cattolici al ruolo di (utili) azionisti di minoranza di una compagine politica che persegue ben altri disegni sull’uomo e sulla società.[14]
La DSC ne uscirebbe monca, depotenziata di quei principi sorgivi e fondativi che, orientando chiaramente a Dio e respingendo fermamente ciò che vi si oppone, assicurano i presupposti per realizzare il bene umano, il vero bene comune. Al contempo, i principi teologali che reggono la DSC servono anche da criterio stabile per verificare – e, all’occorrenza, correggere – i modelli antropologici, politici e giuridici che vengono assunti dall’agire sociale, sovente in modo quasi implicito. L’appello al paradigma relazionale, ad esempio, o l’invito alla partecipazione democratica, sono categoriali promettenti, che abbisognano però di un supporto teologico che essi, da soli, non possono darsi, ma che pur necessitano se davvero intendono ispirare un agire sociale coerente con il ricchissimo magistero sociale della Chiesa, che da Giovanni Paolo II è stata detto appartenere all’ambito della teologia, specialmente della teologia morale.[15]
- Comprendiamo allora come i due aspetti che ho voluto segnalare alla vostra attenzione siano strettamente implicati. La retta prassi sociale, in grado di rispondere cristianamente alle sfide sociali del momento, esige a monte una chiara opzione di fede e la maturazione della carità, intesa come ordinamento a Dio delle realtà terrene (ordo ad Deum). Due virtù appunto, assunte personalmente dal soggetto, che plasmano il suo essere abituale (habitus) e informano l’agire.
Disattendere tutto ciò come “scorciatoia” per una maggiore efficacia operativa – o come ineluttabile necessità in un contesto sociale fortemente secolarizzato – suggerisce l’immagine di un fiume che, per procedere più spedito, si distacchi dalla sorgente. Chi porterà ancora acqua buona a coloro che verranno domani?
Una tale opzione farebbe rivivere la dannosa separazione tra fede e vita, che già san Giovanni XXIII definì uno dei mali più grandi della cultura cattolica, dovuto al difetto di una solida ed integrale formazione cristiana.[16] La frattura tra fede e cultura è stata parimenti indicata da san Paolo VI come «il dramma della nostra epoca».[17]
La separazione fra fede e vita induce di fatto la frammentazione identitaria dei credenti viventi in Cristo, che ricapitola in sé tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra. Si tratta non tanto di una frammentazione propriamente politica, bensì del fatto che con essa si ritiene che la propria fede non sia in grado di conformare la propria vita, i vari comportamenti dei credenti. Questi in politica hanno come riferimento prioritario ed esclusivo i partiti e non certo la comunione con Cristo e il suo Vangelo, con Dio.[18] Quello che conta sono gli ordini di scuderia delle organizzazioni partitiche. Poco importa se le leggi da votare sono ad impronta laicista, imperniate attorno a visioni antropologiche fortemente riduttive o addirittura irrazionali. Basta che siano state messe all’ordine del giorno dal proprio partito. Il suddetto modo di pensare si nutre di un presupposto errato, secondo cui l’essere specifico del cristiano non giustificherebbe un impegno peculiare dei credenti nella politica, un impegno secondo l’ispirazione cristiana. In politica si dovrebbe essere presenti senza ragioni religiose, in definitiva senza il riferimento al Vangelo, alla Dottrina sociale della Chiesa. Ma non è tutto. A ben riflettere, l’opzione di un’esistenza incentrata sulla frattura profonda tra fede e vita, tra fede e politica, tra ispirazione cristiana e impegno sociale, implicherebbe altri presupposti, davvero gravi per quei cattolici che l’avallano: all’atto pratico, non varrebbe l’incarnazione di Cristo che assume e redime l’umanità, ponendo le premesse di una nuova cultura politica. Il credente che si impegna in politica non avrebbe, per conseguenza, il compito di vivere la politica secondo carità,[19] ossia secondo l’amore trasfigurante e redentivo di Cristo. Analogamente, il credente non avrebbe il compito di vivere la politica scegliendo la fraternità come principio architettonico della democrazia e sarebbe chiamato a servire il bene comune senza l’apporto della fede, della speranza e della carità, solo come semplice cittadino.[20]
Giovanni XXIII nella sua enciclica Mater et Magistra non ha esitato a ricordare che non è possibile un autentico progresso se ci si separa da Dio: «L’uomo staccato da Dio diventa disumano con sé stesso e con i suoi simili, perché l’ordinato rapporto di convivenza presuppone l’ordinato rapporto della coscienza personale con Dio, fonte di verità, di giustizia e di amore».[21]
La missione della Chiesa ha, invece, una dimensione sociale, come anche l’evangelizzazione. [22] Se la dimensione sociale dell’evangelizzazione, come anche della fede, non fossero debitamente esplicitate e vissute si correrebbe il rischio di sfigurare il significato autentico e integrale della redenzione di Cristo, nonché della missione evangelizzatrice della Chiesa. [23]
La fede ha una intrinseca dimensione sociale.[24] Non ci si può accontentare di una fede marginale o privata. Essa ha anche una dimensione pubblica, da cui sarebbe deleterio prescindere.
Per una conclusione: la virtù della speranza
Quanto è stato sostenuto con riferimento alla virtù della carità, quale principio generatore di un pensiero pensante, veramente rivoluzionario rispetto alle etiche secolarizzate, va anche affermato con riferimento alla virtù della speranza, alla quale papa Francesco ha assegnato un compito importante nell’Anno Santo.[25] La virtù della speranza non è rivolta a qualcosa di vago o astratto. Non nasce dal nulla. E questo perché l’incarnazione del Figlio di Dio ci pone in una comunione mirabile con Lui morto e risorto. Ne condividiamo l’amore e la vita immortale. Se noi viviamo associati alla vita del Figlio incarnato e risorto, e camminiamo con Lui, il percorso della nostra vita si configura come un pellegrinaggio di speranza per il quale, in certo modo, è indicata la strada. Noi cresciamo in pienezza nella nostra singola umanità, ma anche come famiglia umana, se viviamo in comunione con il Signore Gesù che ci divinizza, ci rende capaci di amare come Dio, siede con la sua umanità gloriosa accanto al Padre e ci attende lassù per condividerla.
È così che noi diveniamo pellegrini di speranza! Aneliamo a partecipare e a progredire sul cammino del compimento umano che Cristo ha già realizzato. L’amore di Cristo, a noi partecipato con l’incarnazione del Figlio di Dio e il dono del suo Spirito, ci mette in marcia verso un’umanità in pienezza. Siamo chiamati non a qualcosa di etereo, bensì verso Gesù Cristo, che è l’insuperabile assoluto umano di Dio! Con noi e attraverso di noi avanzano, verso il Cristo glorioso, tutte le creature.[26] Tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, vengono ricondotte a Cristo, ricapitolate in Lui, unico capo, mediante la ricchezza della sua grazia-amore che è stata riversata in noi dal suo Spirito di amore (cf Ef 1,10).
Nella nostra esistenza terrena, contrassegnata da ingiustizie, conflitti, diseguaglianze, prevaricazioni sui più deboli, sfruttamenti delle risorse umane e naturali dei Paesi più poveri, trattamenti disumani delle persone migranti, non possiamo limitarci, per conseguenza, ad aspettare. Dobbiamo annunciare, organizzare, costruire la speranza! Come pellegrini della speranza, che è Cristo Gesù, proprio per essere segni efficaci e luminosi di speranza, dobbiamo tracciare e concretizzare cammini di speranza per tutti. Tocca a tutti organizzare la speranza e tradurla nella quotidianità, nei rapporti umani, nei legami con il pianeta, nell’impegno sociale e politico. Tocca, ovviamente, anche alla Chiesa e ai credenti, pena la contro testimonianza, la rinuncia a vivere il sacerdozio, la profezia, la regalità di Cristo, che si è incarnato, è morto e risorto per noi, per l’umanità. Nella sua pienezza trascendente abbraccia e illumina tutto. È così che Egli porta a compimento la nuova creazione iniziata con l’Incarnazione. È nel mistero a/da noi partecipato della ricapitolazione di tutte le cose in Cristo risorto che trova le sue radici il mostro impegno pastorale di far comprendere ai credenti la dimensione sociale della loro fede, della loro vocazione al sociale, della loro partecipazione all’evangelizzazione del sociale.
È nel prendere coscienza della dimensione sociale della nostra fede, della nostra partecipazione all’opera della salvezza integrale, iniziata da Cristo e portata da lui a compimento con la sua risurrezione, che vigoreggia la nostra speranza e il nostro cammino si fa più deciso e ritmato in senso comunitario e missionario, sinodale. La speranza cristiana non delude (cf Rm 5,5). Il motivo è che essa è fondata sulla salvezza realizzata da Cristo. La viviamo già nel pellegrinaggio della nostra vita e alla fine avremo l’incontro con il Risorto, vita in pienezza.
La speranza è certezza che non camminiamo verso l’indefinito, l’inconsistente, l’insignificanza. Infatti, speriamo in qualcosa che ci è già stato dato, non in qualcosa che vorremmo accadesse. È un dono di Dio. È quella virtù, dunque, che portiamo nel cuore e che, radicata nella salvezza integrale realizzata da Cristo, ci proietta verso la sponda dell’immortalità, ove ci attende Lui, il Signore della Vita.[27]
Proprio così la speranza cristiana diviene fonte incessante, di generazione in generazione, di un pensiero pensante, di un camminando con passo più solerte verso l’Omega della storia.
+ Mario Toso
[1] Cf S. Zamagni, Tre sfide per il pensiero sociale della Chiesa nella stagione post-moderna (dattiloscritto).
[2] Su questo si vedano: B. Bignami, Dare un’anima alla politica, Edizioni San Paolo, Milano 2024; M. Toso, Chiesa e democrazia, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa, Roma 20252.
[3] Cf Francesco, Dilexit nos, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2024, nn. 64-66.
[4] Cf ib., nn. 164-216.
[5] Cf Giovanni xxiii, Pacem in terris, n. 79.
[6] Come ha sottolineato un valido teologo e filosofo tomista, scomparso recentemente, il mantenere l’anima virtuosa può richiedere la perdita di beni reali e dell’efficienza stessa delle virtù verso i beni reali (cf G. ABBÀ, Le virtù per la felicità, Ricerche per la filosofia morale- 3, LAS, Roma 2018, p. 611).
[7] Cf Benedetto xvi, Caritas in veritate, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009.
[8] Cf Francesco, Laudato sì, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2015, n. 211.
[9]Cf Francesco, Fratelli tutti, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2020. Le encicliche sociali degli ultimi tempi hanno sollecitato l’impegno missionario, vissuto nella comunione con Cristo e con la sua Chiesa, camminando sinodalmente, di una nuova evangelizzazione del sociale. A questo proposito si può leggere M. Toso, Nuova evangelizzazione del sociale. Per una nuova cultura politica e di democrazia, Edizioni Chiesa di Faenza-Modigliana (www.diocesifaenza.it), Universal Book di Rende – CS 2024.
[10] Cf Fratelli tutti, n. 182.
[11] Cf Gaudium et spes (=GS), n. 36.
[12] Cf GS, n. 38.
[13] Cf GIOVANNI PAOLO II, Centesimus annus, n. 54. All’inizio della stessa enciclica, al n. 5, si legge: «La «nuova evangelizzazione», di cui il mondo moderno ha urgente necessità e su cui ho più volte insistito, deve annoverare tra le sue componenti essenziali l’annuncio della dottrina sociale della Chiesa, idonea tuttora, come ai tempi di Leone XIII, ad indicare la retta via per rispondere alle grandi sfide dell’età contemporanea, mentre cresce il discredito delle ideologie. Come allora, bisogna ripetere che non c’è vera soluzione della «questione sociale» fuori del Vangelo e che, d’altra parte, le “cose nuove” possono trovare in esso il loro spazio di verità e la dovuta impostazione morale».
[14] Cf G. Galeazzi – M. Toso, Fede e ragione nel terzo millennio, Diocesi di Faenza-Modigliana -Tipografia Faentina Editrice, Faenza 2022, p. 28; M. Toso, I cattolici e la politica in un tempo di cambiamento epocale, Prefazione di Stefano Zamagni, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa, Roma 2019.
[15] Cf Giovanni paolo ii, Sollicitudo rei socialis, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1987, n. 41.
[16] Cf Giovanni xxiii, Pacem in terris, n. 80.
[17] PAOLO VI, Evangelii nuntiandi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1975, n. 20: «La rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre. Occorre quindi fare tutti gli sforzi in vista di una generosa evangelizzazione della cultura, più esattamente delle culture. Esse devono essere rigenerate mediante l’incontro con la Buona Novella. Ma questo incontro non si produrrà, se la Buona Novella non è proclamata».
[18] É. Gilson, noto filosofo francese del secolo scorso, ha rilevato che i cattolici che facessero della propria patria, del proprio partito, della destra o della sinistra, del lavoro, della giustizia o di altro – oggi potremmo aggiungere, dell’intelligenza artificiale – un dio, commetterebbero un errore doppiamente funesto: non perderebbero solamente Dio, perderebbero la famiglia, la patria, il lavoro, il partito, la giustizia, l’intelligenza artificiale, tutto. In particolare, si ritroverebbero a non sapere più quello che essi avrebbero da fare, a non sapere di avere qualcosa da fare; cosicché finirebbero semplicemente a rimorchio di tutti i movimenti che nascono, crescono e spariscono attorno a loro, sarebbero servi e schiavi di fini che hanno per essenza l’abitudine di dominare egemonicamente i loro adoratori (cf Pour un ordre catholique, Desclée de Brouwer, Paris 1934, pp. 108-109). Il cattolico che si impegna nel sociale e in politica deve – suggeriva Gilson – imitare san Francesco d’Assisi. San Francesco ha impartito ad ogni cattolico di ogni epoca la lezione di aver fattivamente assegnato il primato alla fede e allo spirituale. Egli cominciò la sua opera di rinnovamento della Chiesa e, di riflesso, della società, ricostruendo, pietra su pietra, la chiesetta di san Pier Damiano e restituendola rifatta, al prete del luogo. La vita di san Francesco insegna in sostanza ai cattolici desiderosi di impegnarsi nel rinnovamento del temporale e nella diffusione della loro fede che l’abbattimento dei falsi idoli e l’instaurazione del culto del vero Dio sono premesse imprescindibili al ritrovamento e alla giusta valorizzazione delle grandi realtà, quali la persona, la famiglia, la patria, la giustizia, la verità, la ragione, il lavoro, lo stesso partito. Il fine primario del cristianesimo, essenzialmente spirituale e sovrannaturale, trascende il fine della vita terrena. Il cristianesimo è perpetuamente ed incessantemente impegnato a penetrare e a impiantarsi nel mondo temporale delle varie epoche storiche, senza tuttavia mai legarsi ed incrostarsi definitivamente ad esso, per evangelizzarlo, umanizzarlo, civilizzarlo. Il compito del cristianesimo non è quello di conservare il mondo tal qual è, anche se fosse divenuto cristiano. L’opera perpetua della «cristianizzazione» del mondo impone al cristianesimo stesso di deporre continuamente, senza indugi, gli involucri delle varie cristianità, i vestiti vecchi del passato, perché attendono nuovi scenari da conformare secondo l’essenza del Regno di Dio sempre in fieri, sino alla fine dei tempi (cf M. Toso, Fede, ragione e civiltà. Saggio sul pensiero di Ètienne Gilson, Las, Roma 1986, pp. 181-187).
[19] Cf Francesco, Fratelli tutti, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2020, capitolo quinto.
[20] Si legga in proposito M. Toso, Fraternità o fratellanza? Introduzione alla lettura dell’Enciclica «Fratelli tutti», Tipografia Editrice Faentina, Faenza 2021.
[21] Giovanni xxiii, Mater et Magistra, n. 200.
[22] Cf Francesco, Evangelii gaudium, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2013, capitolo quarto.
[23] Cf Evangelii gaudium, n. 176.
[24] Cf M. Toso, Dimensione sociale della fede. Sintesi aggiornata di Dottrina sociale della Chiesa, LAS, Roma 20233.
[25] Cf Francesco, Spes non confundit. Bolla di indizione del Giubileo ordinario dell’anno 2025, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2024. Sul Giubileo e sull’anno giubilare si legga: R. Fisichella, Il Giubileo della speranza, San Paolo Edizioni, Milano 2024.
[26] Cf DN, n. 31.
[27] Cf Francesco, La speranza non delude mai. Pellegrini verso un mondo migliore, Piemme, Milano 2024, pp. 7-9.