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56a GIORNATA MONDIALE PER LE VOCAZIONI E AFFIDAMENTO ALLA BEATA VERGINE DELLE GRAZIE

Faenza, cattedrale 10 maggio 2019.

Beata Vergine delle Grazie,

le nostre parrocchie cittadine, con rinnovata gratitudine per la tua presenza materna, sono giunte sin qui ed uniscono la loro voce a quella di tutte  le generazioni che hanno sperimentato il tuo aiuto.

Ti ringraziano e ricorrono a te, ancora una volta, per offrirti le loro comunità e la città intera.

Accogli con benevolenza di Madre l’atto di affidamento che ti è stato rivolto con fiducia dinanzi a questa tua immagine divenuta a tutti noi tanto cara.

Siamo certi che ognuno di noi è prezioso ai tuoi occhi: piccoli e grandi, mamme e papà, nonni, presbiteri, religiosi e claustrali. Possiamo dire, con san Bernardo, che davvero nessuno sia ricorso a te senza che non abbia sperimentato il tuo soccorso. Grazie, o Madre benedetta!

Proprio perché tutti siamo figli nel tuo Figlio Gesù, ricorriamo a te, rivolgendoci al tuo dolce sguardo, chiedendoti la protezione dai mali materiali, spirituali e morali, simboleggiati dalle frecce che tieni spezzate tra le tue mani.

Guarda al tuo popolo che ti supplica.

Quanto abbiamo bisogno della tua intercessione. Innanzitutto, perché le nostre famiglie crescano compatte nell’amore fedele e in quella pedagogia della tenerezza con cui ti sei presa cura del Bambino Gesù. Abbiamo bisogno del tuo accompagnamento per i nostri giovani, perché possano pensare alla loro esperienza sinodale come l’occasione di essere Chiesa a servizio di Cristo e della società, pronunciando il loro «eccomi».

Le nostre comunità parrocchiali vivano sempre più in quel camminare insieme che, mentre riempie la città dell’insegnamento di Cristo (cf At 5, 27-33) – come avvenne nella Gerusalemme delle origini -, congiunge le forze di tutti su progetti pastorali  condivisi. Soccorrici, dunque, perché cresca, in ognuno e in tutti uno spirito missionario appassionato, comunitario, che non trascura di prendersi cura gli uni degli altri.

Aiuta, o Madre, la nostra fede!
Apri il nostro ascolto alla Parola, perché riconosciamo la voce di Dio e la sua chiamata a contribuire alla crescita del Regno di Dio. La pastorale vocazionale e giovanile, specie in occasione della 56.a Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, ricevano da te impulso e coraggio. Trovino in te, che sei stata a Cana, un modello di umanità da presentare a tutte le vocazioni: un’umanità attenta al bisogno degli altri, un’umanità che prega il Figlio e agisce sollecitando tutti a compiere quello che il Signore Gesù dice di fare (cf Gv 2,5); un’umanità che, ultimamente, indica il vero Sposo presente nella storia della nostra vita, venuto per portarci quel vino  della festa, che è sempre Lui, e che trasforma le nostre vite da acqua in un amore che le rende buone, belle e feconde.

Sveglia in noi il desiderio di seguire i passi di Colui che sale sulla croce per sconfiggere il Maligno, il principe del male. Non è possibile avvicinarsi a tuo Figlio evitando la Croce. È con l’amore crocifisso che ogni uomo viene redento. La potenza trasfiguratrice della sua Passione ci aiuta a far nuove tutte le cose.

Facci progredire nella grazia dell’unità tra preghiera ed azione, perché nel camminare quotidiano e nell’incontrare le persone possiamo riconoscere il volto del tuo Figlio Gesù.

Custodisci la nostra vita tra le tue braccia: rafforza ogni desiderio di bene; ravviva ed alimenta la fede; sostieni ed illumina la speranza; suscita ed anima la carità.

Guida tutti noi nel cammino della santità, che è la Carità di Cristo accolta e vissuta. Come ci insegni con la tua vita, «l’amore fa vedere e il vedere fa amare».[1] Fa’ che guardando a Dio impariamo l’amore, diventiamo amore. La misura della nostra santità è data dalla statura che Cristo-Amore raggiunge in noi.[2]

Insegnaci, in particolare, la tua predilezione per i piccoli e i poveri, per gli esclusi e i sofferenti, per i peccatori e gli smarriti di cuore. Raduna tutti sotto la tua protezione e tutti portaci al tuo diletto Figlio, il Signore nostro Gesù. Amen

+Mario Toso

[1] BENEDETTO XVI, Per Amore, Libreria Editrice Vaticana-Edizioni Cantagali, p. 16.

[2] Cf FRANCESCO,  Gaudete et exsultate, n. 21.

Nuove nomine per la catechesi in diocesi

Il settore diocesano catechesi ha dei nuovi incaricati

Lo scorso 30 aprile il vescovo Toso ha affidato a don Massimo Geminiani il settore diocesano della catechesi, in qualità di incaricato; nello stesso tempo il prof. Marco Piolanti è stato nominato vice incaricato. Insieme a Cesare Missiroli, vice incaricato per catechesi e disabilità, si forma una equipe di lavoro diocesana per la trasmissione della fede a bambini, ragazzi, adulti.

Le nomine si sono rese necessarie in seguito alla morte di don Antonio Taroni, che precedentemente ricopriva l’incarico.


FESTA DI SAN GIUSEPPE E DEI LAVORATORI

Bagnacavallo, 1 maggio 2019

Oggi, primo maggio, nel contesto della Pasqua, celebriamo la festa di san Giuseppe lavoratore e, insieme, la festa dei lavoratori. Grazie all’incarnazione, morte e risurrezione di Gesù Cristo, l’uomo viene associato all’opera di redenzione del Signore Gesù, che è un’opera di liberazione e di umanizzazione, di trasfigurazione. Mediante il dono dello Spirito d’amore di Cristo gli apostoli diventano una comunione di persone, unite nell’impegno dell’annuncio del Vangelo e di una vita nuova per tutte le attività, compresa la cooperazione.

La cooperazione promossa da cristiani, come ha ben detto papa Francesco ai membri della Confederazione delle cooperative italiane nel marzo scorso,[1] è espressione della novità di vita seminata da Cristo nei cuori e nei solchi della storia. Il modello di impresa cooperativa, secondo l’ispirazione cristiana, diventa efficace nel cambiamento del mondo economico proprio perché attinge forza innovativa e trasfiguratrice dalla vita nuova donata da Cristo. Tale vita sollecita un modello alternativo di cooperazione, ossia una cooperazione sociale in grado di coniugare insieme la logica dell’impresa e della solidarietà, la logica del profitto e della responsabilità sociale, promovendo la civilizzazione dell’economia. Dalla vita nuova portata da Cristo deriva una visione nuova della persona e della cooperazione, basata non solo sul profitto, ma in modo particolare su relazioni solidali e sulla Trascendenza. Il camminare e il lavorare insieme, a servizio delle persone e del bene comune, vengono rafforzati, lievitati dall’amore di Cristo. In tal modo, la cooperazione diviene più capace di affrontare le difficoltà e le fatiche della gente, di liberare dalla solitudine e dalla disperazione chi è senza lavoro, facendo sperimentare vicinanza e tenerezza. La parabola degli amici che, a causa della folla, scoperchiano il tetto della casa per calare davanti a Gesù il paralitico è assunta ad emblema da papa Francesco per spiegare l’aspetto prodigioso, quasi «miracoloso», della cooperazione (cf Mc 2, 1-5). Gli amici del paralitico («amici» perché hanno a cuore il suo bene) compiono un gesto «miracoloso» proprio perché si mettono insieme. Mediante una simile strategia, che si mostra creativa e vincente, trovano il modo non solo di prendersi cura del paralitico come uomo, dal punto di vista fisico, ma anche di aiutarlo ad incontrare Gesù che può cambiare la sua vita, rimettendogli i peccati. È importante la sottolineatura fatta dal pontefice. Egli evidenzia che Gesù si rivolge al paralitico vedendo la loro fede, cioè la fede di tutto il gruppo che si adopera nell’aiutarlo. Gesù non solo compie un miracolo nei confronti del paralitico. Lo compie gioendo nel vedere la fede, l’ingegnosità, la strategia di squadra degli amici. Detto altrimenti, cari cooperatori e cooperatrici, il Signore gioisce quando vede una cooperazione che aiuta nel suo nome il povero e i giovani bisognosi di un lavoro, «scoperchiando il tetto» di un’economia che rischia di produrre beni ma a costo dell’ingiustizia sociale. Il Signore gioisce quando con la vostra attività cooperativa sconfiggete l’inerzia dell’indifferenza e dell’individualismo facendo qualcosa di alternativo e non soltanto lamentandovi. Gioisce e benedice il vostro lavoro quando fondate cooperative perché credete in un modo diverso di produrre, in un modo diverso di lavorare, in un modo diverso di stare nell’economia e nella società. Gioisce e compie «miracoli» con voi quando aprite un varco nel muro di un’economia che assolutizza il profitto ed adora la tecnocrazia, mostrandosi indifferente del più debole, sino ad escluderlo. In sostanza, il Signore gioisce quando con la vostra ostinazione ed ingegnosità vincete la paralisi di una società e di una politica che bloccano ed impediscono di trovare soluzioni, giungendo addirittura a disprezzare e a mettere «sotto schiaffo» il mondo della solidarietà, la democrazia partecipativa, come sta avvenendo con il rallentamento dei decreti attuativi relativi alla riforma del Terzo settore.

La cooperazione promossa da cristiani crea, dunque, nei territori un popolo che trasfigura l’economia, andando controcorrente rispetto alla mentalità dominante, per la quale il fattore decisivo dello sviluppo sostenibile sono i beni materiali anziché le persone e le buone relazioni. Quando la cooperazione si struttura come imprenditoria incentrata sul perno dell’amore cristiano diventa più umana. La Lettera ai Colossesi ci indica il segreto perché la cooperazione sia sempre più vitale, generativa di bene comune, ossia: fare tutto di buon animo, «come per il Signore e non per gli uomini». Occorre intendere bene il senso di questa affermazione. Se si serve prima il Signore ne deriva un impegno più motivato ed incisivo per la cooperazione e le persone. Togliere il Signore dal primo posto, per assegnarlo ai beni materiali, all’efficienza, porta alla decadenza spirituale e morale, al fallimento della stessa cooperazione, che viene snervata del suo slancio umanitario ed etico. E, dunque, come dice san Paolo: «Qualunque cosa facciate, in parole ed opere, tutto avvenga nel nome del Signore» (Col 3,17).

[1] Cf FRANCESCO, Discorso ai membri della Confederazione delle cooperative italiane, 16 marzo 2019.

+Mario Toso

Mostra fotografica dal sud del mondo

In un vortice di polvere, 25 aprile - 12 maggio 2019

Farsi Prossimo e Caritas Diocesana Faenza-Modigliana presentano IN UN VORTICE DI POLVERE, fotografie di Annalisa Vandelli a cura di Tatiana Agliani e Uliano Lucas.

Dal 25 aprile al 12 maggio 2019 a Faenza, Casa Ragnoli – via Torricelli 28. Inaugurazione: mercoledì 24 aprile ore 18.00.

“… Dieci anni di parole e immagini, dieci anni di notizie e riflessioni, che ci interrogano su un Sud del mondo che continuiamo a non vedere, a non considerare, malgrado migliaia di migranti ce ne portino quotidianamente i drammi e i problemi con le loro vite spezzate, malgrado le nostre scelte di vita e le nostre politiche abbiano condizionato la sua storia recente e passata. Quasi che i confini del mondo ancora oggi si fermassero alle Colonne d’Ercole. (…) E hai fatto tutto questo con una delicatezza che si scopre negli sguardi che ti vengono restituiti dalle persone ritratte. Con una fotografia partecipe che abbandona il mito dell’obiettività per entrare nella vita dei protagonisti delle immagini” (Uliano Lucas e Tatiana Agliani).

Le fotografie sono accompagnate da testi, video, parole e musiche, che mescolano emozioni e conoscenze attraverso linguaggi diversi.


VEGLIA PASQUALE 2019

Faenza, cattedrale 20 aprile 2019

Stiamo vivendo la Veglia più grande dell’anno liturgico, la Madre di tutte le veglie. In essa la Chiesa ci presenta i misteri fondamentali della nostra fede mediante ricchezza e splendore di simboli: fuoco, luce, acqua, il canto gioioso dell’alleluia. Grazie a questi segni eloquenti, che ci richiamano, in certo modo, gli elementi costitutivi del mondo, tutto il nostro essere – corpo, sensi, percezione, spirito, intelligenza di verità, volontà d’amore – viene coinvolto ad accogliere e a sperimentare l’evento della morte e risurrezione di Gesù Cristo.

I segni della Veglia pasquale parlano di una realtà che, mediante l’incarnazione di Cristo, già riguarda la struttura del nostro essere umano. Dopo l’incarnazione, la nostra umanità non può più considerarsi estranea al Verbo fattosi carne e che sottopone l’umano e tutto il creato ad un impulso di rinnovamento. La nostra vita, come quella di ogni uomo, a motivo dell’incarnazione, morte e risurrezione di Cristo, sono redente nelle loro fondamenta, nelle loro radici.

Se è realmente così – come tante volte ci viene spiegato nelle celebrazioni – perché le radici della vita di Cristo piantate, in certo modo, nel nostro DNA, non sempre germogliano, non fioriscono, non fruttificano? Se davvero siamo persone redente, trasfigurate, perché le nostre comunità rimpiccioliscono nel tempo, i giovani sono sempre più assenti, i matrimoni cristiani diminuiscono, i credenti, pur presenti nella società civile e nelle varie istituzioni, non sembrano riuscire ad incidere su di esse, in modo da renderle più umane? Non abbiamo, forse, cominciato a vivere un grande «sabato santo», giorno dell’assenza di Dio? Non si diffonde, come aveva già previsto il giovane teologo Ratzinger, un paganesimo intra-ecclesiale, ossia un senso di autosufficienza tra i credenti, al punto da ritenere di essere salvezza a se stessi? Non si sta diffondendo la convinzione che il cristianesimo non è quanto viene proposto dalla Chiesa ma un qualcosa che ognuno deve confezionare da sé, scegliendo ciò che più gli aggrada dal Vangelo, tralasciando il resto? Non cresce in molti il convincimento che la morte di Dio porta più libertà?

Le radici cristiane di cui tanto si è parlato e che si sarebbe voluto codificare nella costituzione europea sono radici «letterarie», concetti astratti, eterei, o realtà concrete, vitali, parte integrante del nostro essere?

In occasione del disastroso incendio della cattedrale Notre Dame di Parigi si è parlato a proposito e a sproposito del cristianesimo e della sua impronta sull’Europa. Anche nel contesto di questa veglia pasquale non è inutile che ci poniamo la domanda: di quale cristianesimo, dopo che il Verbo si è fatto carne, vogliamo farci portatori? Di un cristianesimo mero schema concettuale, costruzione nostra o guscio vuoto, privo ormai del suo abitante? Può sussistere un cristianesimo senza cristiani autentici? Perché preoccuparsi del destino delle chiese senza tuttavia considerare il problema serio che Cristo sta scomparendo dall’orizzonte valoriale delle nuove generazioni? Possiamo disquisire finché vogliamo. Rimane indubitabile che il cristianesimo diviene fonte di civiltà quando i credenti sono realmente tali e con la loro fede riescono a portare nel mondo il fermento di Dio, la vita nuova di Cristo. Essi non possono pensare di essere luce del mondo, sale della terra, se la vita quotidiana che conducono non trova alimento e, quindi, connessione con le radici cristiane, che Cristo ha piantato nel nostro essere con la sua morte e risurrezione.

Occorre essere preoccupati sia della presenza della gente alle celebrazioni dei misteri di Cristo sia della capacità di far sì che la vita comunicata dalla partecipazione ad essi si diffonda nel mondo, nelle istituzioni, nelle legislazioni, nella famiglia, nella scuola, nella cultura. Chi è redento da Cristo non è destinato a vivere chiuso in recinti, bensì è mandato ad annunciare il Risorto a tutti i popoli. Così, non si può ignorare che se le singole gocce d’acqua, ovvero i cristiani, rimangono separati e non divengono un fiume d’acqua viva difficilmente possono irrigare la terra riarsa, facendola germogliare e fruttificare. La fecondità del cristianesimo dipende sicuramente dall’incarnazione dei valori evangelici nella cultura. Prima ancora, però, dipende dalla comunione con Cristo. Bisogna che, partecipando a questa solenne celebrazione pasquale, fonte e culmine della vita cristiana, giungiamo ad accrescere la nostra fede. Essa non è tanto un cumulo più o meno voluminoso di nozioni, o una moltitudine di gesti ripetuti meccanicamente durante i nostri incontri, quanto piuttosto un arrivare a «toccare» la mano di Dio, che viene tra noi, per stare con noi. Una fede vera è ascoltare la sua Parola col cuore, è vivere empaticamente con Chi è per noi Amore pieno di verità. Non dobbiamo dimenticare che è soprattutto l’Amore di Cristo, accolto, celebrato, testimoniato che consentirà alla Chiesa di rinnovarsi e di apparire agli uomini come la patria che dà loro vita, più umanità, speranza oltre la morte.

I cristiani, vedono in Cristo il loro Tutto. Essi non sono tanto innamorati delle idee del bene e del vero, della povertà in sé, ma di Cristo. Non devono essere innamorati delle loro opere e delle loro istituzioni, pur importanti e necessarie per testimoniare il loro servizio all’uomo, ma soprattutto di una Persona, che è Gesù Cristo. Diventano luce per il mondo quando il loro io è misticamente immerso in quello di Gesù Cristo, ossia quando riescono a far vedere agli altri quanto sono innamorati di Lui.

+ Mario Toso

VENERDI’ SANTO

Faenza, Cattedrale 19 aprile 2019

Il brano tratto dal profeta Isaia (Is 52, 13-53, 12) descrive, in un’intensa visione profetica, la passione del Signore Gesù: essa, lo sappiamo, è una passione d’amore per il Padre e per l’umanità. Rapito da un’intuizione sovrannaturale, il grande profeta intravvede in anticipo il momento culminante della redenzione e della morte del Servo sofferente. Coglie la grandezza e l’incommensurabilità dell’Amore di Dio per l’umanità e nello stesso tempo la stupidità dell’uomo che rifiuta il dono della salvezza, della trasfigurazione. L’uomo rifugge dall’incontrare Dio, il suo volto umano, per chiudersi in sé, come chi pensa di poter salvarsi da solo, senza Dio. Ma l’uomo che rinuncia a guardare il volto di Dio fattosi uomo giunge a non riconoscersi più per quello che è, ossia a perdere il criterio e la misura dell’umano. Chi non vuole guardare il volto del Verbo incarnato – noi per comprendere la novità e la contemporaneità del linguaggio del profeta Isaia abbiamo a disposizione l’apporto dei filosofi francesi Emmanuel Lèvinas e Paul Ricoeur, i quali sono giunti a dirci che il volto rappresenta la persona – perde l’immagine dell’uomo compiuto, che ha vita in pienezza. L’uomo senza Dio resta meno umano, rischia di diventare disumano. Grazie alla passione e morte di Gesù Cristo l’umanità trova, finalmente, la via del suo compimento secondo la misura dell’Uomo nuovo.

Riflettiamo solo qualche istante sul testo del profeta Isaia e comprendiamo la stoltezza dell’uomo che rifiuta Dio, sino ad eliminarlo dalla terra dei viventi.

Sebbene il Servo del Signore, Gesù Cristo, incarnandosi, abbia desiderato farsi umanità per renderla più simile a sé, questa, come «vede» il profeta Isaia, si è divincolata dal suo abbraccio, si è addirittura rivoltata e ribellata contro di Lui. L’umanità, secondo Isaia, sarebbe giunta a sfigurare l’aspetto di uomo del Messia, flagellandolo, sputandogli addosso, caricandolo con una croce, facendolo stramazzare a terra nella polvere che gli ha ricoperto il volto. Il proposito è stato quello di annientare in Cristo la somiglianza con noi, per non condividere nulla di Lui. L’umanità sembra presa da un’insana follia: cancellare qualsiasi traccia di Dio in sé. Con questo si rivolta contro se stessa, volendo sradicare l’immagine secondo cui è stata creata. Disprezzato e reietto dagli uomini, Cristo diventa l’uomo dei dolori, una persona irriconoscibile. Diventa «come uno davanti al quale ci si copre la faccia» per non vederlo e per non riconoscerlo come un proprio simile, come uno che ci appartiene ed è la nostra intima struttura d’essere e di volere. Non si vuole avere nulla da fare con Lui. Lo si crocifigge fuori dalle mura della città, a dire l’estraneità con Lui.

La stoltezza dell’umanità mostra così di giungere al massimo. Rifiuta, umilia, uccide Chi la crea, l’ama, incarnandosi per guarirla, per liberarla dalla schiavitù del peccato, per colmarla di vita, per eternizzarla. Cristo, peraltro, si carica delle nostre sofferenze, si addossa i nostri dolori, entra nella morte per aiutarci a viverli con il suo Amore. Mentre eravamo sperduti come un gregge e ognuno di noi seguiva la sua strada, con il suo sangue ci  costituisce popolo unificato con Dio Padre: un popolo che attraversa la storia come fermento di una nuova umanità. Imprimiamo nella nostra mente tutto questo per baciare, al termine di questa celebrazione del Venerdì santo, il Crocifisso con sincerità di amore e di riconoscenza. Se non giungeremo a farlo saremo più poveri, meno vivi e meno umani.

+Mario Toso

MESSA CRISMALE

Faenza, Cattedrale giovedì 18 aprile 2019

L’odierna liturgia, oltre a ricordarci che, con la morte e risurrezione di Cristo, siamo stati costituiti sacerdoti per il suo Dio e Padre (cf Ap 1, 5-8), ci dice che Gesù è il vero e perenne soggetto dell’evangelizzazione.

«Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio» (Lc 4,18). Questa missione di Cristo continua nello spazio e nel tempo, attraversando secoli e continenti. È un movimento che parte dal Padre e, con la forza dello Spirito, va in particolare verso tutti coloro che sono poveri, sia materialmente che spiritualmente. La Chiesa è lo strumento primo e necessario di questa opera di Cristo, perché è a Lui unita come un corpo al capo. «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20,21). Così dice il Risorto ai discepoli, aggiungendo, mentre soffia su di loro: «Ricevete lo Spirito Santo» (v. 22). Cristo, principale soggetto dell’evangelizzazione del mondo, ha voluto trasmettere alla Chiesa la propria missione. Lo ha fatto, e continua a farlo sino alla fine dei tempi, infondendo lo Spirito Santo nei suoi discepoli. E così, dona alla Chiesa la sua forza di «proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista», di «rimettere in libertà gli oppressi» e di «proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,18-19). Nel Vangelo di Luca, in definitiva, ci viene detto che la parola del profeta Isaia (Is 61, 1-3a.6a.8b-9) si fa carne. Con la sua nascita, Gesù, divenendo uomo come noi, si inserisce nel solco dei profeti. Come assume l’umanità, assume i profeti e li incarna in sé.  Vediamo in che modo. Venuto a Nàzaret, dove era cresciuto, secondo il suo solito, entrando di sabato nella sinagoga, si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa. Apertolo, trovò il passo che dice: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore». Riavvolto il rotolo, lo riconsegnò, sedette e cominciò a dire: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». Detto diversamente, la profezia di Isaia trova incarnazione in Gesù, è storicizzata in Lui, il sommo Profeta. Con la sua venuta tra noi, inserendosi nella storia, Dio viene a togliere tutto ciò che impedisce la fioritura dell’uomo. Si schiera da parte degli ultimi, mai con gli oppressori. Il Figlio di Dio viene come fonte di vite libere, incominciando da quella dei prigionieri. Viene non tanto per riportare i lontani a Dio, bensì per portare Dio ai lontani, a uomini e donne senza speranza, ed aprirli a tutte le loro potenzialità di vita, di lavoro, di creatività, di relazione, di intelligenza, di amore.

Ritorniamo al compito che Cristo affida a noi, suoi discepoli e sua Chiesa. Affida la sua missione di liberazione a noi, costituiti in comunione con Lui e tra di noi. Ci fa capire che Egli non fa scendere perpendicolarmente la sua luce e la sua salvezza sui singoli individui, ma agisce nella comunione dei credenti, unificati in Lui. Il nostro Signore Gesù desidera che il servizio della salvezza e della divinizzazione del mondo sia svolto dagli uomini, ossia da noi riuniti in un popolo. Egli ci cristianizza mediante il servizio di una comunità: degli uni per gli altri e degli uni con gli altri. Essere comunità che evangelizza e libera  significa sempre e in primo luogo essere credenti che si liberano dalle catene dell’egoismo e che entrano nel grande dinamismo di fondo che ci vuole viventi gli uni per gli altri.[1] Ma allora dobbiamo chiederci: come faremo ad attuare la missione universale di Cristo, se ci rinchiudiamo nei nostri territori e in molte parti d’Europa stiamo divenendo Chiesa «più piccola»? È evidente, infatti, che stiamo abbandonando non pochi edifici, che erano stati eretti in tempi più floridi. Stiamo ristrutturando le parrocchie, connettendole in «unità pastorali» in termini non statici bensì dinamici, relazionali, sinodali. Ma, come comunità «più piccola», siamo, per conseguenza, chiamati a sollecitare con maggior forza l’iniziativa di tutti i componenti. Pensiamo, ad esempio, al Sinodo dei giovani. Certamente, saranno necessarie nuove forme di ministero, su cui siamo già chiamati a riflettere, a scegliere, a formare. Ma, accanto a queste forme è innegabilmente indispensabile la figura del presbitero. Nonostante tutti i cambiamenti che si possono presumere, la Chiesa ritroverà con tutta l’energia ciò che le è essenziale, ciò che sempre è stato il suo centro: la fede nel Dio uno e trino, in Gesù Cristo, il Figlio di Dio fattosi uomo, con l’assistenza dello Spirito, che non le mancherà sino alla fine dei tempi. Con crescente evidenza, la nostra sarà allora una Chiesa più spirituale, più missionaria, più semplificata, più capace di guardare dentro se stessa per essere, con la sua fede, sempre più connessa alla vera «pietra angolare», che è Gesù Cristo. Nel contesto di una comunità parrocchiale, che cura le relazioni fraterne e vive esperienze di formazione e incontro anche attraverso «piccole comunità», il presbitero, come un fratello maggiore. accompagna, incoraggia, si fa segno della carità del Buon Pastore. E così, sarà sempre più «formatore dei formatori», e sempre meno gestore diretto delle varie attività. Sarà meno l’uomo del fare e dell’intervento diretto, e più l’uomo della comunione. Avrà cura di promuovere vocazioni, ministeri e carismi. La sua passione sarà far passare i carismi dalla collaborazione alla corresponsabilità, da figure che danno una mano a presenze che pensano e camminano insieme, all’interno di un comune progetto pastorale. Sarà meglio che, di qui in avanti, il presbitero concentri le sue energie sulla formazione dei catechisti di fanciulli, ragazzi, giovani, famiglie, e dei ministri della Parola, piuttosto che accollarsi direttamente tutta la catechesi e la guida dei gruppi biblici e di «piccole comunità», per quanto alcuni contatti diretti siano utili sia a lui che  ai laici. Sarà meglio che concentri il suo impegno nella formazione di operatori nel campo della carità, della malattia, dell’emarginazione, più che intervenire direttamente con iniziative più o meno generose, per quanto alcuni contatti diretti con le diverse povertà lo aiutino a mantenere il polso della situazione. Avremo modo nel prossimo anno pastorale di ritornare su questi temi urgenti, ma qui appena lambiti. Poiché la Chiesa, di per sé, non è né una monarchia né una democrazia, basti qui semplicemente ricordare che il prete non è colui che tutto assorbe e accentra, né un semplice coordinatore. La Chiesa è «sinodo», esperienza ove laici, diaconi e pastori devono camminare insieme, ciascuno secondo le proprie competenze. Il sacerdote non è colui che possiede, ma colui che presiede l’evangelizzazione.[2]

In questa celebrazione eucaristica, oltre a ricordare i vari giubilei ed anniversari, facciamo memoria dei sacerdoti defunti della nostra diocesi: Don Alfio Alpi, Mons. Germano Pederzoli, Mons. Roberto Fortunato Brunato, Mons. Antonio Taroni. Per concludere, traggo dal testamento spirituale di quest’ultimo alcune affermazioni, che mi paiono utili a renderci più «sinodali» e più audaci:

«Nel ricordino della mia prima messa avevo scelto la frase di Giovanni: “Per rendere testimonianza alla verità”. Forse è stata un po’ presuntuo­sa. Ma mi ha sempre commosso la passione di Gesù che praticamente inizia con quella frase. Sono sempre andato dove i superiori mi hanno mandato. Avrei voluto impegnarmi di più per testimoniare la sua verità. Non ho avuto il coraggio di lottare da solo. Ho cercato di camminare insieme con la Chiesa ascoltando le direttive sempre impor­tanti e capaci di aprire speranze per il futuro. Ma una sorta di reazione al cambiamento ha reso difficile la loro applicazione».

Ecco la preghiera «sinodale» con cui conclude il suo testamento spirituale, preghiera che possiamo fare nostra:

«Ti ringrazio, Signore,

per le comunità che mi hai fatto incontrare

Ti ringrazio, Signore,

per le persone che le compongono

Ti ringrazio, Signore,

per le cose che abbiamo fatto insieme

Ti ringrazio, Signore,

per le testimonianze di fede ricevute

Ti ringrazio, Signore,

per le sofferenze che abbiamo condiviso

Ti ringrazio, Signore,

per le amicizie che mi hai fatto trovare:

le metto nelle tue mani

perché tu le custodisca e le rafforzi.

In ogni situazione e circostanza,

il tuo amore sia la nostra speranza

e gli amici la nostra forza».

[1] Cf Benedetto XVI, Vedere l’amore. Il mio messaggio per il futuro della Chiesa, Rizzoli, Milano 2017, pp.124-125; 162-165.

[2] Cf Erio Castellucci, Non temere piccolo gregge, Cittadella Editrice, Assisi 2013, pp. 74-75.

+Mario Toso

VIA CRUCIS CITTADINA

Faenza, cattedrale 17 aprile 2019

Quest’anno nella Lettera pastorale, per comprendere il nostro compito di Chiesa, abbiamo fermato l’attenzione sul Verbo che si fa carne. Durante la via Crucis cittadina abbiamo pregato Gesù che entra nella morte per amore nostro. Con la sua incarnazione assume tutto dell’uomo, anche il momento finale della nostra esistenza terrena. Il Verbo fattosi carne entra nella morte per essere come noi, con noi, per amore nostro. Per aiutarci a passare il tunnel buio della morte, per aiutarci a superarla, prendendoci entro il vortice della sua risurrezione e renderci partecipi della sua pienezza di Vita.

La croce di Gesù Cristo è per noi credenti un segno: non solo di morte, ma soprattutto di vita, di vittoria del bene sul male, della risurrezione sulla morte. È segno della lotta di Gesù contro ciò che ci distrugge, nonché segno della sua lotta per costruire una nuova umanità, che vive in comunione con Dio.

Abbracciando la croce, portandola, cadendo più volte sotto il suo peso, venendo crocifisso su di essa, morendo ed emettendo il suo Spirito, Cristo conclude il suo combattimento. Si tratta di un combattimento particolare, bifronte, avente due facce. Infatti, Gesù mediante un tale combattimento, da una parte si oppone al Maligno, principe del male, e al peccato sino a morire, (cf FRANCESCO, Gaudete et exsultate [=GE], n. 159) dall’altra ci insegna la via per essere persone nuove, che crescono ad immagine del Figlio di Dio e sono protagoniste di una nuova creazione. Gesù lotta con tutte le sue forze, sino a morire, per consentire a noi di essere più vivi e più umani: di essere uomini e donne capaci di rifiutare la violenza, di perdonare, di costruire ponti tra i popoli; di essere una moltitudine di testimoni della verità, umanità che risponde finalmente all’amore di Dio Padre. Morendo con le braccia spalancate egli è il nuovo Sacerdote, la nuova umanità che si offre al Padre non con sacrifici di animali, ma offrendo se stessa. Il Padre non desidera il sangue di agnelli o di altri animali bensì noi, il nostro amore di figli, di figlie.

Gesù sulla croce ci mostra, dunque, uno stato permanente della vita cristiana, quello del combattimento contro il male, il peccato, l’ingiustizia, la divisione e, nello stesso tempo, quello del combattimento o della lotta per il bene, per la costruzione di una umanità fraterna, conviviale, pacifica. La vita di Gesù si manifesta a noi come un combattimento contro (non contro le persone bensì contro il disordine morale e civile) e, nello stesso tempo, un combattimento per, positivo, ossia in ordine alla trasfigurazione dell’esistenza, mediante una vita per il Padre. Partecipando al combattimento spirituale di Cristo, vivendo i misteri della sua vita, ossia unendoci alla sua morte e risurrezione in modo unico e personale, morendo e risorgendo continuamente con Lui, diventiamo gente santa, popolo di sua conquista, comunità audace ed appassionata del bene. Mentre respingiamo le frecce infuocate del maligno (cf Ef 6,16), siamo sollecitati a intensificare il combattimento positivo di Cristo e a riprodurre in noi i diversi aspetti della sua vita: vita di preghiera, vita comunitaria in Dio Trinità, vicina agli ultimi, povera, vita secondo le beatitudini (che implica un andare controcorrente), vita di parresia, di fermezza nel dono.

L’incarnazione, morte e risurrezione di Cristo imprime un dinamismo di trasfigurazione alla storia, di divinizzazione della nostra umanità. Il disegno del Padre ha questo obiettivo: che Cristo viva in noi e noi in Lui (cf GE n. 21). Meglio: che Cristo ami in noi e noi amiamo in Lui, come Lui, nella nostra esistenza quotidiana: mentre lavoriamo, curiamo gli anziani, gli ammalati, visitiamo le persone sole, viviamo la nostra vocazione di evangelizzatori, di persone consacrate, dedite alla costruzione dell’edificio spirituale che è la Chiesa, alla costruzione di una società fraterna, giusta e pacifica. La meditazione sulla passione del Figlio incarnato ci fa capire che la misura della nostra santità è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con la forza dello Spirito santo, modelliamo la nostra vita di servizio (nei vari ambiti) sulla vita del Signore. Più siamo vivi in Cristo che muore e risorge, e più redimiamo e trasfiguriamo la nostra vita, nelle sue varie modalità esistenziali. Più siamo di Cristo che muore e risorge più siamo fermento di Dio nella famiglia, nella comunità cristiana e in quella civile e politica.

Con la croce, eretta sul Golgota, l’amore di Cristo è piantato in terra, nell’umanità. È così si instaura una grande lotta cosmica tra il bene e il male. Come canta l’inno dell’esaltazione della Croce: «Le potenze sotterranee, avversarie della croce, tremano di fronte a quel segno». Esso è vessillo di vittoria, di sviluppo pieno, di sconfitta del male e di ogni corruzione spirituale (cf EG nn. 164-165).

L’amore redentore di Cristo, accolto in noi, susciti nelle nostre vite e nelle nostre contrade rinnovamento nello spirito. Frantumi le paure, le solitudini dei nostri anziani. Aiuti a risanare le nostre famiglie spesso divise dall’indifferenza. Concorra a migliorare la nostra civiltà imperniandola sull’asse della libertà responsabile e non tanto dei diritti individuali, semmai sull’asse dei diritti connessi a rispettivi doveri. La sua crocifissione ci faccia capire che sul Calvario «Dio non salva dalla sofferenza, ma nella sofferenza; non protegge dalla morte, ma nella morte. Non libera dalla croce, ma nella croce» (Bonhoeffer). Dalla contemplazione del volto del Dio crocifisso continui a derivare la vitalità del nostro cristianesimo, la vera civilizzazione, la generatività della nostra presenza. Il Dio che lava i piedi ai suoi discepoli e non gli basta; il Dio che dà da mangiare il suo corpo; il Dio che pende dalla croce nudo e disonorato, ed è protagonista della più grande storia d’amore del mondo, chiama noi suoi discepoli ad andare controcorrente, produce sommovimenti morali e spirituali per saziare la sete e la fame di giustizia di credenti e non credenti.

Grazie, Signore Gesù!

+ Mario Toso
vescovo

GRANAROLO: PROFESSIONE DI FEDE DEI DICIOTTENNI

Veglia per Giornata mondiale della gioventù: 13 aprile 2019

Gv 21, 15-22

  1. Pietro

Nel giorno del rinnovo della vostra professione di fede, cari diciottenni, la Chiesa vi pone davanti il brano del Vangelo di Giovanni in cui è presentato il compito pastorale di Pietro e il suo essere discepolo di Cristo. Anche a Pietro Gesù chiede di rinnovare la sua professione di fede e gli affida il compito di pascere le sue pecore. E questo al momento della sua terza apparizione, dopo essere risorto dai morti, dopo la passione in cui Pietro lo rinnegò per ben tre volte.

Da altri brani evangelici apprendiamo che la fede di Pietro non è una marcia trionfale, ma un cammino cosparso di prove e di infedeltà. La fede di Simon Pietro è minore di quella di tanti piccoli del popolo fedele di Dio. Ci sono persino dei pagani, come il centurione, che hanno una fede più grande nel momento di implorare la guarigione di un malato della loro famiglia. La fede di Simone è più lenta di quella di Maria Maddalena e di Giovanni. Giovanni crede al solo vedere il segno del sudario e riconosce il Signore sulla riva del lago al solo ascoltare le sue parole. La fede di Simon Pietro ha momenti di grandezza, come quando confessa che Gesù è il Messia, ma a questi momenti ne seguono quasi immediatamente altri di estrema fragilità e totale sconcerto, come quando vuole allontanare il Signore dalla croce, o quando affonda senza rimedio nel lago o quando vuole difendere il Signore con la spada. Per non parlare del momento vergognoso dei tre rinnegamenti davanti ai servi ai quali abbiamo accennato sopra.

Pietro che aveva promesso fedeltà assoluta, conosce l’amarezza e l’umiliazione del rinnegamento: lo spavaldo apprende a sue spese l’umiltà. Impara di essere debole e bisognoso di perdono. Quando, dopo aver tradito il Signore, capisce la verità del suo cuore debole di peccatore credente, scoppia in un pianto liberatorio di pentimento. Dopo questo pianto egli è ormai pronto per la sua missione.

In un mattino di primavera questa missione gli sarà affidata da Gesù risorto. L’incontro avviene sulle sponde del lago di Tiberiade. È l’evangelista Giovanni a riferirci il dialogo che in quella circostanza ha luogo tra Gesù e Pietro. Vi si rileva un gioco di verbi molto significativo. In greco il verbo filéo esprime l’amore di amicizia, tenero ma non totalizzante, mentre il verbo agapáo significa l’amore senza riserve, totale ed incondizionato. Gesù domanda a Pietro la prima volta: «Simone… mi ami tu (agapâs-me)» con questo amore totale e incondizionato (cfr Gv 21,15)? Prima dell’esperienza del tradimento l’Apostolo avrebbe certamente detto: «Ti amo (agapô-se) incondizionatamente». Ora che ha conosciuto l’amara tristezza dell’infedeltà, il dramma della propria debolezza, dice con umiltà: «Signore, ti voglio bene (filô-se)», cioè «ti amo del mio povero amore umano». Il Cristo incalza: «Simone, mi ami tu con questo amore totale che io voglio?». E Pietro ripete la risposta del suo umile amore umano: «Kyrie, filô-se», «Signore, ti voglio bene come so voler bene». Alla terza volta Gesù dice a Simone soltanto: Fileîs-me?, «mi vuoi bene?». Simone comprende che a Gesù basta il suo povero amore, l’unico di cui è capace, e tuttavia è rattristato che il Signore gli abbia dovuto dire così. Gli risponde perciò: «Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene (filô-se)». Gesù soggiunge: «Pasci le mie pecore».  Poco dopo gli chiede: «Seguimi»! Verrebbe da dire che Gesù si è adeguato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù! È proprio questo adeguamento divino a dare speranza al discepolo, che ha conosciuto la sofferenza dell’infedeltà. Da qui nasce la fiducia che lo rende capace della sequela fino alla fine.

Da quel giorno Pietro ha seguito il Maestro con la precisa consapevolezza della propria fragilità; ma questa consapevolezza non l’ha scoraggiato. Egli sapeva infatti di poter contare sulla presenza accanto a sé del Risorto. Dagli ingenui entusiasmi dell’adesione iniziale, passando attraverso l’esperienza dolorosa del rinnegamento ed il pianto della conversione, Pietro è giunto ad affidarsi a quel Gesù che si è adattato alla sua povera capacità d’amore. E mostra così anche a noi la via, nonostante tutta la nostra debolezza. Sappiamo che Gesù si adegua a questa nostra debolezza. Noi lo seguiamo, con la nostra povera capacità di amore e sappiamo che Gesù è buono e ci accetta. È stato per Pietro un lungo cammino che lo ha reso un testimone affidabile, “pietra” della Chiesa. Il Signore ancora prima della sua passione gli aveva assicurato: «Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,31-32).

Possiamo rileggere così le parole del Signore: «Simone, Simone, […] io ho pregato il Padre per te, perché la tua fede non rimanga eclissata (dal mio volto sfigurato, in te che lo hai visto trasfigurato); e tu, una volta che sarai uscito da questa esperienza di desolazione di cui il demonio ha approfittato per passarti al vaglio, conferma (con questa tua fede provata) la fede dei tuoi fratelli».

 

  1. La responsabilità di confermare i fratelli

 

In questo momento, ad ognuno di voi il Signore Gesù ripete la sua domanda: «Voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,15). Una domanda chiara e diretta, di fronte alla quale non è possibile sfuggire o rimanere neutrali, né rimandare la risposta o delegarla a qualcun altro. È una domanda piena di amore! L’amore del nostro unico Maestro, che oggi vi chiama a rinnovare la fede in Lui, riconoscendolo quale Figlio di Dio e Signore della nostra vita. Lasciate che la grazia plasmi di nuovo il vostro cuore per credere, e apra la vostra bocca per compiere la professione di fede e ottenere la salvezza (cfr Rm 10,10). Fate vostre le parole di Pietro: «Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). Il vostro pensiero e il vostro sguardo siano fissi su Gesù Cristo, inizio e fine di ogni azione della Chiesa. Lui è il fondamento e nessuno ne può porre uno diverso (1Cor 3,11). Lui è la “pietra” su cui dobbiamo costruire. Lo ricorda con parole espressive sant’Agostino quando scrive che la Chiesa, pur agitata e scossa per le vicende della storia, «non crolla, perché è fondata sulla pietra, da cui Pietro deriva il suo nome. Non è la pietra che trae il suo nome da Pietro, ma è Pietro che lo trae dalla pietra; così come non è il nome Cristo che deriva da cristiano, ma il nome cristiano che deriva da Cristo. […] La pietra è Cristo, sul fondamento del quale anche Pietro è stato edificato» (In Joh 124,5: PL 35,1972).