Faenza, cattedrale 3 novembre 2025.
Cari parenti di don Giuseppe Gallazzi, cara Rosanna, sorella amorevole di don Beppe, cari presbiteri, diaconi, fratelli e sorelle, in ciascuno di noi battezzati, Cristo vive incarnato, morto, risorto. Tutta la nostra vita e la nostra vocazione sono vissute nel Signore Gesù, con Lui, per Lui. Mentre scorre il tempo e più si succedono gli eventi più profondamente aspiriamo ad immedesimarci in Gesù Cristo, principio e fine della storia, Signore della vita, principio di ogni speranza che non delude. La nostra vita, per chiamata e per missione, si costruisce sempre più come un servire Cristo, presente nei fratelli e nelle sorelle delle nostre famiglie e delle nostre comunità. Per chi, come don Giuseppe, ha avuto responsabilità di comunità parrocchiali diventa sempre più difficile immaginare la propria esistenza fuori dalla comunione cristiana, dalle relazioni, dalle associazioni che la popolano e la animano verso il compimento in Dio.
In alcune occasioni ho avuto modo di parlare con don Giuseppe di problemi pastorali relativi alla comunità in cui egli era presente e, ultimamente, soprattutto della sua salute, che esigeva particolari attenzioni. Devo confessare che mi ha sempre colpito il suo modo di approcciare persone e fatti. Egli poneva come prioritario non tanto sé stesso quanto le esigenze della propria comunità. Ultimamente, appena terminato il periodo dell’ospedalizzazione, con episodi bisognosi di cure importanti, la prima preoccupazione che manifestava era quella di rientrare nella propria comunità, ove poter continuare, al più presto, comunque fosse, il proprio ministero, il proprio servizio di evangelizzazione e di carità.
Cari fratelli e sorelle, ho così potuto toccare con mano, ancora una volta – nella mia vita ho accompagnato altri sacerdoti, specie miei confratelli salesiani, nella lora vecchiaia e malattia – cosa significhi l’incarnazione di Cristo nella vita di un presbitero, di una persona consacrata al Signore, a lui consegnata.
Nello scorrere della nostra esistenza l’incarnazione di Cristo avviene attraverso passaggi, valichi, svolte, conversioni, approfondimenti.
Per la vita di un presbitero diocesano, come don Giuseppe Gallazzi, questi passaggi possiamo identificarli con i cambiamenti di parrocchia e l’assunzione di nuove responsabilità. Si potrebbe quasi percorrere con don Beppe tali passaggi anche geograficamente, compiendo quasi un viaggio in bicicletta, come lui amava fare da giovane: dal tempo della formazione a Faenza, poi in missione pastorale a Granarolo, Villa Prati, Cotignola, Alfonsine, Fusignano, fino alla chiusura del cerchio con il ritorno a Faenza.
Alla fine del suo percorso terreno, su un letto di ospedale, si è maggiormente identificato con l’incarnazione di Cristo nella sofferenza e nella morte, ascendendo alla croce del Figlio di Dio, con il quale, don Beppe ha potuto pronunciare il suo definitivo “Tutto è compiuto” (Gv 19,30). Posso testimoniare che don Giuseppe era ben cosciente dell’ora difficile che stava vivendo, per la quale domandava umilmente la preghiera dei suoi confratelli presbiteri, dei fratelli e delle sorelle di fede, dei suoi cari defunti, come anche la benedizione del suo vescovo. Vi posso assicurare che, di fronte a tanto dolore e a così profonda fede, mi mancavano le parole. Assieme a don Michele, il vicario generale, l’ho benedetto, pensando che Dio non poteva non accogliere la sua richiesta di aiuto. Così ho pregato sinceramente per lui nei giorni seguenti, per accompagnarlo nella sua passione, tormentata dal dolore che lo faceva gemere sommessamente.
Essere stato accanto a don Beppe, sia pure per pochi istanti, mi ha consentito di sperimentare come per tutti noi, non si può parlare della vita di un presbitero senza parlare di Cristo: “Sono stato conquistato da Cristo” (Fil 3,12), diceva san Paolo. Altrettanto sembrava ripetere don Giuseppe con la sua vita, con le sue scelte, specie nell’ultimo tratto del percorso.
Nella sua intima preghiera di colloquio con il Signore don Giuseppe viveva su di sé la riflessione attribuita a san Gregorio Nazianzeno, reperibile nella raccolta delle sue Poesie: “Se non fossi tuo, Cristo mio, mi sentirei una creatura finita”. Detto altrimenti: mi sentirei una creatura che non possiede ciò che le è essenziale, per vivere pienamente in Dio Amore.
Perché aveva questa visione della propria vita, don Giuseppe propendeva a considerarla un vissuto in parte paradossale, comprendente gli estremi della grazia e del peccato, dell’umano e del divino, della povertà e della pienezza. Questo ne segnava il tratto umano che tanti hanno notato in lui. Sui social è stata postata la frase: “Lui sì che ci sapeva fare coi ragazzi!”. Forse è stato il suo carattere, che cercava di armonizzare gli estremi, a lasciare di lui un’immagine ispirata alla bontà e alla mitezza.
Chi lo conosceva invece più da vicino, non poteva non notare il suo fare essenziale e sbrigativo. Nelle discussioni lui stesso si definiva sempre “il bastian contrario”. Ciò, in realtà, era un atteggiamento che gli sorgeva da dentro come un imperativo categorico. Lo manifestava quando qualcosa non gli andava giù. Ciò avveniva specie quando ravvisava nella sua comunità e nei suoi collaboratori una delle tentazioni che papa Francesco ebbe a definire come “mondanità spirituale”. A don Giuseppe non piaceva uno stile di vita pastorale improntato al funzionalismo manageriale, ossia ad una pastorale incentrata prevalentemente sull’organizzazione, su gruppi di élite, ma non aperta alla ricerca dei lontani, di coloro che sono assetati di Cristo. Egli era insofferente nei confronti di quelli che davano istruzioni agli altri ma non si sporcavano le mani, lasciando fuori dal proprio raggio di azione chi soffre e chi è povero. Assumeva, piuttosto, nei loro confronti un atteggiamento di accoglienza e di ascolto. Evitava di ergersi a giudice. Confidava, piuttosto, nel tempo che fluisce e può lasciar sedimentare le imperfezioni. Credeva in una Chiesa che sa avvicinarsi a chi è affaticato nel cammino della fede, facendogli assaporare la bontà del Signore con piccoli gesti, aprendo i cuori all’aria fresca dello Spirito, che libera dal rimanere centrati su sé stessi e rende disponibili al dono.
In breve, per don Beppe la Chiesa non poteva essere una semplice organizzazione umana, la cui azione può essere semplicemente analizzabile col metro della sociologia e della statistica, dell’efficienza. Ciò perché in essa è, in definitiva, operante la Grazia di Dio che tutto compie, in mezzo a noi e dentro di noi.
Il “tutto è grazia” di Bernanos per don Beppe diventava il setaccio, il principio di discernimento e di valutazione di tutte le cose. Benché ammirasse – anche con una punta di invidia per le loro “prestazioni” – tutto quello che facevano i preti e i laici più impegnati, tutto però diventava per lui relativo, rispetto alla grandezza della conoscenza di Cristo, come scriveva l’apostolo: “Tutto reputo una spazzatura” (Fil 3, 8-12).
Questa espressione paolina poteva essere la sentenza di don Beppe di fronte a una Chiesa che punta a successi mondani, alla efficienza nella organizzazione e nella pianificazione pastorale, alla mondanità spirituale.
Egli in fondo era un appassionato di Cristo e questo diventava in lui la sua consolazione e il suo vanto, la sua giustificazione e il suo sprone.
In questa linea di totale resa alla grazia che tutto compie, ogni dramma personale o collettivo, inevitabile nella vita, diventava per lui prezioso purché accolto come sfida ad andare a fondo delle esigenze del proprio cuore.
Nel tempo, per grazia di Dio, viene meno la nascosta e talvolta presuntuosa illusione che sia il proprio impegno, il proprio sforzo a cambiare e a salvare il mondo.
In quel momento siamo, invece, chiamati a balbettare con timore e tremore: O Dio, vieni a salvarci, perché senza di te non possiamo far nulla. Senza la tua Grazia, “senza la tua forza, nulla è nell’uomo, nulla senza colpa”.
È in quel momento di totale abbandono che si giunge a guardare con maggiore stupore quel fatto o quella circostanza attraverso cui Cristo fa di noi, comunione di persone in Lui, quello che desidera il Padre.
Come popolo di Dio il comando è che “Cristo sia in noi”, portandoci alla perfezione di una vita che diventa offerta pura.
Riconoscendo di non avere nessuna forza che viene da noi stessi, allora possiamo domandare di essere semplicemente colmati e permeati dalla grazia di Cristo.
A detta di chi ha conosciuto don Giuseppe più del sottoscritto, don Giuseppe diceva sempre di sì, nonostante il suo “cuore ribelle” volesse dire sempre di no. E alla fine si arrendeva fiducioso di fronte al mistero della presenza in noi del Signore morto e risorto, sempre veniente nella nostra vita e nella storia.
Caro don Giuseppe preghiamo per te. Tu prega per noi. Prega per la Chiesa che è in Faenza e Modigliana. Sia attenta alla voce dello Spirito. Diventi sempre più capace di essere tutta insieme, camminando unita, non preda della mondanità spirituale. Sia più capace di intimità con la Trinità, di amare Dio che regna nel mondo, di vivere una umile corresponsabilità mediante la preghiera, la contemplazione tradotta in azione e studio sapienziale degli eventi, perché Cristo sia tutto in tutti.
+ Mario Toso
