SACRO CUORE: IL CUORE CHE REDIME, TRASFIGURA, UMANIZZA E DIVINIZZA
+ Mario Toso
Premessa: l’enciclica «Dilexit nos»
L’enciclica Dilexit nos di papa Francesco, l’ultima enciclica da lui scritta, è stata promulgata nell’ottobre 2024. Con tale enciclica papa Francesco ci parla della devozione al Cuore di Gesù, facendoci capire che ci introduce ad una contemplazione diretta di Cristo e della Trinità. L’unione con il cuore di Gesù ci immette nell’unione con la Trinità, con il Padre e lo Spirito santo, perché il cuore di Gesù è unito col cuore del Padre e dello Spirito santo.
Desiderando l’unione con il Cuore di Gesù, in definitiva, desideriamo l’unione cosciente ed attiva con la Trinità, nella quale abitiamo, alla quale noi naturalmente tendiamo. Perché? Ci risponde l’incipit delle Confessione di sant’Agostino: “Ci hai fatti per Te e inquieto è il nostro cuore finché non riposa in te” (Sant’Agostino, Le Confessioni, I,1,1). Noi abitiamo nella Trinità perché il Figlio di Dio, nel quale noi siamo, è da sempre nel seno del Padre, esiste al cospetto del Padre, persevera nella contemplazione dell’abisso paterno. Ricevendo in noi l’Amore del Cuore di Gesù viviamo ove Egli dimora, ossia nella Trinità, comunità del Figlio, del Padre e dello Spirito santo.
- I Pontefici
Come risulta dall’enciclica Dilexit nos (=DN),[1] mostrano un insegnamento costante, con il quale ci illustrano il collegamento della devozione al Sacro Cuore con la vita cristiana.
I pontefici da Leone XIII a Benedetto XVI ci hanno fatto capire che la vera devozione al Cuore di Gesù (cioè, una devozione che non scade nel devozionismo sdolcinato e, tantomeno, in uno spiritualismo disincarnato) è essenziale per la nostra vita cristiana in quanto realizza l’apertura piena di fede e di adorazione al mistero dell’amore divino e umano del Signore, tanto che si può affermare che il Sacro Cuore è una sintesi del Vangelo. L’amore del cuore di Gesù rappresenta la roccia su cui siamo chiamati a costruire la casa della nostra vita.
Per capire come dobbiamo intendere la devozione al Sacro Cuore è bene leggere le parole con cui papa Francesco ci spiega come siamo chiamati a adorare Gesù Cristo. La devozione al Cuore di Cristo non è il culto di un organo separato dalla Persona di Gesù. Ciò che «contempliamo e adoriamo è Gesù Cristo intero, il Figlio di Dio fatto uomo, rappresentato in una sua immagine dove è evidenziato il suo cuore umano e divino. In questo caso il cuore di carne è assunto come immagine o segno privilegiato del centro più intimo del Figlio incarnato e del suo amore insieme divino e umano, perché più di ogni altro membro del suo corpo è “l’indice naturale, ovvero il simbolo della sua immensa carità”».[2]
- Come adoriamo Cristo, il Cuore di Gesù?
Papa Francesco sottolinea che «ci relazioniamo con la Persona di Cristo, nell’amicizia e nell’adorazione, attratti dall’amore rappresentato nell’immagine del suo Cuore. Veneriamo tale immagine che lo rappresenta, ma l’adorazione è rivolta solo a Cristo vivo, nella sua divinità e in tutta la sua umanità, per lasciarci abbracciare dal suo amore umano e divino. Al di là dell’immagine utilizzata, è certo che il Cuore vivo di Cristo – mai un’immagine – è oggetto di adorazione, perché è parte del suo corpo santissimo e risorto, inseparabile dal Figlio di Dio che lo ha assunto per sempre. È adorato in quanto «Cuore della Persona del Verbo, al quale è inseparabilmente unito». Non lo adoriamo isolatamente, ma in quanto con questo Cuore è il Figlio stesso incarnato che vive, ama e riceve il nostro amore. Pertanto, ogni atto d’amore o adorazione del suo Cuore è in realtà «veramente e realmente tributato a Cristo stesso», poiché tale figura rimanda spontaneamente a Lui ed è «simbolo e immagine espressiva dell’infinita carità di Gesù Cristo».[3]
- Come attingere l’amore umano e divino dal cuore di Gesù?
A partire da un cuore credente, che ama, adora, chiede perdono e si offre a Gesù Cristo, al Padre, ossia a partire da un dialogo con il “tu” del Signore, con il “tu” di Dio, con il “noi” della Trinità. Figlio, Padre, Spirito santo sono un “noi” per me. Il nostro noi di persone umane, unito al tu di Gesù Cristo, un tu umano e divino, vive nel noi delle Persone divine.
In particolare, si parte dall’esperienza che solo il Signore che ci ama perdutamente ci offre trattandoci come un “tu” sempre e per sempre. Accettare la sua amicizia è una questione di cuore e ci costituisce come persone nel senso pieno del termine. Le persone, ce lo dice l’esperienza quotidiana, crescono come tali facendo della propria vita un dono. L’unione costante in Gesù ci costituisce come soggetti capaci di crescere come persone in pienezza.
San Bonaventura ci insegnava proprio che per entrare in comunione con Gesù Cristo si deve partire dall’esperienza del suo amore. Solo così ci si immette nella via del fuoco che conduce a Lui. Bonaventura insegnava che «la fede è nell’intelletto, in modo da provocare l’affetto. Per esempio: sapere che Cristo è morto per noi non rimane mera conoscenza, ma diventa necessariamente affetto, amore». In questa prospettiva, San John Henry Newman scelse come proprio motto la frase “Cor ad cor loquitur”, perché, al di là di ogni dialettica, il Signore ci salva parlando al nostro cuore dal suo Sacro Cuore. Questa stessa logica faceva sì che per il cardinale Newman il luogo dell’incontro più profondo con sé stesso e con il Signore non fosse la lettura o la riflessione, ma il dialogo orante, da cuore a cuore, con Cristo vivo e presente. Perciò il vescovo Newman, teologo e filosofo, trovava nell’Eucaristia il Cuore di Gesù vivo, capace di liberare, di dare senso ad ogni momento e di infondere nell’uomo la vera pace: «O santissimo ed amabilissimo Cuore di Gesù, tu sei nascosto nella santa Eucaristia, e qui palpiti sempre per noi. […] Io ti adoro con tutto il mio amore e con tutta la mia venerazione, col mio affetto fervente e con la mia volontà più sottomessa e risoluta. O mio Dio, quando tu vieni a me nella santa comunione e poni in me la tua dimora, fa’ che il mio cuore batta all’unisono col tuo. Purificalo da tutto ciò che è orgoglio e senso, che è durezza e crudeltà, da ogni perversità, da ogni disordine, da ogni tiepidezza. Riempilo talmente di te, che né gli avvenimenti quotidiani, né le circostanze della vita possano riuscire a sconvolgerlo, e nel tuo timore e nel tuo amore possa trovare la pace».[4]
Per quanto detto, si legge nella DN, nessuno dovrebbe pensare che questa devozione possa separarci o distrarci da Gesù Cristo e dal suo amore. In modo spontaneo e diretto ci indirizza a Lui e a Lui solo, che ci chiama a una preziosa amicizia fatta di dialogo, affetto, fiducia, adorazione. Questo Cristo dal cuore trafitto e ardente è lo stesso che è nato a Betlemme per amore; è quello che camminava per la Galilea guarendo, accarezzando, riversando misericordia; è quello che ci ha amati fino alla fine aprendo le braccia sulla croce. Infine, è lo stesso che è risorto e vive glorioso in mezzo a noi.[5]
- La devozione di Tommaso d’Aquino e di Edith Stein a Gesù Cristo Amore
San Tommaso d’Aquino, giunto verso il termine della sua vita terrena, aveva rinunciato a scrivere: venit finis scripturae meae, diceva. “È giunta la fine della mia scrittura”. Questa frase, riportata da un intervento diocesano su San Tommaso, indica il momento in cui Tommaso d’Aquino, nella sua vecchiaia, dopo una profonda esperienza mistica, dichiarò di non poter più scrivere, sentendo che ciò che aveva scritto sembrava ormai “paglia” rispetto a ciò che aveva contemplato. Ebbene, dopo di ciò, più di una volta lo trovarono con la testa poggiata sul tabernacolo. Confidava che faceva così per auscultare il battito del cuore di Gesù presente nelle sacre specie. A conclusione della sua vita di teologo – grande teologo perché grande filosofo – Tommaso d’Aquino, sacerdote e dottore della Chiesa ricercava un’intima unione con Gesù eucaristico.
Edith Stein, ebrea, convertita al cattolicesimo, filosofa, allieva di Husserl, divenuta Teresa Benedetta della Croce, morta nel campo di concentramento di Auschwitz, ove venne uccisa nella camera a gas, riteneva di poter attingere l’amore di Cristo stando ai piedi della sua croce. Secondo Edith Stein è ai piedi della Croce che si può attingere il suo Amore e apprendere la vera scienza dell’Amore.
- Un programma di vita: innanzitutto, essere cuore a cuore con Gesù Cristo per superare l’alienazione, per ridestare il nostro cuore alienato, assopito, sclerotizzato; per superare la malattia del nostro tempo, ossia la fatica del vivere; per non sfiorare appena Gesù ma per giungere a toccarlo con una fede profonda
In un contesto sociale e culturale che ci fa pensare con il pensiero altrui, costruito dall’intelligenza artificiale, per cui ci comportiamo come persone telecomandate, siamo chiamasti a uscire dall’ipnosi delle conoscenze costruite ed artefatte. Per uscire dal consumo seriale, dalla manipolazione e dalla schiavizzazione da parte di visioni costruite da altri, abbiamo bisogno di un sussulto che ci faccia destare dal sonno, dall’alienazione e metta in moto il nostro cuore, la coscienza di ciò che è più interiore in noi stessi, del centro di noi stessi, del nostro essere soggetto di conoscenza, di pensiero, per prendere in mano la nostra vita, le nostre scelte, le nostre convinzioni di fede.[6]
Cosa può provocare uno shock che ci desta e ci fa prendere coscienza di noi stessi, del nostro io libero e responsabile? Il percepirci come unità spirituale in relazione con la realtà, in comunione con altri centri interiori e spirituali, con altri cuori che si auto trascendono, si prendono in mano e decidono di relazionarsi, di donarsi agli altri, a Dio, sospinti da una intensa emotività di empatia. È la scossa emotiva della percezione del centro del nostro essere – uno e relato – che ci pone in relazione con noi stessi e con gli altri, di modo che giungiamo a coglierci come un «io» ed anche un «noi». Cosa, dunque, suscita in noi una percezione intensa del nostro essere? L’essere amati da Cristo con un amore indicibile! (cf Rm 8,37). Si tratta di un amore che nulla potrà mai separarci dal Figlio di Dio. Il cuore di Cristo ci aspetta senza condizioni, senza pretendere alcun requisito previo per poterci amare e per offrirci la sua amicizia: Egli ci ha amati per primo (cf 1 GV 4,10).
In breve, in una società liquida, dobbiamo ritornare al cuore, alla parte più profonda di noi, per superare sovradeterminazioni sociali e culturali esterne, in definitiva per conoscere noi stessi, in linea col motto del grande filosofo greco Socrate: «conosci te stesso». L’invito, però, dell’enciclica Dilexit nos di ritornare al cuore, non è solo invito a ritornare al nostro essere metafisico, antropologico. È, invece, invito a ritornare al cuore, ossia alla nostra capacità di conoscere ed amare, con la quale unifichiamo tutto il nostro essere, tutte le nostre azioni, tutte le nostre relazioni e organizziamo una condotta di vita che pone al centro il compimento umano in Dio. Dobbiamo tornare a porre al centro del nostro cuore Cristo crocifisso, unico garante dell’amore per l’altro, della vera pace, della dignità. La preghiera ci aiuta in questo.
- In secondo luogo: essere cuore a cuore con Cristo missionario per eccellenza per vivere in comunione con Lui, e tra di noi, come missionarigioiosi e coraggiosi, in modo comunitario.
Il dono dello Spirito Santo ci fa uscire dai nostri cenacoli autoreferenziali, dai nostri gruppi ove la condivisione delle nostre idee ci rinchiude sovente in orizzonti ristretti. Lo Spirito ci insegna nuove “lingue”, nuovi linguaggi, ci apre a nuovi orizzonti in cui annunciare e testimoniare le «grandi opere di Dio» (At 2,11). Ci sollecita a mettere insieme i talenti, i carismi a servizio della comunione e della missione per raggiungere tanti che sono lontani. In vista di ciò, camminiamo tutti insieme nella fedeltà al Vangelo, ricomponendo le frammentazioni, riparando, specie col perdono, le fenditure dell’imbarcazione in cui tutti ci troviamo. Tutti insieme siamo chiamati a ricostruire la credibilità di una Chiesa ferita, con un’umile corresponsabilità. L’autoreferenzialità in cui, singoli e associazioni spesso cadiamo, ci stacca dal Cuore di Cristo. Ci indebolisce come missionari. Diventiamo tralci staccati dalla vite.
Siamo Chiesa dinamica, vitale, bella ed attraente, perché attiva nella comunione tra di noi e nella missione.
«Non si deve pensare a questa missione di comunicare Cristo come se fosse solo una cosa tra me e Lui. La si vive in comunione con la propria comunità e con la Chiesa. Se ci allontaniamo dalla comunità, ci allontaneremo anche da Gesù. Se la dimentichiamo e non ci preoccupiamo per essa, la nostra amicizia con Gesù si raffredderà. Non va mai dimenticato questo segreto. L’amore per i fratelli della propria comunità – religiosa, parrocchiale, diocesana – è come un carburante che alimenta la nostra amicizia con Gesù. Gli atti d’amore verso i fratelli di comunità possono essere il modo migliore, o talvolta l’unico possibile, di esprimere agli altri l’amore di Gesù Cristo. L’ha detto il Signore stesso: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri”» (Gv 13,35).[7]
- In terzo luogo: essere cuore a cuore con Cristo per essere lievito di unità nel mondo
Il 6 giugno, papa Leone XIV, rivolgendosi ai moderatori e ai responsabili delle aggregazioni ecclesiali, ricevuti nella sala Clementina, li ha sollecitati a collaborare nell’essere lievito di unità nel mondo così lacerato dalla discordia e dalla violenza.
Ecco cosa ha detto papa Leone: «con la luce e la forza dello Spirito Santo, costruiamo una Chiesa fondata sull’amore di Dio e segno di unità, una Chiesa missionaria, che apre le braccia al mondo, che annuncia la Parola, che si lascia inquietare dalla storia, e che diventa lievito di concordia per l’umanità» (LeoneXIV, Omelia inizio ministero petrino, 18 maggio 2025).
In vista di essere missionari, lievito di unità corresponsabile, lo Spirito santo ci aiuti a superare la tentazione dell’autoreferenzialità. Nell’omelia della santa Messa delle sue prime ordinazioni presbiterali da papa, Leone XIV ha ricordato che «l’autoreferenzialità spegne il fuoco dello spirito missionario».[8] Se noi con le nostre associazioni, aggregazioni e movimenti camminiamo con deboli legami rispetto alla comunità parrocchiale, al Corpo di Cristo, ai pastori, rischiamo di perdere l’impulso missionario, di diventare di fatto indifferenti nei confronti delle esigenze del suo Vangelo. L’autoreferenzialità può portare addirittura a sostituirci allo stesso Gesù, a scavalcarlo. Il proprio carisma, invece, è ministeriale all’incontro con Cristo, alla crescita e alla maturazione umana e spirituale, all’edificazione della Chiesa, della comunità. Si capisce meglio, allora, quanto ancora ha detto papa Leone ai movimenti, alle aggregazioni ecclesiali e alle nuove comunità in piazza san Pietro: «Siate dunque legati profondamente a ciascuna delle Chiese particolari e delle comunità parrocchiali dove alimentate e spendete i vostri carismi. Attorno ai vostri vescovi e in sinergia con tutte le altre membra del Corpo di Cristo agiremo, allora, in armoniosa sintonia». La giusta cura per la propria associazione, per il proprio movimento, per il gruppo ministeriale, non può portare all’impoverimento della comunità parrocchiale, diocesana, in definitiva della Chiesa universale. Non può volere l’indebolimento dell’annuncio, dell’educazione alla fede, dell’evangelizzazione del sociale, di una spiritualità che si incarna, conscia della dimensione pubblica della fede.
Tutto il contrario.
Lo Spirito santo donatoci, ci fa vivere con maggiore intensità la comunione con Gesù Cristo, con il suo Corpo, nel quale siamo uno con il Figlio di Dio. Accresce l’ardore della missionarietà. Alimenta in tutte le componenti ecclesiali il desiderio di essere costruttori della comunione con Cristo, nella Chiesa e nelmondo. Abilita a strutturare l’armonia tra i vari soggetti ecclesiali, associativi o di partecipazione, in termini di umile complementarità nel servizio, perché nessuno è cristiano da solo.[9] Sospinge a rendere sempre più la Chiesa Sposa fedele di Cristo, del Cristo totale, che lavora per redimere tutti e tutto, integralmente.
- Essere cuore a cuore con Gesù per essere tutti, come singoli e come comunità cristiana, a servizio del Regno di Dio.
Cosa vuol dire? Essere a servizio del Regno di Dio, che orienta le persone, le relazioni e le istituzioni sia alla edificazione di una Chiesa unita a Cristo nella comunione e nella missione sia alla costruzione di una società orientata a creare le condizioni sociali che favoriscono il compimento umano in Dio, significa animare tutte le persone, le azioni, le istituzioni con lo Spirito di amore del Risorto. Detto altrimenti, la realizzazione del Regno di Dio, già iniziata dal Verbo incarnato, e che trascende tutti i regni della terra, richiede la ricezione della carità, virtù teologale, principio architettonico della nuova creazione. La carità la riceviamo e la alimentiamo stando cuore a cuore con Cristo, con il suo Amore. Vivendo nella comunità cristiana sperimentiamo una comunione e una missione che, mentre annunciano Gesù Cristo, redentore di ogni uomo, di tutto l’uomo, ci impegnano per le città degli uomini. Esse devono fin d’ora iniziare a somigliare alla città di Dio. La speranza, sorretta dall’amore di Dio riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo (cfr Rm 5,5), trasforma il cuore umanoin terra feconda, dove può germogliare la carità per la vita del mondo. La Tradizione della Chiesa riafferma costantemente una continua circolarità fra le tre virtù teologali: fede, speranza e carità. La speranza nasce dalla fede, che la alimenta e sostenta, sul fondamento della carità, che è la madre di tutte le virtù. La carità non è una promessa. È una realtà a cui guardiamo con gioia e responsabilità: ci coinvolge, orientando le nostre decisioni al bene comune, alla realizzazione del Regno di Dio. Chi manca di carità non solo manca di fede e di speranza, ma toglie speranza al suo prossimo. Toglie energie nuove e superiori all’impegno di costruzione di una civiltà dell’amore.
Tutte le componenti ecclesiali sono chiamate al servizio del Regno secondo il proprio carisma.
Esse svolgono servizi diversi ma sono tutte preziose agli occhi di Dio e nella realizzazione del suo progetto.
Nella preghiera detta “sacerdotale”, come sappiamo, Gesù ha chiesto al Padre che i suoi siano una cosa sola (cf Gv 17,20-23). Il Signore sa bene che solo unitia Lui e uniti tra di noi possiamo portare frutto e dare al mondo una testimonianza credibile.
Se la comunione va vissuta con carismi diversi, con percorsi di formazione differenti e anche con servizi differenti, unico e comune dev’essere lo sforzo per sostenerla. Camminare insieme è sempre garanzia di fedeltà al Vangelo; insieme e in armonia, cercando di arricchire la Chiesa con il proprio carisma ma avendo a cuore l’essere l’unico corpo di cui Cristo è il Capo.
- Cuore a cuore con Cristo per istituire, animare istituzioni di pace, istituzioni capaci di concorrere al superamento efficace delle piaghe della povertà, della fame, del progressivo degrado degli ecosistemi, del debito estero ed ecologico, della guerra
Per noi credenti, che viviamo in un contesto di terza guerra mondiale a pezzi, a fronte dei molteplici problemi della povertà, della fame, della siccità, del degrado degli ecosistemi, della crescita disordinata delle migrazioni, della carenza della solidarietà intergenerazionale, come ha rilevato la bolla giubilare Spes non confundit,[10] si pone con urgenza il compito di innalzare istituzioni di pace. Sono importanti le marce e le manifestazioni a favore della pace, ma sono ancora troppo poco rispetto ad una società nazionale e mondiale ordinata sui grandi pilastri che sorreggono la casa della pace: libertà, verità, amore, giustizia.
Solo a partire dal cuore di Cristo crocifisso, solo camminando uniti al suo Cuore – che è estasi, uscita e dono totale, incontro – diventiamo capaci di relazionarci in modo sano e felice e di realizzare le istanze spirituali e morali del Giubileo della speranza 2025, costruendo in questo mondo, per quanto possibile, il Regno di Dio, regno di giustizia e di pace. Solo il nostro cuore unito a quello di Cristo è capace di compiere dei «miracoli sociali»,[11] che lo stesso Messaggio per la pace “Rimetti a noi i nostri debiti, concedi la pace” ci suggerisce di realizzare.
L’amore di Cristo, a noi partecipato, ci mette in marcia verso un’umanità in pienezza. Siamo chiamati non a qualcosa di astratto, di etereo, bensì verso Gesù Cristo, che è l’insuperabile assoluto umano di Dio! Con noi e attraverso di noi avanzano, verso il Cristo glorioso, tutte le creature.[12] Tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, vengono ricondotte a Cristo, ricapitolate in Lui, unico capo, mediante la ricchezza della sua grazia-amore che è stata riversata in noi dal suo Spirito (cf Ef 1,10).
Nella nostra esistenza terrena, contrassegnata da ingiustizie, conflitti, diseguaglianze, prevaricazioni sui più deboli, sfruttamenti delle risorse umane e naturali dei Paesi più poveri, trattamenti disumani delle persone migranti, non possiamo limitarci ad aspettare. Dobbiamo annunciare, organizzare, costruire la speranza, istituzioni di pace! Come pellegrini della speranza, che è Cristo Gesù, proprio per essere segni efficaci e luminosi di speranza, dobbiamo tracciare e concretizzare cammini di speranza per tutti. Tocca a tutti organizzare la speranza e tradurla nella quotidianità, nei rapporti umani, nei legami con il pianeta, nell’impegno sociale e politico. Ciò è concretamente possibile deponendo un linguaggio di odio,[13] parlare di «cuore» e educando il «cuore».
Infatti, le persone costruiscono la loro vita a partire dal cuore, che consente di coesistere con gli altri cuori, di riconoscersi come dei «tu» entro un «noi» di cuori.[14] Nel cuore di ogni persona si produce una stretta connessione tra la valorizzazione di sé e l’apertura agli altri, tra l’incontro personalissimo con sé stessi e il dono di sé agli altri. Si diventa sé stessi quando si acquista la capacità di riconoscere l’altro, e si incontra con l’altro chi è in grado di riconoscere e accettare la propria identità.[15] È il cuore che ci fa riconoscere gli altri come identità spirituali, come degli «io» distinti e, nello stesso tempo, come esseri interi, fatti di anima e corpo, soggetti liberi e responsabili, strutturati a tu. È il cuore che ci mette in comunione con le altre persone e ce le fa amare come centri di amore, secondo la verità dell’essere globale della nostra persona, vivente come sinolo di anima e di corpo.[16] «Il “cuore” ascolta in modo non metaforico “la silenziosa voce” dell’essere, lasciandosi temperare e determinare da essa».[17] Il cuore coglie i nostri legami, rende possibili vere e sane relazioni favorendo l’apertura agli altri; supera la frammentazione degli individualismi, ci fa diventare noi stessi assieme agli altri, assieme a Dio, vivendo in una comunità fraterna.
Chi intende parlare del «cuore», centro della persona, che vive Cristo, unito a Cristo, che si sente chiamata a vivere in maniera cristo conforme, ossia secondo la totalità di Cristo che si incarna e ricapitola in sé tutte le cose con il suo amore; chi intende educare il credente a partecipare all’opera di redenzione globale realizzata da Cristo non può non educarlo alla dimensione sociale della fede, all’appartenenza a Cristo e alla sua Chiesa, avente la missione di annunciarlo e di testimoniarlo come Colui che fa nuove tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra.
Celebrare il Giubileo, significa sentirsi chiamati a rompere le catene dell’ingiustizia, a porre condizioni di uguaglianza. Ma, prima ancora, significa riconoscere l’errore di negare di avere un unico Padre, Dio, che destina i beni della terra a tutti. Ignorare di avere un unico Padre porta a negare la fraternità tra gli uomini, la destinazione universale dei beni, la solidarietà e, quindi, i nostri debiti e i nostri doveri di giustizia. Porta alla mancanza sia di gratitudine nei confronti di Dio sia di responsabilità nei confronti dei propri fratelli. È spalancata la porta dello sfruttamento dei propri fratelli, della crisi del debito estero dei Paesi più poveri[18] sulle cui spalle pesa talvolta il peso del debito ecologico dei Paesi più sviluppati.[19] È chiedendo perdono a Dio, mediante conversione, che poniamo le condizioni per riconoscere la fraternità tra i popoli, per rimuovere le ingiustizie e le diseguaglianze. Papa Benedetto insegnava che «convertirsi significa cambiare direzione nel cammino della vita: non, però, con un piccolo aggiustamento, ma con una vera e propria inversione di marcia. Conversione è andare controcorrente, dove la “corrente” è lo stile di vita superficiale, incoerente ed illusorio, che spesso ci trascina, ci domina e ci rende schiavi del male o comunque prigionieri della mediocrità morale. Con la conversione, invece, si punta alla misura alta della vita cristiana, ci si affida al Vangelo vivente e personale, che è Cristo Gesù. È la sua Persona la meta finale e il senso profondo della conversione. È Lui la via sulla quale tutti sono chiamati a camminare nella vita, lasciandoci illuminare dalla sua luce e sostenere dalla sua forza che muove i nostri passi».[20]
C’è bisogno di un cambiamento spirituale e culturale. In una simile situazione, quella della crisi del debito, dobbiamo riconoscere che siamo tutti debitori, che abbiamo doveri di giustizia. Tutti, Paesi ricchi e Paesi poveri, sono chiamati a riconoscersi debitori gli uni degli altri. La crisi del debito, che può essere considerata una «struttura di peccato» – implicante una logica di sfruttamento del debitore, ove il più forte pretende di avere il diritto di prevaricare sul più debole -, potrà essere superata quando ci si riconoscerà finalmente tutti figli del Padre e, davanti a Lui, ci si confesserà tutti debitori, ma anche tutti necessari l’uno all’altro, secondo una logica condivisa e diversificata. Solo allora potremo scoprire una volta per tutte che abbiamo bisogno e siamo debitori gli uni degli altri.[21] Il cambiamento spirituale e culturale comanderà il cambiamento delle «strutture di peccato» sulle quali scrisse san Giovanni Paolo II nell’enciclica Sollicitudo rei socialis.[22]
Col cambiamento spirituale e culturale papa Francesco suggerisce vari cammini di azione, come altrettanti percorsi di speranza, che possono ridare dignità alla vita di intere popolazioni e rimetterle in cammino sulla via della speranza. Tra i percorsi importanti di speranza da attuate papa Francesco indica: la consistente riduzione se non il totale condono del debito estero e del debito ecologico; la promozione, ferma ed ampia, di una cultura della vita e della speranza, attraverso in particolare, il rispetto della dignità della vita umana dal concepimento alla morte naturale e l’eliminazione della pena di morte; la costituzione di un Fondo mondiale che elimini definitivamente la fame e faciliti nei Paesi più poveri attività educative e volte a promuovere lo sviluppo sostenibile, contrastando il cambiamento climatico.
Papa Francesco reputa che le azioni suggerite, qualora messe in atto, possano rendere più vicina l’agognata meta della pace.[23] Quando, oltre a quelli appena sopra elencati, si aprono altri sentieri di speranza – come, ad esempio: la cessazione dell’aggressione di altri Paesi e l’apertura di trattative di pace, l’eliminazione di tante situazioni di sfruttamento della terra e del trattamento disumano delle persone migranti, forme di amnistia o indulto per restituire speranza ai detenuti,[24] il superamento della crisi della democrazia che ha il cuore ferito,[25] l’amore politico che non si accontenta di curare gli effetti ma cerca di affrontare le cause,[26] la creazione di un’Agenzia internazionale per l’IA che ne promuova le applicazioni pacifiche nei vari contesti civili, perché non siano sostituite le capacità dell’uomo anziché aumentarle, per ridurre effettivamente le diseguaglianze -,[27] si può contribuire al ristabilimento della giustizia e della pace. Senza dubbio anche la recente proposta di istituire in Italia un Ministero della Pace da parte di diversi soggetti della società civile può essere considerato un sentiero di pace, un’importante azione di organizzazione della pace.[28]
Ma non va dimenticato che la vera pace può nascere solo da un cuore disarmato: «un cuore che non si impunta a calcolare ciò che è mio e ciò che è tuo; un cuore che scioglie l’egoismo nella prontezza ad andare incontro agli altri; un cuore che non esita a riconoscersi debitore nei confronti di Dio e per questo è pronto a rimettere i debiti che opprimono il prossimo; un cuore che supera lo sconforto per il futuro con la speranza che ogni persona è una risorsa per questo mondo».[29]
- A mo’ di conclusione: la carità il più grande comandamento sociale
Leone XIV, nel Messaggio per la Giornata mondiale dei poveri, che si celebrerà il prossimo 16 novembre 2025 sul tema Sei tu, mio Signore, la mia speranza (Sal 71,5) ci ricorda che la carità, rispetto ai grandi problemi che affliggono il mondo, rappresenta il più grande comandamento sociale. È a partire da un cuore infiammato di amore come quello del Signore Gesù che riusciamo a creare incessantemente nuovi segni di speranza, che testimoniano la carità cristiana, come fecero molti santi e sante in ogni epoca.
Segni di speranza diventano oggi le case-famiglia, le comunità per minori, i centri di ascolto e di accoglienza, le mense per i poveri, i dormitori, le scuole popolari. Ma sono tanti i segni spesso nascosti, ai quali forse non badiamo, eppure così importanti per l’edificazione della pace per scrollarci di dosso l’indifferenza e per porre in atto diverse forme di umanizzazione mediante l’evangelizzazione, l’istruzione, l’educazione, l’aiuto solidale, la catechesi, il volontariato della Caritas. Incontriamo persone povere o impoverite ogni giorno e a volte può accadere che siamo noi stessi ad avere meno, a perdere ciò che un tempo ci pareva sicuro: un’abitazione, il cibo adeguato a una giornata, l’accesso alle cure, un buon livello di istruzione e di informazione, la libertà religiosa e di espressione.
Aiutare il povero è questione di giustizia, prima che di carità”, spiega papa Leone XIV, auspicando che il Giubileo “possa incentivare lo sviluppo di politiche di contrasto alle antiche e nuove forme di povertà, oltre a nuove iniziative di sostegno e aiuto ai più poveri tra i poveri.
Quale conclusione, allora?
Apriamo il cuore e gli occhi: scorgiamo nelle molte opere già in atto un luogo ove vivere col Cuore di Gesù per accrescere il Regno di Dio. È questa la via per rendere più stabili le istituzioni di pace nelle quali viviamo, per renderle più vitali ed efficaci, secondo le urgenze odierne, mentre viviamo in un contesto di terza guerra mondiale a pezzi. Sono Istituzioni di pace gli stessi monasteri di clausura ove persone consacrate sono dedite costantemente ad accompagnare i fratelli e le sorelle che operano nel mondo perché non cessino di mettere al centro del loro cuore l’amore di Cristo.[30] Sono istituzioni di pace le nostre stesse parrocchie, le scuole professionali, le nostre aggregazioni, associazioni, i movimenti, le nostre stesse Diocesi. Sono istituzioni di pace i momenti formativi stabili, che sono organizzati dalle Scuole di formazione all’impegno sociale e politico, muovendo da quel sapere sapienziale che la Chiesa, mediante i pontefici, enuclea rispetto all’emergere delle res novae.
PREGHIERA AL SACRO CUORE DI PAPA LEONE XIV
Signore, oggi vengo al tuo cuore:
da te che hai parole che mi infiammano d’amore,
da te che riversi compassione sui piccoli e sui poveri,
su coloro che soffrono e su tutte le miserie umane.
Desidero conoscerti di più, contemplarti nel Vangelo,
stare con te e imparare da te
e dalla carità con cui ti sei lasciato toccare
da ogni forma di povertà.
Ci hai mostrato l’amore del Padre amandoci senza misura
con il tuo cuore, divino e umano.
Concedi a tutti i tuoi figli la grazia dell’incontro con te.
Cambia, plasma e trasforma i nostri piani,
affinché possiamo cercare solo te, in ogni circostanza:
nella preghiera, nel lavoro, negli incontri e nella nostra routine quotidiana.
Da questo incontro, mandaci in missione:
una missione di compassione per il mondo,
dove tu sei la fonte da cui scaturisce ogni consolazione.
Amen.
[1] FRANCESCO, Dilexit nos, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2024.
[2] DN 48.
[3] DN 49-50. Va notato che l’immagine di Cristo con il suo cuore, pur non essendo in alcun modo oggetto di adorazione, non è una tra le tante che potremmo scegliere. C’è un’esperienza umana universale che rende unica tale immagine. È indubitabile, infatti, che nel corso della storia e in varie parti del mondo il cuore sia diventato simbolo dell’intimità più personale e anche degli affetti, delle emozioni, della capacità di amare. Al di là di ogni spiegazione scientifica, una mano posata sul cuore di un amico esprime un affetto speciale; quando ci si innamora e si sta vicino alla persona amata, il battito del cuore accelera; quando si subisce l’abbandono o l’inganno da parte di una persona cara, si sente come una forte oppressione sul cuore. […] È quindi inevitabile che attraverso la storia il cuore abbia raggiunto una capacità simbolica unica, non meramente convenzionale. Si comprende allora che la Chiesa abbia scelto l’immagine del cuore per rappresentare l’amore umano e divino di Gesù Cristo e il nucleo più intimo della sua Persona. Tuttavia, benché il disegno di un cuore con fiamme di fuoco possa essere un simbolo eloquente che ci ricorda l’amore di Gesù, è conveniente che questo cuore faccia parte di un’immagine di Gesù Cristo. In tal modo risulta ancora più significativa la sua chiamata a una relazione personale, di incontro e di dialogo (cf DN 52-54).
[4] DN 26.
[5] Cf DN 51.
[6] Cf DN 9.
[7] DN 212.
[8] LEONE XIV, Omelia, sabato 31 maggio 2025.
[9] «La vita cristiana non si vive nell’isolamento, come se fosse un’avventura intellettuale o sentimentale, confinata nella nostra mente e nel nostro cuore. Si vive con gli altri, in un gruppo, in una comunità, perché Cristo risorto si rende presente fra i discepoli riuniti nel suo nome» (Leone XIV, Ai moderatori delle associazioni dei fedeli, dei movimenti ecclesiale delle nuove comunità 6 giugno 2025).
[10] FRANCESCO, Spes non confundit, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2024.
[11] Cf DN, nn. 28-29.
[12] Cf DN, n. 31.
[13] Cf Antonio nicita, Nell’età dell’odio. La democrazia diviene vulnerabile se è inquinata dall’intolleranza, Il Mulino, Bologna 2025,
[14] Cf DN, n. 12.
[15] Cf DN, n. 18.
[16] Cf DN, nn. 14-16. È a questo punto, ossia quello del cuore come ciò che ci consente di cogliere il centro delle persone, la realtà tutt’intera della persona, in quanto essere corporeo e spirituale, è su questo piano, quello del cuore che non esclude, anzi implica una connessione con la verità dell’essere, che troviamo la continuità tra il magistero sociale di Benedetto XVI, autore dell’enciclica Caritas in veritate, e il magistero sociale di papa Francesco che scrive l’enciclica Dilexit nos.
[17] DN, n. 16.
[18] Il problema del debito affligge in particolare molti Paesi del sud globale. Affligge milioni di famiglie e di persone nel mondo. Parlando della crisi del debito, papa Francesco, il 5 giugno 2024 ebbe a dire: «Ai popoli non serve un finanziamento qualsiasi, ma quello che implica una responsabilità condivisa tra chi lo riceve e chi lo concede. Il beneficio che questo può apportare a una società dipende dalle sue condizioni, da come viene usato e dagli ambiti in cui si risolvono le crisi dei debiti che possono prodursi. Dopo una globalizzazione mal gestita, dopo la pandemia e le guerre, ci troviamo di fronte a una crisi del debito che colpisce soprattutto i Paesi del sud del mondo, generando miseria e angoscia, e privando milioni di persone della possibilità di un futuro dignitoso. Di conseguenza, nessun governo può esigere moralmente dal suo popolo che subisca privazioni incompatibili con la dignità umana. Per cercare di rompere il circolo finanziamento-debito sarebbe necessaria la creazione di un meccanismo multinazionale, basato sulla solidarietà e sull’armonia tra i popoli, che tenga conto del significato globale del problema e delle sue implicazioni economiche, finanziarie e sociali. L’assenza di tale meccanismo favorisce il “si salvi chi può”, dove a perdere sono sempre i più deboli» (Francesco, Discorso ai partecipanti all’Incontro “Debt Crisis in the Global South”, 5 giugno 2024).
[19] In generale, il debito ecologico fa riferimento, in termini di obbligazione e responsabilità, a quanto i Paesi industrializzati, o Nord del mondo, hanno accumulato nei confronti dei Paesi in via di sviluppo, o Sud del mondo, per aver sfruttato le loro risorse naturali e aver contribuito in modo determinante al loro degrado ambientale e sociale. Su questo ha scritto l’enciclica Laudato sì’ (cf nn. 51-52) come anche l’esortazione apostolica Laudate Deum (4 ottobre 2023), che ha evidenziato sia la debolezza della politica internazionale sia i progressi e i fallimenti delle Conferenze sul clima.
[20] Benedetto XVI, Udienza generale, 17 febbraio 2010; corsivo non presente nel testo originale.
[21] Cf Francesco, Messaggio per la giornata mondiale della pace 1° gennaio 2025, n. 8.
[22] Cf Giovanni paolo ii, Sollicitudo rei sociallis, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1987, nn. 35-37. Le «strutture di peccato» o i peccati sociali si radicano nei peccati personali e, quindi, sono sempre collegati ad atti concreti delle persone che, da sole o in gruppo, li introducono, li consolidano, li rendono difficili da rimuovere. E così si rafforzano, si diffondono e diventano sorgente di altri peccati, condizionando la condotta degli uomini.
[23] Una puntuale e pregnante traduzione delle istanze spirituali, pastorali, sociali, culturali, pedagogiche dell’Anno Giubilare 2025, specie con riferimento alla Diocesi di Milano, è rappresentata dal Discorso alla città, tenuto nella Basilica di sant’Ambrogio (Milano, 6 dicembre 2024) dall’arcivescovo Mario Delpini (cf Lasciate riposare la terra. Il Giubileo 2025, tempo propizio per una società amica del futuro, Boniardi grafiche, Milano 2024).
[24] Cf Francesco, Spes non confundit, n. 10: «Nell’Anno giubilare saremo chiamati ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio. Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto. Propongo ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi». Il richiamo è rivolto ai governi di tutto il mondo. Nell’ordinamento italiano esistono proprio i due istituti indicati da papa Francesco, l’amnistia e l’indulto. L’amnistia (art. 151 del Codice penale e art. 79 della Costituzione) estingue il reato. Mentre l’indulto (art. 174 Codice penale) condona in tutto o in parte la pena inflitta oppure la commuta in un’altra specie di pena. Infine, ci può essere la grazia che, si potrebbe dire, è come un indulto, ma ha un valore particolare, ossia riguarda un solo soggetto o più soggetti, ma non tutti i rei. Alle parole di papa Francesco sulle condizioni delle carceri ha fatto eco il Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella che nel suo Messaggio di fine anno ha richiamato «il dovere del rispetto della dignità di ogni persona umana, dei suoi diritti, anche per chi si trova in carcere. L’alto numero dei suicidi è indice di condizioni inammissibili». «Abbiamo il dovere – ha proseguito Mattarella – di osservare la Costituzione che indica norme imprescindibili sulla detenzione in carcere. Il sovraffollamento vi contrasta e rende inaccettabili anche le condizioni di lavoro del personale penitenziario. I detenuti devono poter respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità e al crimine. Su questo sono impegnati generosi operatori, che meritano di essere sostenuti». Poco tempo dopo le parole del Presidente Mattarella la Presidenza della CEI ha emesso la seguente Nota: «Esprimiamo profonda gratitudine al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per le parole che ha rivolto al Paese nel Messaggio di fine anno. È un’occasione per rinnovargli la nostra riconoscenza per il suo servizio di custode e garante della democrazia e dei valori della nostra Repubblica e dell’Europa. Lo ringraziamo, in particolare, per aver ricordato le tante povertà che segnano il nostro tempo e le nostre comunità. Tra queste, la drammatica situazione delle carceri che impone un ripensamento radicale del sistema penitenziario. “Abbiamo il dovere – ha sottolineato il Presidente – di osservare la Costituzione che indica norme imprescindibili sulla detenzione in carcere. Il sovraffollamento vi contrasta e rende inaccettabili anche le condizioni di lavoro del personale penitenziario. I detenuti devono potere respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità e al crimine”. Attualmente, i 189 Istituti italiani ospitano 61.246 persone su una capienza di 51.230 posti. L’indice di sovraffollamento, pari a 130,44%, e i suicidi, sempre più numerosi, chiedono ascolto: la disperazione non può avere come risposta l’indifferenza. Serve uno sforzo collettivo per assicurare condizioni dignitose a quanti vengono privati della libertà e per offrire percorsi adeguati perché la detenzione sia un’occasione di rieducazione e redenzione. Per garantire sicurezza, c’è bisogno di giustizia, non di giustizialismo. Esistono misure alternative che, oltre a prevenire la reiterazione di un reato, salvaguardano l’umanità e favoriscono il reinserimento nella società: se ben proporzionate e gestite con saggezza, sono in grado di produrre un cambiamento e di guardare al futuro. Non si tratta di scorciatoie o concessioni buoniste, ma di un vero dovere costituzionale e, per i cristiani, di un atto di amore. Occorrono però strumenti e finanziamenti mirati ed efficaci, lavoro, collaborazione degli enti locali e dell’amministrazione penitenziaria. Esperienze bellissime, diffuse sul territorio, dimostrano che un’altra realtà esiste, che il traguardo della “recidiva zero” è possibile. È una sfida da affrontare insieme: Istituzioni, società civile, comunità ecclesiale, con il supporto del mondo del volontariato, fondamentale anche nel fare cultura fuori da pregiudizi e distorsioni. A pochi giorni dall’apertura del Giubileo e della Porta Santa nel carcere di Rebibbia, a Roma, ripetiamo l’appello che Papa Francesco ha lanciato nella bolla di indizione Spes non confundit: “Propongo ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”. È necessario mettersi in ascolto e dare dignità al grido degli ultimi: come Chiesa in Italia continuiamo a camminare con i fratelli che hanno sbagliato, con amore, perché questo ci fa riconoscere nell’altro la persona che è sempre degna della nostra compassione. La Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana»
[25] Cf Francesco, Al cuore della democrazia, Libreria Editrice Vaticana-Il Piccolo, Noventa Padovana 2024.
[26] Cf Francesco, Discorso presso il Centro Congressi “Generali Convention Center” di Trieste (domenica, 7 luglio 2024), in M. Toso, Chiesa e democrazia, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa, Roma 20252, pp. 329-338.
[27] Cf Francesco, La speranza non delude mai. Pellegrini verso un mondo migliore, Piemme, Milano 2024, p. 158.
[28] Su questo torna utile leggere l’editoriale del professor Stefano Zamagni Organizzare subito la pace in «Avvenire», domenica 22 giugno 2025. In tale editoriale Stefano Zamagni tratteggia alcuni compiti specifici di tale futuro Ministero, che non escluderebbe, a suo dire, il Ministero della Difesa.
[29] Francesco, Messaggio per la giornata mondiale della pace 1° gennaio 2025, n. 13.
[30] Cf Lettera di Giorgio La Pira ad Andreotti in L. Sapienza-R. Rotondo (a cura di), Ponti di pace. Giulio Andreotti e Giorgio La Pira. Il carteggio inedito, Prefazione del cardinale Gualtiero Bassetti, Edizioni Vivere In, Bari 2017, p. 27.