OMELIA per la Festa di SAN GIUSEPPE LAVORATORE

Faenza - Chiesa di San Giuseppe Artigiano, 1 maggio 2015
01-05-2015

Festeggiare san Giuseppe artigiano ci consente di riflettere sul lavoro umano in un contesto in cui scarseggia e se ne perde sempre più il senso e la valenza. Il lavoro, apprendiamo dalla prima lettura tratta dal Libro della Genesi, fa parte della condizione originaria dell’uomo, precede la sua caduta, e non è una punizione o una maledizione. Ben al contrario, è attività che assimila l’uomo a Dio, che durante sei giorni ha “lavorato” per l’opera della creazione ed ha riposato il settimo (cf Gn 2,2). L’uomo, creato ad immagine di Dio, è chiamato ad imitarlo. La Genesi pone per ultimo la creazione dell’uomo e della donna, ai quali Dio comanda: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Gn 1,28).

«Soggiogare» e «dominare» sono due verbi che si prestano a fraintendimenti. Potrebbero giustificare un dominio dispotico e sfrenato, che, anziché curarsi della terra e dei suoi frutti, ne faccia scempio. In realtà, è la stessa Genesi a spiegare come vada svolto questo compito: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gn 2,15). Adamo ed Eva, l’uomo e la donna – cioè l’umanità nell’unità e nella complementarità delle sue componenti –, sono così chiamati a «dominare» la creazione custodendola, coltivandola, sviluppandone le potenzialità in maniera sostenibile.

Mediante il lavoro, l’uomo governa il mondo con Dio, assurgendo al ruolo di suo stretto collaboratore, e compie, secondo le proprie capacità, cose buone per sé e per gli altri. La specificità della creazione è di essere e rimanere un dono per tutti i popoli, per tutte le generazioni. Il primo comando di Dio, per conseguenza, impone di conservare e di coltivare la terra, nel rispetto della sua natura di dono e benedizione, affinché serva e resti a disposizione di ogni uomo. In un tempo in cui si inaugura a Milano l’EXPO e gli stessi vertici della FAO sottolineano il pericolo di neocolonialismi alimentari, di espansione di neolatifondi ottenuti soprattutto tramite land grabbing a spese delle popolazioni più povere, emerge chiaro dalla parola di Dio che la terra non può e non deve essere trasformata in proprietà per pochi, in strumento di potere o in motivo di divisione e di angoscia. Il diritto-dovere della persona umana di «dominare» la terra deriva dal suo essere a somiglianza di Dio. Purtroppo, il peccato originale, da cui nessuno di noi è immune, ferisce la terra e la fa soffrire, «condizionando» il piano di Dio, impedendogli di realizzarsi.

Il profeta Osea descriveva nel suo tempo una situazione che sembra appartenere ai nostri giorni: «Si spergiura, si dice il falso, si uccide, si ruba, si commette adulterio, tutto questo dilaga e si versa sangue su sangue. Per questo è in lutto il Paese e chiunque vi abita langue, insieme con gli animali selvatici e con gli uccelli del cielo; persino i pesci del mare periscono» (Osea 4, 2-3).

La terra e il lavoro umano hanno urgente bisogno di redenzione per riacquistare il loro senso originario, il loro valore. Il nostro pianeta dev’essere «casa per tutti», che accoglie e nutre i suoi abitanti. Il lavoro non può ridursi a mero strumento di sfruttamento indiscriminato delle risorse del globo e tantomeno ad attività che dilapidano e sperperano un patrimonio che non appartiene solamente alla presente generazione. Non va dimenticato, inoltre, che oggi, più di ogni altro lavoro viene esaltata una speculazione sfrenata, sempre più staccata dalla responsabilità sociale e dalla sicurezza alimentare dei popoli.

Non di rado, il lavoro manuale e produttivo è disprezzato rispetto alle molteplici attività speculative. È ritenuto una variabile dipendente dei meccanismi finanziari e monetari, e un mezzo marginale rispetto alla produzione della ricchezza delle Nazioni.

San Giuseppe artigiano, che con la sua attività lavorativa contribuisce alla crescita del Figlio di Dio a lui affidato, e Gesù stesso «carpentiere», come ci informa il Vangelo odierno di Marco, ci aiutano a rivalorizzare lo spessore antropologico ed etico del lavoro. Gesù giunge addirittura a descrivere la sua missione come un lavoro. «Il Padre mio opera sino ad ora, ed anch’io opero» (Gv 5,17). Il lavoro, in definitiva, ha anche un senso religioso, una valenza salvifica. Non vale solo per quanto produce per se stessi e la società, ma soprattutto perché, suo mediante, si collabora con l’opera creatrice e redentrice di Dio.

Care lavoratrici, cari lavoratori, è questo il lavoro che dobbiamo realizzare e festeggiare, specie diventando protagonisti di una nuova evangelizzazione del sociale, di un nuovo umanesimo del lavoro.

È mediate il lavoro che ci si dignifica, ci si personalizza, ci si socializza, si concorre alla realizzazione della pace e del bene comune. Il lavoro consente di formare una famiglia. È antidoto alla povertà. È titolo di partecipazione. Nessuno deve essere escluso dal lavoro. Dobbiamo dire chiaramente che il lavoro, oltre che un dovere, è un diritto di tutti.

San Paolo ‘ che aveva affermato: «Chi non lavora neppure mangi» ‘ annuncia la speranza della terra di essere redenta da Cristo. E questo può avvenire soltanto mediante un lavoro umano vissuto nel Verbo di Dio, il Logos. Ciascun lavoratore, afferma sant’Ambrogio, è la mano di Cristo che continua a creare (cf Ambrogio, De obitu Valentiniani consolatio, 62; PG 7, 1210), e a redimere, trasfigurando, portando a compimento la «nuova creazione». Nel suo sforzo lavorativo l’uomo, che in Cristo partecipa dell’arte e della saggezza divine, rende più bello il creato, il kósmos, già ordinato dal Padre (cf Ireneo, Adversus Haereses, 5,32,2: PG 7, 1210), che lo destina a tutti, facendo sì che ogni figlio di Dio possa accedere ai beni necessari e sufficienti per vivere secondo dignità e libertà.

Specie di fronte a chi è povero e senza lavoro, il credente non può essere sordo. Deve sentirsi convocato ad operare, memore dell’insegnamento di Cristo: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mc 6,37); «Ebbi fame e mi avete dato da mangiare» (Mt 25,42). Ciò implica l’impegno, sia a livello di collaborazione per risolvere lo sviluppo integrale della parte più disagiata della società, sia i gesti più semplici e quotidiani di solidarietà di fronte alle miserie molto concrete che incontriamo ogni giorno.

Il cristiano, come va ripetendo papa Francesco, non deve limitarsi a dar da mangiare a chi ha fame mediante un’azione caritativa o piani assistenziali. Deve lavorare, assieme ad altri cristiani e uomini di buona volontà, per creare opportunità di lavoro, per liberare il lavoro schiavo, perché la classe dirigente assuma le sue responsabilità di soggetto di politiche attive del lavoro per tutti.

Cari fratelli e sorelle, dobbiamo essere degni fratelli di quei cattolici che, qui a Faenza, all’inizio del secolo scorso, decisero di mettere in campo tutte le loro energie spirituali, culturali e pedagogiche per sconfiggere una concezione del lavoro ridotto a merce, e per favorire la promozione sociale dei lavoratori, avviando nuove iniziative volte al superamento delle opere caritative di Patronato. Il loro intento era di passare a un coinvolgimento organizzativo e istituzionale dei più poveri, delle classi che si aiutavano (cf P. Baccarini, I sindaci di Faenza. Antonio Zucchini fra religiosità e politica 1891-1971, Edit. Faenza, Faenza 2015, p. 27).

È quanto, sia pure in circostanze diverse, ci viene richiesto oggi, al fine di includere nel mercato e nella democrazia coloro che una cultura, idolatra delle cose, sospinge o mantiene ai margini della società.

A Giuseppe di Nazaret, che insegnò a Gesù il mestiere di carpentiere, affidiamo il nostro impegno di testimoni credibili del «Vangelo del lavoro».