OMELIA per il XV di ORDINAZIONE EPISCOPALE

Faenza, Basilica Cattedrale 15 gennaio 2006
15-01-2006

Ringrazio Mons. Vicario Generale per questa messa di ringraziamento in occasione del quindicesimo anniversario della mia ordinazione episcopale, e ringrazio quanti hanno voluto partecipare nella preghiera.
La parola di Dio ci ha fatto entrare nel mistero di Dio che chiama. Dio chiama tutti alla vita di figli; poi qualcuno è chiamato a mettersi a servizio del suo popolo nel ministero ordinato, o ad essere un segno del Regno nella vita consacrata; ma deve essere chiaro che tutti dobbiamo percepire la vita come una risposta ad una chiamata. Solo così ci apriremo a considerare la vita come un dono e il servizio come l’uso riconoscente del dono.
Abbiamo sentito l’evangelista Giovanni raccontare la chiamata sua e dell’amico Andrea, a diventare apostoli, in seguito ad una indicazione esplicita del Battista a seguire Cristo.
C’è sempre qualcuno che fa da tramite perché si possa scoprire il Signore. Anche così si riconosce il dono: qualcuno te lo ha indicato, o la famiglia, o la parrocchia, o un sacerdote, o tutti insieme. Il Battista ha messo sulla strada giusta i due giovani, i quali poi hanno fatto il loro percorso attirati da Cristo.
‘Gesù si voltò e vedendo che lo seguivano disse: Che cercate?’ Il suo intento è forse quello di aiutarli e mettere a fuoco l’obiettivo della loro ricerca. Che fossero in una certa confusione lo si può desumere dal fatto che invece di rispondere fanno un’altra domanda: ‘Maestro, dove abiti? Dove stai?’ che poteva significare: qual è la tua famiglia? Da dove vieni? Chi sei?
A quel punto Gesù non dà una risposta, ma fa in modo esplicito il suo invito, come farà poi altre volte in seguito: ‘Venite e vedrete’. Certe cose non si capiscono a parole, ma si possono vedere e condividere, cogliendone il senso vero dall’esperienza.
‘Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui’. Giovanni in realtà usa lo stesso verbo, che significa stare, rimanere: ‘Andarono e videro dove stava e quel giorno stettero presso di Lui’. E si può pensare che, più che in un luogo, videro che Gesù rimaneva nell’amore del Padre. Dirà in seguito Gesù: ‘Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore’ (Gv 15,9s). Quindi quel ‘si fermarono presso di Lui’ ha un significato molto denso, se Andrea ha intuito che si trattava del Messia, tanto che lo andrà a dire a suo fratello Simone.
Giovanni scriverà nella sua prima lettera: ‘Ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato’ noi lo annunziamo a voi” (1Gv 1,1ss).
È bello quando possiamo percepire la nostra vita come una risposta ad una chiamata, quando ci rendiamo conto con quanto amore siamo stati cercati da Dio mediante coloro che ne sono stati il tramite, a cominciare dai nostri genitori, e da coloro che ci hanno dato una educazione cristiana.
Ma perché questa percezione avvenga, sono necessarie almeno due condizioni. Anzitutto bisogna riuscire ad ascoltare la voce di Dio che chiama.
Oggi, di fronte alle poche vocazioni sacerdotali, è facile pensare che Dio non viene ascoltato quando chiama ad una vita di speciale consacrazione, come il ministero presbiterale; ma dobbiamo pensare che c’è sordità anche quando chiama ad una vita di figli di Dio coerente col Vangelo. E se c’è una relazione tra i due tipi di vocazione, credo che si possa dire che la vocazione alla vita cristiana è il contesto in cui può maturare una disponibilità anche ad un servizio nel popolo di Dio, mediante un ministero ordinato; in altre parole: se ci sono pochi preti, è perché ci sono pochi cristiani.
Nel racconto della vocazione di Samuele, lo sentiamo rispondere: ‘Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta’. Oggi bisognerebbe dire: ‘Signore, parla più forte, perché nel frastuono del mondo la tua voce non si sente’. Siamo troppo distratti dalle proposte alternative illusorie ma affascinanti che sono ormai alla portata di tutti.
La seconda condizione per renderci conto che la vita è una chiamata, è quella di scoprire che Dio a noi chiede tutto, anima e corpo, ma nello stesso tempo Egli soddisfa ad ogni nostra attesa. E’ possibile che ci spaventiamo all’ipotesi che Dio possa chiedere tutto, ma dobbiamo poi pensare alla gioia che Dio sa dare a chi dona tutto. La gioia di chi incontra Gesù, è una gioia vera, che si vede.
San Paolo ci invita a rispettare il nostro corpo, destinato alla risurrezione come quello di Cristo, perché siamo membra di Cristo, cioè della Chiesa, suo corpo mistico. La vita cristiana non è solo un modo di pensare, o una concezione della vita; comporta una realizzazione concreta, fatta di gesti, di fatica, di gioia, di attività che interessano anima e corpo; del resto è attraverso il corpo che ci incontriamo con gli altri e formiamo la comunità.
La partecipazione all’Eucaristia comporta una presenza di anima e di corpo, e la comunione sacramentale ha bisogno anche del nostro corpo. Davvero il valore del corpo è grande: ‘Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi?’
Il pensiero cristiano sa che rispettare il corpo vuol dire rispettare la persona in quanto tale. Purtroppo a questo riguardo c’è una grande mistificazione, perché mentre si vuole esaltare la libertà, si finisce per degradare la dignità dell’uomo anche nel suo corpo. Non è vero che ‘il corpo è mio e lo gestisco io’, perché ‘non appartenete a voi stessi; infatti siete stati comprati a caro prezzo’. E il fatto di appartenere a Cristo, è la misura della vera dignità, perché certamente Lui vuole più bene a noi di noi stessi; basterebbe pensare a che cosa ha fatto per amore nostro, morendo e risorgendo per dare a noi la sua vita divina.
È per quello che in una occasione come questa, la cosa più importante è proprio la gratitudine per essere stati chiamati. Da parte mia ringrazio il Signore perché mi ha fatto cristiano, mi ha chiamato ad essere sacerdote e vescovo, e mi ha posto in questa santa Chiesa di Faenza-Modigliana.
È chiaro che ogni tappa della vita è anche una occasione per fare dei bilanci ed esprimere delle valutazioni su ciò che si è fatto. A questo riguardo però è meglio affidarsi completamente alla misericordia di Dio, sia nel caso che il nostro cuore ci rimproveri qualche cosa (e qui è bene ricordare che Dio è più grande del nostro cuore), sia che qualcuno abbia qualcosa di cui rallegrarsi.
C’è una frase di San Paolo poco prima del brano della seconda lettura di oggi, che dice: ‘Ognuno ci consideri come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, quanto si richiede negli amministratori è che ognuno risulti fedele’. E fin qui è un invito sul quale fa sempre bene fare l’esame di coscienza. Ma l’osservazione che più interessa viene dopo: ‘A me però, poco importa di venire giudicato da voi o da un consesso umano; anzi, io neppure giudico me stesso, perché anche se non sono consapevole di colpa alcuna non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il Signore’.
Per cui anch’io mi affido volentieri alla misericordia di Dio non solo per le mancanze, che ci sono e non sono poche, ma anche perché se qualcuno trova qualcosa di buono, non tocca a lui giudicare: mio giudice è il Signore.
È giusto quindi ringraziare per tutti i benefici ricevuti, ed è bene invocare la misericordia del Signore che ci accompagni ogni giorno della vita, fino a quando ritorneremo nella braccia del Padre con tutti coloro che ci hanno già preceduto.