[mar 15] Intervento – Convegno annuale FTER: La politica al servizio del bene comune

15-03-2023

Bologna, Convento S. Domenico, convegno annuale della FTER, 15 marzo 2023

 

Premessa

In questa sede si affronta il tema della politica al servizio del bene comune nella prospettiva della Dottrina sociale (=DSC), altrimenti detta Magistero sociale o Insegnamento sociale della Chiesa. Lo svolgimento della riflessione si muoverà alla luce dei concetti di politica e di bene comune quali sono stati evidenziati ultimamente soprattutto da papa Francesco, in particolare nel Messaggio per la celebrazione della 52.ma Giornata mondiale della pace 2019[1] e nell’enciclica Fratelli tutti (=FT).[2]

  1. Un retto agire politico e ciò che lo distrugge

La buona politica è al servizio del bene comune, ossia del bene di tutti e richiede il contributo responsabile di tutti, sia singoli che gruppi. Più precisamente, la politica è l’impegno di realizzare insieme il bene della città, della Nazione, dell’umanità. Il bene comune viene definito dalla Gaudium et spes come «l’insieme delle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani, nelle famiglie e nelle associazioni il conseguimento più pieno e più rapido della loro perfezione umana» (n. 74).

Se si vuole veramente il bene comune dell’umanità, è fondamentale che, nei vari Paesi, nella famiglia dei popoli, si viva una buona politica, intesa come un’azione comunitaria di servizio al bene di tutti. Tutti – cittadini e rappresentanti – sono chiamati a realizzare questo grande bene, non in ordine sparso, bensì collaborando insieme, tramite il dialogo pubblico e gli strumenti di partecipazione, quali ad esempio i corpi intermedi, creando le condizioni sociali che consentono ad ogni persona, ad ogni famiglia, ad ogni gruppo umano, ad ogni popolo il conseguimento della propria pienezza umana in Dio. Affinché la politica sia buona, i cittadini e i loro rappresentanti debbono essere educati a servire il bene comune, acquisendo tutta una serie di virtù umane (giustizia, equità, rispetto reciproco, sincerità, onestà), ma anche vivendo la virtù delle virtù teologali, ossia la Carità.

In altre parole, al pari di tutte le altre attività dell’uomo, la politica richiede di essere redenta, liberata dal male, umanizzata, portata al compimento, mediante un’evangelizzazione del sociale. Solo così potrà essere buona ed efficace, al servizio dei doveri-diritti umani e della pace. Una politica animata dalla Carità, da un Amore pieno di verità ‒ come ha insegnato Benedetto XVI, prima di papa Francesco ‒ può meglio riconoscere la verità del bene umano, dei doveri-diritti, che non sono e non possono avere carattere di arbitrarietà, frutto di scelte libertarie, come purtroppo si sta sempre più verificando sia nelle società che in vari Parlamenti. I doveri-diritti, secondo la DSC, rappresentano le direttrici di realizzazione del bene comune. Pertanto, se tali diritti non hanno un fondamento etico, ma risultano frutto di scelte arbitrarie e libertarie, il bene comune viene messo in discussione.

Per conseguire un retto agire politico, occorre, secondo papa Francesco, che siano combattuti i vizi distruttivi della vera politica, del bene umano che sta al centro del bene comune, togliendo credibilità ai cittadini e ai loro rappresentanti, indebolendo la democrazia, mettendo in pericolo la pace. Quali sono, dunque, i vizi che debbono essere sconfitti? Il pontefice, nel Messaggio per la celebrazione della 52.ma Giornata mondiale della pace 2019, ne elenca alcuni: il disprezzo per il diritto, la noncuranza delle regole comunitarie, l’arricchimento illegale, la xenofobia, il razzismo, lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali nella ricerca di un profitto immediato (cf n. 4) e, in particolare, il vizio dei vizi, ovvero la corruzione.

  1. Il vizio dei vizi: la corruzione

Papa Francesco pone al primo posto fra tutti i vizi, la corruzione, nelle sue molteplici forme di appropriazione indebita dei beni pubblici o di strumentalizzazione delle persone (cf ib.). Ma perché papa Francesco è molto severo e tranciante nei confronti della corruzione, giungendo a dire: «peccatori sì, corrotti no»?[3] Perché la corruzione è una pestilenza che infetta la politica e la distoglie dal suo obiettivo primario: il bene comune.[4] La prima radice della corruzione è il cuore umano, che si attacca smodatamente al denaro, al potere, al successo personale, mettendoli al posto di Dio. La corruzione più che un peccato è l’origine di molti peccati in politica, ma non solo. Il corrotto vive una condizione di vita che impedisce il perdono di Dio. Di fronte a Dio, che non si stanca di perdonare, il corrotto si erge come autosufficiente, come colui che, in definitiva, non si cura della trascendenza. Non crede in Dio, adorando solo sé stesso, il proprio tornaconto. Il corrotto, in particolare, non pensa di dover chiedere perdono, perché ritiene di non aver niente da farsi perdonare: che male c’è nel comportarsi come tutti (o quasi) si comportano, non appena possono avvalersi di un qualche privilegio o approfittare di una posizione di forza e di potere per commettere soprusi ed ingiustizie? Che male c’è nel corrompere col proprio denaro o con il miraggio di una carriera facile, conseguita o offerta a questa o a quella persona? Il corrotto non prova, dunque, alcun rimorso, e non vede di che cosa debba pentirsi, perché non riconosce né fraternità né amicizia. Non percepisce la propria corruzione, esattamente come succede a chi ha l’alito cattivo: sono gli altri a doverglielo dire.[5] I politici, ma anche i cittadini, per vivere una buona politica, debbono piuttosto riconoscere i propri limiti e i propri peccati, ricercando la conversione morale e spirituale.[6] I credenti sanno che, a tal fine, non sono necessarie solo le virtù umane, spiegando ovviamente alla gente il loro significato, oramai sempre più vago o sbiadito. Urge la Carità di Dio, del suo Amore pieno di verità, come appena detto. Essi abilitano al servizio dei doveri-diritti umani, del bene di tutti, aprendo i vari «io» al «noi», all’unità e alla forza morale del vivere solidali, in comunità e comunione, prendendosi cura del bene di tutti, operando per il bene degli altri, del popolo intero, vivendo il comandamento nuovo come legge fondamentale dell’azione politica.

Per vincere i vizi della politica, e per fortificare una vita virtuosa, sul piano pedagogico è evidente l’urgenza di un impegno più determinato, volto ad impostare l’educazione attorno al perno culturale di un personalismo relazionale, solidale, aperto alla trascendenza, capace di coniugare libertà e responsabilità, libertà e verità, etica e politica, tecnica ed etica.[7] Più in particolare, oggi si deve lottare contro quell’individualismo libertario, che impregna la cultura contemporanea e che rinchiude le persone in se stesse, nella paura di donarsi agli altri e al bene comune. Un tale individualismo si erge come unico metro di misura del proprio «io», vissuto separatamente dalla intrinseca capacità di ognuno di ricercare il vero, il bene e Dio, nonché dal contesto sociale, dalla relazionalità. Tra le conseguenze dell’attuale individualismo, libertario ed utilitario, emerge l’indebolimento della possibilità di convergere su beni-valori condivisi da tutti; c’è una certa refrattarietà all’unità morale, spirituale e culturale, che fa da fondamento a qualsiasi società; si nota la crescita di uno strisciante e subdolo scetticismo nei confronti dell’autorità e delle istituzioni che sembra diventare dubbio sistematico e voglia di destrutturazione nei confronti dell’autorità, del pubblico e di tutto ciò che non è individuale.

L’educazione deve, in particolare, tener conto del fatto che tra la cultura sociale (quella prevalente nella totalità dei cittadini) e la cultura politica di un Paese (quella prevalente fra i politici e gli amministratori) vi è un legame stretto. I cittadini si lamentano dei loro rappresentanti, ma occorre anche tener presente che questi ultimi sono innegabilmente espressione dell’intera società. L’Italia è, purtroppo, tra i Paesi più colpiti al mondo dalla corruzione, che ne condiziona tutta l’economia e la vita. Si pensi alla illegalità e alla mafia, che, in parecchie regioni italiane, hanno pervaso le attività agricole, commerciali e industriali, il sistema degli appalti delle opere pubbliche, l’amministrazione della giustizia.

Oggi i partiti sono gli strumenti di cui i politici corrotti si servono per arricchirsi e rafforzare il proprio potere personale. È imprescindibile una crescita della coscienza civile e morale dell’intera società.[8] E questo può avvenire, come già detto, mediante un’opera di educazione civile intensa e sistematica.

  1. Popolo e bene comune

Nella FT il pontefice quando parla di politica intende riferirsi alla «migliore politica». Che cos’è la migliore politica? È quella che consente lo sviluppo della comunità mondiale, ponendosi al servizio del suo vero bene comune (cf n. 154). Con una simile affermazione papa Francesco prende una netta distanza rispetto alla nozione del bene comune della modernità, quella che vuole una cultura indipendente dalla verità e succube della dittatura del relativismo. Secondo papa Francesco, la migliore politica incontra ostacoli nei populismi che utilizzano i deboli per i loro fini,[9] nonché nelle visioni liberali individualistiche, per le quali non esiste un popolo, bensì si hanno solo singoli cittadini.

I populismi odierni e le teorie liberali individualistiche mostrano di ignorare la realtà che è il popolo e, per conseguenza, non esprimono stima sia nei confronti della democrazia, che è «governo del popolo», sia nei confronti del bene comune.[10] In definitiva, non credono nelle potenzialità e nelle capacità del popolo. Secondo papa Francesco, esso non è una categoria né logica né mistica. Popolo è una categoria storica e mitica. Non si può spiegare solo in maniera logica. Contiene un plus di significato che ci sfugge se non ricorriamo ad altri modi di comprensione, ad altre logiche ed ermeneutiche. Esso va inteso, invece, come unione morale, come realtà dotata di un’identità comune, fatta di legami sociali e culturali; come realtà in cammino verso un progetto condiviso (cf FT nn. 157-158), verso il bene comune, pensato non come un’accozzaglia di interessi disparati bensì come realtà implicante sempre nuove sintesi (cf n. 160). Esiste, scrive Jorge Mario Bergoglio, prima ancora di essere pontefice, una differenza sostanziale tra massa e popolo. Popolo è la cittadinanza impegnata, riflessiva, consapevole e unita in vista di un obiettivo o un progetto comune.[11] È un processo, un farsi incessante. Il cittadino acquisisce la sua piena identità non solo appartenendo ad una società, bensì appartenendo soprattutto a un popolo. Non c’è identità di cittadino senza appartenenza al popolo. Questa è la chiave, perché identità è appartenenza. La sfida dell’identità di una persona come cittadino è direttamente proporzionale al modo in cui essa vive questa sua appartenenza al popolo dal quale nasce e nel quale vive.[12]

I leader populisti cercano consensi tra il popolo, fomentando e assecondano le inclinazioni più basse ed egoistiche di alcuni settori della popolazione. Si conquistano la simpatia popolare promettendo sussidi assistenzialistici, senza mettere in atto condizioni giuridiche, sociali, economiche, culturali, politiche attive del lavoro, che consentano la promozione integrale dei cittadini, la loro ascesa sociale e la loro partecipazione nel servizio del bene comune. Il miglior aiuto per i poveri, per i cittadini senza lavoro è quello di metterli in condizione di poter impiegare le loro capacità, di porre in atto iniziative proprie e comunitarie, di dispiegare le loro forze, di accrescere le loro potenzialità a servizio del bene comune, non solo del proprio.

A questo proposito papa Francesco scrive: «Perciò insisto sul fatto che “aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro”. Per quanto cambino i sistemi di produzione, la politica non può rinunciare all’obiettivo di ottenere che l’organizzazione di una società assicuri ad ogni persona un modo di contribuire con le proprie capacità e il proprio impegno. Infatti, “non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro e della dignità del lavoro”. In una società realmente progredita, il lavoro è una dimensione irrinunciabile della vita sociale, perché non solo è un modo di guadagnarsi il pane, ma anche un mezzo per la crescita personale, per stabilire relazioni sane, per esprimere sé stessi, per condividere doni, per sentirsi corresponsabili nel miglioramento del mondo e, in definitiva, per vivere come popolo”» (FT n. 162).

La categoria di popolo è abitualmente rifiutata, come già accennato, dalle visioni liberali individualistiche, perché la società o il popolo sono ritenute mitizzazioni di realtà che non esistono. La società è considerata una mera somma di interessi che coesistono e che confliggono tra loro, un insieme di istituzioni vuote di contenuti morali. Rispetto ai limiti delle teorie liberali individualistiche, e ai limiti dei populismi, ciò che dà corpo e anima il popolo della democrazia è la vera carità, la quale è capace di includere i vari soggetti della società civile e le varie istituzioni, il diritto, la legalità in un tutto ben amalgamato, finalizzato al bene comune e delle singole persone, specie degli ultimi.[13]

Ciò che mette in crisi la vera politica e, quindi, il popolo, come unità morale, è la fragilità umana, la tendenza all’egoismo, al chiudersi nel proprio io. La concupiscenza del chiudersi non è un difetto della nostra epoca. Esiste da che l’uomo è uomo. Il rimedio a ciò è la redenzione, è l’impegno educativo. Non riescono a superare la fragilità umana le visioni liberali che ne sono effetto. Nemmeno il mercato, di fede neoliberale, con la sua teoria del «traboccamento», che non è in grado di aiutare le società a superare le ingiustizie e le inequità da cui è segnata. C’è bisogno di una politica economica attiva, capace di favorire la diversificazione produttiva e la diversità imprenditoriale per aumentare i posti di lavoro. Rispetto al problema del lavoro non può essere di aiuto la speculazione finanziaria avente come scopo principale il guadagno facile. Teorie liberali individualistiche e speculazione finanziaria fine a sé stessa finiscono per contrastare i movimenti popolari, che aggregano disoccupati, precari e informali nella tutela dei diritti dei lavoratori. In tal modo non consentono quella partecipazione sociale, politica ed economica che costituisce l’intelaiatura della democrazia partecipativa. Piuttosto favoriscono quelle politiche sociali concepite come politiche verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri.

Comunque, rimarca il pontefice, in un momento storico in cui ci sarebbe bisogno di una vera politica e di una vera autorità, queste sono carenti. A fronte di problemi mondiali il potere internazionale appare in crisi.

Oggi in tempo di pandemie, di crisi ecologiche e di una guerra globale, come quella che si sta combattendo in Ucraina, c’è quanto mai bisogno di una vera politica e di una vera autorità mondiali.

 Non un potere concentrato (nelle mani di uno o di pochi) ed onnipotente, ma un potere distribuito tra una pluralità di soggetti, limitato da un sistema giuridico di regolamentazione delle rivendicazioni e degli interessi.

La politica e l’autorità mondiali non possono essere succubi del mondo della finanza internazionale. Dev’essere il contrario. E, quindi, vanno sviluppate istituzioni internazionali più forti, con autorità designate in maniera imparziale, dotate del potere di sanzionare. «Quando si parla della possibilità di qualche forma di autorità mondiale regolata dal diritto, non necessariamente si deve pensare a un’autorità personale (ad un Leviatano). Tuttavia, dovrebbe almeno prevedere il dare vita a organizzazioni mondiali più efficaci, dotate di autorità per assicurare il bene comune mondiale, lo sradicamento della fame e della miseria e la difesa certa dei diritti umani fondamentali» (FT n. 172).

Entro la prospettiva di istituzioni internazionali più efficaci va parimenti collocato l’impegno di riforma dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, in modo che non costituisca un’autorità cooptata solo di alcuni Paesi, inclini ad imposizioni culturali ed economiche.  Lo sviluppo della comunità internazionale dovrebbe avvenire secondo la linea della promozione della sovranità del diritto e non del prepotere. La comunità internazionale deve essere popolata da tante aggregazioni e organizzazioni della società civile, in modo da rendere concreta la partecipazione delle società civili su un piano di sussidiarietà.

  1. La politica animata da un amore pieno di verità, dalla «caritas in veritate»

Quale politica, dunque, dal momento che il mondo non può funzionare senza di essa?

Dev’essere una politica non sottomessa né all’economia né alla tecnocrazia. Peraltro, non si può giustificare un’economia senza la politica.

C’è bisogno, dunque, di una sana politica, ossia con una visione ampia, capace di un approccio integrale alle questioni sociali, di riformare le istituzioni, di coordinarle, di dotarle di buone pratiche.

La grandezza della politica si mostra quando opera sulla base di grandi principi e, in particolare, del bene comune a lungo termine (cf FT n. 178), attento alle generazioni presenti, ma soprattutto a quelle future. È grande la politica che non pensa solo ai risultati elettorali immediati. Di una grande politica ha bisogno la società mondiale che per le sue riforme strutturali non ha bisogno di rattoppi, ma di soluzioni lungimiranti.

La grande politica, la vera politica, ha bisogno dell’amore politico. È animata dall’amore politico, ossia da un esercizio alto della Carità, cioè da un amore che riconosce ogni essere umano come un fratello o una sorella; da un amore che crea percorsi e processi sociali di fraternità e di giustizia efficaci.

La Carità sociale e politica ci fa amare il bene comune e ci fa cercare effettivamente il bene di tutte le persone. È scaturigine del popolo, del vero popolo, in cui ognuno, mediante la collaborazione con gli altri al bene comune, riconosce sé stesso.

La Carità politica non è un sentimento sterile.  È molto di più di un sentimento soggettivo, specie se si accompagna all’impegno per la verità (cf FT nn. 183-184). Proprio per il suo rapporto con la verità favorisce un dinamismo universale ed è base di una civiltà dell’amore. Senza la verità, l’emotività si vuota di contenuti sociali oggettivi. La Carità per essere maggiormente sé stessa ha bisogno di verità, quella della ragione e quella fede (cf FT n. 185).

La Carità è articolata su più piani di espressione. L’attività dell’amore politico crea istituzioni più sane, ordinamenti più giusti, strutture più solidali. È Carità politica innalzare strutture perché il prossimo non abbia a trovarsi nella miseria. Se è Carità stare vicino a una persona che soffre, è pure Carità tutto ciò che si fa per modificare le condizioni sociali che provocano la sua sofferenza. «Se qualcuno aiuta un anziano ad attraversare un fiume – e questo è squisita carità –, il politico gli costruisce un ponte, e anche questo è carità. Se qualcuno aiuta un altro dandogli da mangiare, il politico crea per lui un posto di lavoro, ed esercita una forma altissima di carità che nobilita la sua azione politica» (FT n. 186).

La vera carità politica non è quella che promuove strategie di contenimento che unicamente tranquillizzano e trasformano i poveri in esseri addomesticati e inoffensivi. La vera carità politica agisce in modo da rendere ogni essere umano artefice del proprio destino assieme agli altri.

Il politico è un realizzatore, un costruttore con grandi obiettivi, con sguardo ampio e pragmatico.  «Le maggiori preoccupazioni di un politico non dovrebbero essere quelle causate da una caduta nelle inchieste, bensì dal non trovare un’effettiva soluzione al fenomeno dell’esclusione sociale ed economica, con le sue tristi conseguenze di tratta degli esseri umani, commercio di organi e tessuti umani, sfruttamento sessuale di bambini e bambine, lavoro schiavizzato, compresa la prostituzione, traffico di droghe e di armi, terrorismo e crimine internazionale organizzato» (FT n. 188).

Poiché la globalizzazione dei diritti umani è ancora lontana tra gli obiettivi del politico vanno individuati:

  1. l’eliminazione della fame, della tratta delle persone;
  2. la promozione di incontri e dialoghi che superano l’intolleranza;
  3. la realizzazione della politica con tenerezza, ossia con un amore che si fa vicino e concreto: «In mezzo all’attività politica, «i più piccoli, i più deboli, i più poveri debbono intenerirci: hanno “diritto” di prenderci l’anima e il cuore. Sì, essi sono nostri fratelli e come tali dobbiamo amarli e trattarli» (FT n. 194).

Il vero politico non si interessa tanto di una politica da marketing, quanto di una politica che serve e promuove realmente le persone e le famiglie.

  1. Carità, amore pieno di verità, e servizio della politica ai diritti umani e alla pace intesa come bene comune

Da quanto detto da papa Francesco è emerso che la Carità, come spiegata da Benedetto XVI, è indispensabile alla politica per il suo retto agire, ossia al servizio dei doveri-diritti e della pace, quasi sinonimo di bene comune. Ma quanto è proposto dai pontefici Benedetto e Francesco oggi non è così scontato e pacifico. Detto altrimenti, un minimo approfondimento del rapporto tra la politica e il bene comune ci pone di fronte a questioni cruciali. Oggi, infatti, prevale una concezione neopositivista e libertaria dei diritti, come anche una concezione di bene comune in sintonia con posizioni filosofiche neocomunitariste e neoliberaliste.[14] Come può essere «buona» la politica, quando è guidata da visioni neopositiviste dei diritti e da una concezione del bene comune neocomunitarista (cf Michael J. Sandel, Charles Taylor e Michael Walzer) o neocontrattualista (cf  David Gauthier, John Rawls) o neoutilitarista (cf John C. Harsanyi), che sono tutte incapaci di offrire un solido fondamento morale sia ai diritti sia al bene comune? La risposta a simile quesito esige che siano enucleate concezioni dei doveri e diritti, nonché del bene comune, in linea con ciò che papa Francesco intende per «buona politica». Questa non può prescindere da visioni del diritto che non abbiano un fondamento morale certo, come anche non può prescindere da una concezione del bene comune che non sia connessa con il bene umano, con un’etica laica, sì, ma non laicista né libertaria.

Ecco, allora, profilarsi almeno due tappe obbligate per la nostra riflessione che viene, conseguentemente, a polarizzarsi su queste questioni: a) esiste un fondamento certo dei diritti, un fondamento che non sia solo statuale? b) il bene comune deve prescindere, come oggi si tende ad affermare, da qualsiasi concezione di bene umano, pena la mutazione della democrazia in regime totalitario?

Per offrire contenuti razionali ed universali all’attuazione del bene comune è d’obbligo avviare una riflessione dapprima sui diritti e, poi, sulla nozione del bene comune. Per ragioni di tempo tralasciamo qui una pur imprescindibile riflessione sulla giustizia sociale, la giustizia del bene comune, che meriterebbe altrettanta attenzione in vista della realizzazione di un retto agire politico.[15]

5.1. Quale fondamento per i diritti?

Rispetto ai diritti, qual è la situazione odierna? Ci si pone fondamentalmente su due posizioni, che sono poi connesse tra loro. La prima mostra aspetti di carattere individualistico. Infatti, molte persone tendono a coltivare la convinzione di non dover niente a nessuno, tranne che a sé stesse. Ritengono di essere titolari solo di diritti e incontrano spesso forti ostacoli a maturare una responsabilità per il proprio e l’altrui sviluppo integrale.

Orbene, una concezione individualistica dei diritti, senza il corrispettivo dei doveri, determina la trasformazione degli stessi diritti in arbitrii. I diritti individuali, svincolati da un quadro di doveri che conferisca loro un senso compiuto, impazziscono ed alimentano una spirale di richieste praticamente illimitate e prive di criteri. E così, si assiste ad una situazione paradossale e contraddittoria: «Mentre, per un verso, si rivendicano presunti diritti, di carattere arbitrario e voluttuario, con la pretesa di vederli riconosciuti e promossi dalle strutture pubbliche, per l’altro verso, vi sono diritti elementari e fondamentali disconosciuti e violati nei confronti di tanta parte dell’umanità» (Caritas in veritate, n. 43).

La seconda posizione, coltivata attualmente, è quella secondo cui i diritti trovano il proprio fondamento solo nelle deliberazioni di un’assemblea di cittadini. Ma anche qui si evidenzia un’estrema fragilità. Se i diritti dell’uomo, infatti, trovano il loro fondamento unicamente nelle deliberazioni maggioritarie delle assemblee parlamentari, essi possono essere cambiati in ogni momento. Ne consegue che il dovere di rispettarli e perseguirli si allenta nella coscienza comune. I Governi e gli Organismi internazionali possono allora dimenticare l’oggettività e l’«indisponibilità» dei diritti. Quando ciò avviene, la buona politica, il vero sviluppo dei popoli e la pace sono messi in pericolo.

Per queste ragioni, è importante andare alla ricerca di un fondamento meno labile, ossia metapositivo ed etico, prestatuale, per i diritti, e procedere all’educazione della coscienza dei cittadini e dei popoli.

In una situazione di pluralismo culturale spesso divaricato e, quindi, con l’impossibilità pratica di una convergenza minima, si dice che ci si dovrebbe accontentare di omologare i diritti così come sono percepiti dall’ethos popolare vigente, spesso sfuocato o manipolato dai mezzi di comunicazione sociale.

Ma questa posizione, come già accennato, non istituisce un vaglio critico circa la rettitudine della coscienza popolare, ed espone alla registrazione del semplice dato storico. In questa linea si collocano l’americano Richard Rorty e gli italiani Gianni Vattimo e Norberto Bobbio, scomparso alcuni anni fa, il quale riteneva che la ricerca di un fondamento certo per i diritti fosse un’impresa disperata. E tuttavia, senza un tale fondamento i diritti non sarebbero incontrovertibili, bensì momenti passeggeri della coscienza storica. Non si potrebbe procedere a distinguere i veri diritti da quelli falsi.

Si è così di fronte a un bivio. O si ammette che i diritti sono controvertibili e pertanto mutevoli, o si procede alla ricerca di un fondamento certo per le norme morali e per i diritti.

Come insegnano la DSC e lo stesso Tommaso d’Aquino, il fondamento incontrovertibile della legge morale e dei diritti è da ricercare nell’essere umano, in quanto capax (non si tratta solo di capacità intellettuale, ma anche morale, sulla base della libertà e della responsabilità…) veri, boni et Dei.

Si può pensare che tutte le culture, pur diverse, accettano universalmente i diritti e li riconducono ad un fondamento certo, quando si riconoscano partecipi di una comune ricerca del vero bene umano, ricerca che può attingere la legge morale, la quale è seminata da Dio nelle coscienze. È nella capacità umana di perseguire la ricerca del bene, di riconoscerlo, di aderirvi liberamente orientandosi a Dio, che si trova il fondamento dell’inviolabilità della dignità della persona e dei suoi diritti. Tale fondamento, tra l’altro, fornisce la ragione della benevolenza e del rispetto dell’altro, della collaborazione ad imprese comuni, dell’inviolabilità delle regole di giustizia, che debbono consentire a ciascuno la ricerca dei beni necessari, ivi compreso il Bene sommo, Dio.

Ciò premesso, ecco alcuni punti fondamentali per l’educazione della coscienza dei cittadini e dei popoli:

  1. mostrare ad ogni uomo che in lui vi è una naturale capacità di conoscere, di volere e di scegliere il vero, il bene e Dio, sia pure gradualmente entro i suoi limiti. Se il vero bene umano non fosse accessibile, non si potrebbe riconoscere un fondamento sicuro per i diritti, per discernere circa la loro autenticità e per non confonderli con l’arbitrio. Qualora si spalanchino le porte ad un diritto frutto di una libertà arbitraria, non è più possibile disporre di un diritto certo, di valenza universale;
  2. formare, oltre che ai diritti, ai doveri corrispettivi (al diritto al lavoro corrisponde il dovere di lavorare, al diritto allo studio corrisponde il dovere di studiare, e così via.);
  3. curare, parallelamente alla dimensione storica, quella sovrastorica della coscienza. In effetti, se la coscienza collettiva è fallibile o può essere incostante, occorre rinsaldare l’ancoraggio sovrastorico di cui è naturalmente dotata, affinché rimanga il più possibile fedele ai diritti fondamentali;
  4. pensare ai diritti dell’uomo non prescindendo da Dio, bensì avendo come parametro fondamentale il compimento umano in Lui. La storia del diritto, da Ugo Grozio ai nostri giorni, mostra che il tentativo di pensare i diritti staccandoli dal fondamento dell’ordine morale, e cioè da Dio, conduce allo svuotamento dei loro contenuti etici e approda a una laicità desemantizzata dello Stato;
  5. abituare all’uso critico dei media, che mostrano una forte capacità sia nel dare forma alle coscienze e nell’addormentarle, mediante la cultura del consumo e della violenza, sia nello svegliarle.

 

5.2. Quale nozione di bene comune è omogenea con la buona politica?

La questione del bene comune è centrale nella vita di un popolo. Senza di esso non può esistere e svilupparsi una società politica, come anche una buona politica, perché rimarrebbero prive di un chiaro orientamento umanistico per la loro gestione e per il loro futuro.

Spesso, l’espressione bene comune viene usata come equivalente di interesse generale, con un trasferimento marcato all’ambito del diritto o della amministrazione, poiché si dimentica la sua appartenenza a quello dell’etica. Altre volte, lo si confonde con il bene totale, ossia la somma dei beni, o con l’utilità media collettiva. Ma, a ben riflettere, come hanno anche insegnato i grandi filosofi e teologi del cristianesimo, il bene comune è un bene essenzialmente umano, ovvero relativo alle persone umane, ai vari gruppi e società umane. Esso appartiene al tutto-sociale e si misura in rapporto ai doveri e ai diritti che sono enucleati in rapporto ai fini delle persone. Il bene comune va realizzato specificandolo a seconda delle varie situazioni storiche di un Paese e tenuto conto del bene umano, il quale non va affatto inteso come una mera sintesi degli interessi particolari, bensì come un insieme ordinato di beni relativamente al compimento umano in Dio. Il bene comune, specificato in base al bene umano richiede dunque di essere realizzato non in una maniera qualsiasi, senza riferimento ad una scala dei valori, bensì alla luce di una gerarchia di beni. Se si parte dal principio che in politica non si può avere, anzi, non si deve seguire una gerarchia di beni, si finirà per prospettare la realizzazione del bene comune secondo logiche hobbesiane utilitariste o tecnocratiche. Il bene comune, allora, non potrà che configurarsi come il risultato di una contrattazione tra gli interessi degli individui e dei gruppi, che vedono nello Stato un semplice moderatore della libertà di competizione, affinché gli attori non si distruggano e godano di pari opportunità. In effetti, attualmente, la realizzazione del bene comune consiste nell’accontentare le richieste particolari dei vari gruppi o dei singoli gruppi parlamentari, il cui voto è indispensabile per l’approvazione delle leggi, senza affrontare seriamente i problemi più gravi del Paese, all’interno di una visione complessiva che permetta di individuare precedenze ed urgenze. Detto altrimenti, in tal caso il bene comune appare come una mera sintesi di interessi disparati e sezionali, in una composizione simile ad una somma o ad una sottrazione. O addirittura viene inteso come una semplice gestione contabile delle cose, o anche come una tecnicalità incentrata su una cultura meramente digitale. E non certo come esperienza di una politica intesa in senso alto, ossia come luogo o «casa» in cui si vive tutti insieme e ci si impegna a prendersi concretamente cura di se stessi e dell’altro, specie se debole o svantaggiato. Nell’affannosa ricerca di una sintesi, troppi attori, singoli o collettivi, cercano di mantenere o di conquistarsi posizioni di rendita e di privilegio, massimizzando i propri vantaggi senza curarsi delle ricadute sulla società civile.

In definitiva, occorre riconoscere che, nell’attuale contesto culturale di tipo digitale, frammentato e relativistico, privo di una visione unitaria di Paese, esiste anche per il bene comune un problema di fondazione morale, a fronte di tentativi che lo scalzano dalla razionalità pratica, sino a svuotarlo dei suoi contenuti umanistici, oppure che cercano di riproporlo, senza però dotarlo di una base razionale oggettiva ed universale.

Orbene, tutto ciò che misconosce o intacca la ragione pratica – ragione che partecipa dell’ordine morale quale è pensato dall’intelligenza di Dio –, finisce per minare le basi etiche dei diritti e dei doveri, dello stesso bene comune. Per trovare un fondamento certo e sicuro al bene comune, non bastano certamente quelle posizioni dottrinali, secondo cui esso emerge da una semplice convergenza consensuale (da un overlapping consensus) o è dato da un bene valido per la media della popolazione. Non basta, poi, raffigurare i cittadini come soggetti atti al contratto sociale, ma indifferenti nei confronti del bene altrui, guidati dalla paura del diverso. Implica che si sia capaci di ricercare il vero e il bene, oltre che Dio. Grazie a ciò si giunge a vedere l’altro come un simile, un essere fraterno, la cui umanità va potenziata, perché partecipa della mia stessa umanità. Solo soggetti costituiti come esseri inclini al bene perfetto sono in grado di fondare saldamente e incontrovertibilmente il bene comune, nonché i doveri e i diritti umani che lo sostanziano. I diritti non sono strumenti per difendere la nostra libertà dallo Stato invadente (concezione meramente liberale ed utilitarista), dalla violenza degli altri che comprimono la nostra dignità, quanto piuttosto vie per potenziare la nostra vita umana e sociale, ossia come mezzo per meglio esprimere la ricchezza e la generosità ontologica, relazionale, etica e spirituale del nostro essere umano (e cristiano).

Al contrario, cittadini dotati di una volontà libera per indifferenza – nozione, questa, alla base delle moderne teorie liberali e neoutilitariste –, e, pertanto, priva di un criterio normativo immanente, non sono in grado di discernere e di fondare un ordine morale oggettivo, che rimane loro sempre fondamentalmente estraneo. E neppure possono giustificare diritti, doveri, bene comune con ragionamenti universali, peraltro indispensabili alla loro affermazione sul piano mondiale.

La loro globalizzazione può avvenire soltanto su basi morali cogenti, quando si riconosca che i soggetti-cittadini sono guidati dal telos normativo del bene perfetto. È, dunque, la dignità inviolabile delle persone e dei popoli – cioè la loro capacità di perseguire il bene umano, di riconoscerlo e di aderirvi liberamente e responsabilmente – che offre garanzie di futuro al bene comune nazionale e mondiale, alla buona politica, alla democrazia. In altre parole, la rivisitazione critica e la risemantizzazione della nozione di bene comune, andando al di là della sua fondazione nell’attuale clima culturale di scetticismo e di relativismo etico, possono effettuarsi grazie all’anelito, insito in ogni uomo e in ogni donna, al bene e al bene perfetto. Ciò fa sì che la volontà resti libera di scegliere beni ed azioni particolari in conformità con l’ordine morale.

La ragione pratica, in particolare, diventa allora abbozzo di ordine morale, avvio alla vita moralmente buona sul piano politico, perché fa sì che la volontà veda il bene comune come bene degno in sé, in conformità all’essere intrinsecamente relazionale delle persone e alla loro tensione costitutiva verso l’Amore assoluto.

Qui si comprende l’importanza delle parole di san Giovanni Paolo II, il quale, nell’enciclica Fides et ratio, giunge ad affermare che uno dei compiti più urgenti della nuova evangelizzazione sarà quello di far prendere coscienza alle persone e ai popoli della loro nativa capacità di vero, di bene e di Dio.[16]

  1. Conclusione: il bene comune, inteso come vivere virtuoso dei cittadini, è commisurato alla buona politica

Nella definizione data dalla Costituzione pastorale del Concilio Vaticano II, si possono intravedere ragioni, che inducono a pensare al bene comune come ad un bene più che strumentale, ossia ad un bene umano. Le condizioni sociali non sono neutre, ma debbono essere ministeriali alla crescita umana. Ciò significa che cittadini e governanti debbono costantemente organizzarle ed orientarle omogeneamente ad obiettivi morali, cosa che richiede una vita virtuosa. Pertanto, il bene comune, definito dalla Gaudium et spes (=GS) come bene strumentale, relativo all’essere e al bene integrale delle persone, non è scisso del tutto dalla concezione di bene comune come bene sostantivo, ossia come vita retta della moltitudine.[17]

La dimensione sostantiva del bene comune, sia come realtà attinente al bene umano delle persone sia come un vivere bene politico, ci pare maggiormente colta nella definizione della Centesimus annus (=CA), ove Giovanni Paolo II ne propone una versione nuova rispetto alla GS. Il bene comune, scrive, «non è la semplice somma degli interessi particolari, ma implica la loro valutazione e composizione fatta in base ad un’equilibrata gerarchia di valori e, in ultima analisi, ad un’esatta com­prensione del­la dignità e dei diritti del­la persona» (CA n. 47).

Per quanto detto, la visione prevalentemente strumentale della DSC non esclude la nozione di bene comune propria dei classici, riscontrabile in Aristotele, in Tommaso d’Aquino e, tra i pensatori cattolici del secolo scorso, in Jacques Maritain.[18] Per questi, il bene comune, realizzazione della giustizia e della pace tra le persone, è vita retta della moltitudine. È non solo un predisporre le condizioni per vivere virtuosamente, un mezzo per ottenere le virtù, ma è già un vivere secondo virtù, un vivere bene in sé. Esso è parte dell’esercizio delle virtù, è virtù. È elemento essenziale del fine della vita che è proprio di un essere corporeo-spirituale. È bonum honestum, bene onesto, arduo. Il bene comune politico è il vivere bene del­le persone nel­la città,[19] in quanto formano un’unità di ordine (unitas ordinis), che consente il raggiungimento del­la perfezione umana dei singoli cittadini, rappresentata dall’esercizio di tutte le virtù, dalla beatitudine imperfetta.

Il bene comune che, come si è detto, è prospettato in termini differenti da Tommaso d’Aquino e dalla DSC, non è, però, da essi ritenuto un fine ultimo assoluto. Il retto ordine sociale (finis qui) non è un fine per sé stesso, ma è infravalente, intermedio. È prospettato e raggiunto come condizione indispensabile per la perfezione dei membri, che sono esseri corpo­reo-spirituali (finis cui), aventi un fine ultimo trascendente. La persona non si risolve interamente nel­la società politica. «L’uomo non è ordinato al­la società politica secondo tutto sé stesso e secondo tutte le sue cose […], ma tutto ciò che l’uomo è, e ciò che può, ed ha, deve essere ordinato a Dio».[20]

Tutto ciò premesso, è agevole concludere che la realizzazione di una buona politica, quale desiderata da papa Francesco, si sviluppa in società ove ci si impegna ad attuare un vivere politico virtuoso, teso ad organizzare e ad orientare con perseveranza – in questo consiste la virtù –, le varie condizioni sociali, in modo che siano ministeriali al compimento umano delle persone e dei gruppi. È possibile disporre di una nozione di bene umano, correlata al bene comune, se si rifiuta l’assioma moderno delle scienze empiriche quale unica via di un sapere valido. È in questo contesto che si comprende l’importanza dell’esercizio di una ragione integrale che si avvale di una ragione speculativa e pratica, capace di attingere, sia pure imperfettamente la verità del bene umano. Grazie ad una simile ragione, si scopre che fondamento del bene comune è la dignità umana, intesa come capacità di vero, di bene e di Dio. Si può così affermare che ogni persona è capace di bene comune e vi è chiamata per il suo essere e per vocazione. Sulla base di ciò, anche nella nostra società, particolarmente frammentata e multiculturale, è possibile convergere da parte di tutti – credenti o non credenti, cattolici o protestanti, buddisti o mussulmani, di qualunque razza ed etnia – verso una piattaforma condivisa di beni-valori, quale direttrice di realizzazione del bene comune. E questo, perché tutti gli uomini vengono al mondo dotati di una simile innata capacità. Poiché tutti sono capaci di bene comune, viene spontaneo cercare di realizzare non solo il proprio bene, ma anche cercare di coinvolgere tutti gli altri, credenti o non credenti, sulla base della comune capacità di bene e di dialogo.[21] Non vi sono alternative alla via del dialogo tra le civiltà. O, se vi sono, equivalgono a sopraffazione, conflitto, guerra, distruzione reciproca.

 

+ Mario Toso

Vescovo di Faenza-Modigliana

[1] Francesco, Messaggio per la celebrazione della 52.a Giornata Mondiale della Pace 2019: La buona politica è al servizio della pace, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2018.

[2] Francesco, Fratelli tutti, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2020.

[3] Cf Francesco, Meditazione mattutina nella cappella della Domus Sanctae Marthae (lunedì, 11 novembre 2013).

[4] Quando l’autorità non è servizio, allora, devia verso il proprio tornaconto; si dà fondo alle più svariate risorse demagogiche, si svuotano di idee e progetti gli spazi di confronto, si comprano sostenitori e si sfocia in una politica di compromesso, senza un progetto volto al bene comune.

[5] Cf Francesco, Discorso rivolto alla delegazione dell’Associazione internazionale di Diritto penale (23 ottobre 2014): «Il corrotto – ha detto papa Francesco – attraversa la vita con le scorciatoie dell’opportunismo, con l’aria di chi dice: “Non sono stato io”, arrivando a interiorizzare la sua maschera di uomo onesto. È un processo di interiorizzazione. Il corrotto non può accettare la critica, squalifica chi la fa, cerca di sminuire qualsiasi autorità morale che possa metterlo in discussione, non valorizza gli altri e attacca con l’insulto chiunque pensa in modo diverso. Se i rapporti di forza lo permettono, perseguita chiunque lo contraddica. La corruzione si esprime in un’atmosfera di trionfalismo perché il corrotto si crede un vincitore. In quell’ambiente si pavoneggia per sminuire gli altri. Il corrotto non conosce la fraternità o l’amicizia, ma la complicità e l’inimicizia. Il corrotto non percepisce la sua corruzione. Accade un po’ quello che succede con l’alito cattivo: difficilmente chi lo ha se ne accorge; sono gli altri ad accorgersene e glielo devono dire. Per tale motivo difficilmente il corrotto potrà uscire dal suo stato per interno rimorso della coscienza. La corruzione è un male più grande del peccato. Più che perdonato, questo male deve essere curato. La corruzione è diventata naturale, al punto da arrivare a costituire uno stato personale e sociale legato al costume, una pratica abituale nelle transazioni commerciali e finanziarie, negli appalti pubblici, in ogni negoziazione che coinvolga agenti dello Stato. È la vittoria delle apparenze sulla realtà e della sfacciataggine impudica sulla discrezione onorevole. Tuttavia, il Signore non si stanca di bussare alle porte dei corrotti».

[6] Per una visione più completa del pensiero di papa Francesco sul tema della corruzione si legga almeno Francesco (Jorge Mario Bergoglio), Guarire dalla corruzione, EMI, Bologna 2013;

[7] Vale la pena insistere sul bisogno di costruire e ricostruire i vincoli sociali e comunitari che vengono spezzati da uno sfrenato individualismo. La libertà non è un fine in sé stessa, un buco nero dietro al quale non c’è nulla. Riguarda la vita più completa dell’essere umano, di tutto l’uomo (compresa la dimensione relazionale, di apertura alla Trascendenza) e di tutti gli uomini. «È retta dall’amore, come affermazione incondizionata della vita e del valore di tutti e di ciascuno. E possiamo spingerci ancora oltre: la maturità non implica soltanto la capacità di decidere liberamente, di essere soggetto delle proprie scelte nelle molteplici situazioni e configurazioni storiche in cui siamo coinvolti, ma comprende anche la piena affermazione dell’amore come vincolo tra gli esseri umani nelle diverse forme in cui tale vincolo si realizza: interpersonali, intime, sociali, politiche, intellettuali… Una personalità matura, dunque, è quella che è riuscita a inserire il suo carattere unico e irrepetibile nella comunità dei suoi simili. Non basta la differenza: bisogna anche riconoscere la somiglianza» (Jorge Mario Bergoglio, Popolo, Corriere della sera, Milano 2014, pp. 52-53).

[8] Su questo si veda Fondazione Res, Politica e corruzione. Partiti e reti di affari da Tangentopoli ad oggi, a cura di Rocco Sciarrone, Donzelli 2017.

[9] Per conoscere alcuni tratti comuni dei populismi contemporanei ci si può riferire a F. OCCHETTA, Populismi, in «La Civiltà Cattolica» (17 giugno-1° luglio 2017), pp. 547-559; ID., Ricostruiamo la politica. Orientarsi nel tempo dei populismi, Edizioni san Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2019, specie pp. 23-82; Bartolomeo Sorge-Chiara Tintori, Perché il populismo fa male al popolo. Le deviazioni della democrazia e l’antidoto del «popolarismo», Edizioni Terra Santa, Milano 2019; M. Toso, Cattolici e politica. In un tempo di cambiamento epocale, prefazione di Stefano Zamagni, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa, Roma 2019.

[11] Cf Jorge Mario Bergoglio, Noi come cittadini noi come popolo, presentazione di Mario Toso, Libreria Editrice Vaticana-Jaca Book, Città del Vaticano-Roma 2013, p. 45.

[12] Cf ib.

[13] Sulla visione della democrazia secondo papa Francesco si legga almeno: M. Toso, Per una nuova democrazia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2016, specie pp. 43-98.

[14] Cf M. Toso, Democrazia e libertà. Laicità oltre il neoilluminismo postmoderno, LAS, Roma 2005, pp. 119-123.

[15] Su un concetto di giustizia sociale elaborato in linea con una buona politica, si veda almeno M. Toso, Democrazia e libertà. Laicità oltre il neoilluminismo postmoderno, LAS, Roma 2005, pp. 131-145.

[16] Cf Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Fides et ratio (14.09.1998), n. 102, in AAS 91 (1999) 5-88.

[17] Sull’espressione «bene comune» può essere utile la lettura di Aa.Vv., Alla ricerca del bene comune. Prospettive teoretiche e implicazioni pedagogiche per una nuova solidarietà, a cura di G. Quinzi-U. Montisci-M. Toso, LAS, Roma 2008.

[18] Cf J. Maritain, La personne et le bien commun, Desclée de Brouwer, Bruges 1946, tr. it.: La persona e il bene comune, Morcel­liana, Brescia 1963, p. 31.

[19] Nel commento al­l’Etica nicomachea, Tommaso afferma che la civitas ha come fine il bene vivere di tutti i suoi componenti e che, pertanto, la scienza politica ha per oggetto il bonum commune civitatis (cf Tommaso d’Aquino, In decem libros Ethicorum Aristotelis ad Nicomachum expositio, Torino-Roma 1949, I, lectio I,4; lectio II, 25-31).

[20] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-II, q. 21, a. 4, ad tertium.

[21] Quale dialogo? In ogni ambito dev’essere instaurato un dialogo serio, adeguato e non meramente formale o sotto forma di diversivo. Dev’essere un interscambio che distrugge i pregiudizi e diviene fecondo in funzione della ricerca comune, della condivisione, e che comporta un tentativo di interazione delle volontà a favore di un lavoro comune o di un progetto condiviso. In un dialogo costruttivo «non dobbiamo rassegnarci a rinunciare alle nostre idee, utopie, proprietà o diritti, ma dobbiamo soltanto rinunciare alla pretesa che siano unici e assoluti» (Jorge Mario Bergoglio, Popolo, Corriere della sera, Milano 2014, p. 46). Sul dialogo si veda anche FT nn. 198-205.