[lug 09] Intervento – Il Rinascimento della passione per il Bene comune

09-07-2022

Olbia, 9 luglio 2022

  1. I presupposti antropologici ed etici del bene comune

In un contesto di cultura tecnocratica, di tipo neoindividualista, libertaria ed utilitarista, tutti i cittadini e i loro rappresentanti sono chiamati a far rinascere la passione per il bene comune.[1] Senza il riferimento al bene comune non è possibile né il senso compiuto della vita politica né l’asse portante della democrazia rappresentativa, partecipativa e deliberativa. Ma il rinascimento della passione per il bene comune avviene mettendo al centro una visione integrale della persona, intesa come soggetto libero, responsabile, solidale, trascendente, una visione peraltro codificata nella Costituzione italiana.

Non basta, dunque, riferirsi ad un bene comune qualsiasi. Occorre ancorarsi ad un bene comune permeato da un personalismo comunitario. La persona non si sviluppa senza la comunità. Non può crescere sulla tomba della comunità. Pertanto, nel concepire e nell’amare il bene comune dobbiamo superare la cultura ormai prevalente del neoindividualismo libertario ed utilitarista, del transumanesimo. Questi appaiono tra i principali nemici della cultura del bene comune inteso in senso personalista e comunitario, aperto alla trascendenza. Un altro nemico è la visione tecnocratica della vita umana secondo cui il primato nella soluzione dei molteplici problemi odierni, compreso quello ecologico, va assegnato alle nuove tecnologie, ad un umanesimo tecnocratico.

Le concezioni del bene comune e della politica dipendono, dunque, dalla antropologia su cui poggiano. Per cui, quando la visione del bene comune dipende dall’individualismo libertario ed utilitarista non si può sperare di poter disporre di un bene comune concepito in termini di solidarietà, di reciprocità, di collaborazione da parte di tutti. La cultura neoindividualista e libertaria trancia o indebolisce i legami sociali di cui ha bisogno il bene comune per concretizzarsi storicamente a favore dello sviluppo integrale delle persone e delle comunità.

Oggi, ai fini di ritrovare la passione per il bene comune, dobbiamo rimettere alla base della società civile e della politica una cultura personalista, solidarista, aperta alla trascendenza. Ossia, una cultura analoga a quella che è stata scelta quale matrice della Carta costituzionale della Repubblica italiana, ma anche delle carte costituzionali di altre Nazioni Europee, dopo la Seconda guerra mondiale. E, tuttavia, dobbiamo registrare che una non piccola parte di tale cultura personalista e comunitaria è già stata, purtroppo, erosa. In Europa, infatti, il neoindividualismo utilitarista guida l’avanzata di quelli che ormai sono generalmente qualificati come diritti civili, quali il diritto alla liberalizzazione della droga, il diritto all’aborto, al divorzio lampo, all’eutanasia, all’utero in affitto, alla fecondazione eterologa, ai «matrimoni» gay, ma guida anche il transumanesimo e l’accrescersi della finanza oligarchica il cui credo è il profitto a breve brevissimo termine, e non certo il bene comune.

In definitiva, se si intende rinnovare la passione per il bene comune presso i cittadini e i loro rappresentanti, occorre contrastare quella cultura che esalta le libertà individualistiche e, inoltre, dispiegare un’ampia opera di formazione culturale, a vari livelli, affinché siano rafforzati i legami sociali nell’economia, nella finanza, nella società civile. Tollerare o assecondare altre pericolose lacerazioni nell’ordito solidale della Carta costituzionale significa ostacolare o indebolire la passione per il bene comune.

Questo ruota attorno ad un bene umano non solo convenuto ma radicato oggettivamente nella coscienza morale di ogni persona, nella quale si trovano i principi fondamentali ed universali, presenti in tutti i cittadini del mondo: «fa il bene ed evita il male»; «fai agli altri tutto ciò che desideri sia fatto a te». Una tale piattaforma morale costituisce la base incontrovertibile dei doveri e dei diritti, i quali rappresentano le direttrici secondo cui il bene comune va realizzato nelle società politiche. Lo Stato laico di diritto non è fonte ultima della verità e della morale in base ad una propria dottrina o ideologia. Esso riceve la sua misura etica dall’esterno, ossia dalla società civile pluralista. È da essa che riceve l’indispensabile misura di conoscenza e di verità circa il bene dell’uomo e dei gruppi sociali. Non la riceve da una conoscenza avulsa dalla storia, in quanto non esiste una pura evidenza razionale ed etica del bene, dei doveri e dei diritti, fuori dall’esperienza umana. Ciò vuole anche dire che non esiste concezione del bene comune fuori dalla storia. Occorre, pertanto, prendere atto che la concezione odierna del bene comune va ripensata dall’interno di una società storica, in movimento. Nella nostra società il substrato etico e culturale è notevolmente mutato, come già detto, rispetto a quello che teneva uniti i costituenti.

  1. Quale concezione del bene comune?

Per parlare del bene comune torna senz’altro utile la definizione che si trova prospettata nella Costituzione pastorale della Gaudium et spes. Si tratta di una concezione laica, liberale, formale, ma non neutra dal punto di vista morale. Infatti, include il riferimento al bene globale delle persone e dei gruppi o soggetti comunitari, quali la famiglia, gli enti intermedi, le istituzioni pubbliche. Tale riferimento si trova nella definizione del bene comune stesso che, secondo la GS, «si concreta nell’insieme di quelle condizioni sociali, con le quali gli uomini, la famiglia e le associazioni possono ottenere il conseguimento più o meno spedito della propria perfezione umana» (n. 74). È bene sottolineare qui che la definizione formale del bene comune della GS non esclude la definizione «sostanziale» del bene comune, ossia la definizione secondo cui il bene comune, com’era concepito dagli autori classici, si pensi ad es. a san Tommaso d’Aquino, era da intendersi come vita retta della moltitudine. Infatti, per concretare condizioni sociali tali da realizzare il compimento umano di persone e di comunità è necessario vivere secondo virtù, ossia secondo atteggiamenti perseveranti che consentono il raggiungimento del bene comune.

Quanto detto sin qui ci offre una base concettuale e morale per parlare del bene comune in termini di concretezza storica e di riferimento all’essenza morale comunità politica. Questa esiste proprio in funzione del bene comune, che le offre piena giustificazione e significato.

Vediamo, dunque, il bene comune con riferimento ad alcune condizioni sociali indispensabili alla sua realizzazione concreta.

  1. Le condizioni odierne della siccità pongono in crisi il bene comune

Perché partire dalla considerazione delle condizioni della siccità per parlare del bene comune? Ciò potrebbe apparire un approccio superficiale o limitato ad un tema specifico. In realtà, la siccità è anche crisi del bene comune, perché crisi di una risorsa essenziale per la vita, fondamentale per l’agricoltura, per il cibo, per gli allevamenti, la salute, l’energia idroelettrica, per l’industria, per risolvere il problema della povertà. L’acqua potabile e pulita rappresenta una questione di primaria importanza, perché è indispensabile per la vita umana e per sostenere gli ecosistemi terrestri e acquatici.[2] Le fonti di acqua dolce riforniscono i settori sanitari, agro-pastorali e industriali. L’acqua si mostra sempre più, specie nelle attuali condizioni climatiche, un fattore chiave per la pace e per la sicurezza mondiale. L’accesso all’acqua potabile e sicura è un diritto umano essenziale, fondamentale e universale, perché determina la sopravvivenza delle persone, e per questo è condizione per l’esercizio degli altri diritti umani.  La crescente scarsità dell’acqua richiede cambio di mentalità, stili di vita più sobri e condivisi. I ghiacciai si ritirano in silenzio o con fragore (si pensi alla Marmolada in questi giorni) riducendo fortemente la quantità di acqua disponibile e influendo negativamente sul clima dell’intero pianeta. La siccità mette a rischio coltivazioni e raccolti. È necessario correre presto ai ripari. Quali strategie perseguire? Basta il razionamento? A tutt’oggi rimane il problema dello spreco dell’acqua per motivi di cattiva gestione e di mancata manutenzione delle condotte. Ogni cento litri se ne perdono quarantadue. Non possiamo permetterci di avere perdite nelle reti acquedottistiche che arrivano fino al 60-70%, con una media nazionale che si attesta attorno al 40-50%. Sono indispensabili interventi costanti di cura della rete idrica, ma anche la costruzione di invasi che raccolgano l’acqua piovana e la conservino per i momenti di carenza, come aveva più volte rimarcato il Presidente Segni originario della Sardegna. A suo tempo sottolineava Segni, a fronte di acque pluviali che scorrevano verso il mare senza beneficare pendii e ambienti pastorali e rurali, come fosse saggio costruire invasi che la conservassero per i tempi di scarsità. Da allora di invasi ne sono stati costruiti, ma ancora se ne potrebbero costruire, a fronte dell’aumento del fenomeno della siccità. L’acqua più che un bene comune è un bene collettivo. Come tale richiede la condivisione e la responsabilità di tutti per evitare che essa sia un bene a disposizione di pochi. Bisogna educare a vedere nell’acqua non tanto una merce – essa senza dubbio ha una valenza economica, ma non solo questa – quanto un bene di tutti, che serve a tutti, alla comunità intera. In proposito sono necessarie politiche di salvaguardia e investimenti. Questi sono da prevedere in vista dell’acqua pulita e la sanitizzazione che, a loro volta, possono essere un motore per l’accelerazione della crescita economica, lo sviluppo sostenibile, il miglioramento della salute e la riduzione della povertà. Oggi, in cui si è accentuata la crisi ecologica, occorre che l’autorità, ma anche la società civile vigilino, affinché le falde acquifere non siano minacciate da attività estrattive, agricole ed industriali inquinanti. Siamo tutti in gioco. Papa Francesco nella Laudato sì mette in guardia affinché il controllo dell’acqua da parte di grandi imprese mondiali non si trasformi in una delle principali fonti di conflitto. Ivano Fossati, cantava profeticamente: «la guerra dell’acqua è già cominciata…».

  1. L’importante condizione sociale della pace

Un’altra condizione sociale per realizzare il bene comune è la pace. Essa, come scrisse Giovanni XXIII nell’enciclica Pacem in terris, è costituita da un ordine sociale o da una convivenza poggiante sui pilastri della libertà, verità, giustizia, solidarietà o amore. A tali pilastri papa Benedetto XVI e papa Francesco ci hanno insegnato ad aggiungere il pilastro della fraternità. Ma attualmente noi viviamo in una «terza guerra mondiale a pezzi», in un contesto in cui la Russia ha invaso l’Ucraina, producendo distruzioni enormi, uccisioni di persone e di bambini, quasi un genocidio, milioni di profughi, forti squilibri nelle relazioni internazionali e nell’UE, col pericolo di accrescere i problemi della fame e della povertà nel mondo, del rifornimento energetico. Tutti siamo chiamati ad essere costruttori di pace. Come?

A fronte dei gravi problemi che stanno tragicamente manifestandosi oggi – basti pensare alla guerra in Ucraina – non basta per i credenti sostenere un pacifismo di testimonianza, che da solo non sarebbe in grado di far avanzare la causa della pace. Il pacifismo di semplice testimonianza rischia di coltivare il sogno di eliminare la guerra dal mondo senza distruggere il mondo della guerra. Occorre, invece, decisamente impegnarsi sulla via di una non violenza pacifica, attiva e creatrice. Ossia una via che non solo condanna la guerra, ma che costruisce alacremente la pace. È la via di un nuovo pacifismo, il cui slogan potrebbe essere espresso così: se vuoi la pace, prepara istituzioni di pace.[3] Detto in altro modo ancora: si vis pacem, para civitatem. La guerra va sconfitta predisponendo, a livello spirituale, sociale, economico, politico ed istituzionale, tutto ciò che la previene o che la rimuove. Quid pluris in particolare? La Dottrina sociale della Chiesa, specie con le encicliche dei pontefici, ma anche con i loro Messaggi per la giornata mondiale della Pace, ha indicato da tempo le vie da percorrere, quali: il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti,[4] mediante la predisposizione di strumenti efficaci di difesa dell’aggredito;[5] la radicale revisione delle regole del mercato globale delle armi (la Russia è il secondo esportatore al mondo di armamenti, dopo gli USA; il trattato sul commercio di armi convenzionali è stato ratificato dalla UE, ma non è stato firmato da USA, Russia e Cina); dare vita ad una Agenzia Internazionale per la Gestione degli Aiuti (AIGA), in cui far affluire, ad es., anche solo il 10% della spesa militare globale che in un decennio potrebbe sanare le attuali diseguaglianze strutturali; la revisione del trattato di non proliferazione nucleare; uno sviluppo integrale, sostenibile ed inclusivo; la creazione di istituzioni di pace, implicante la riforma dell’attuale ONU in senso più democratico,[6] la revisione trasformazionale dell’assetto delle istituzioni politico-giuridiche nate a Bretton Woods nel 1944 (FMI, OMS, Banca Mondiale, WTO) e divenute obsolete; la creazione di nuove istituzioni – dotate di poteri mondiali – relative alle migrazioni (OMM), all’ambiente (OMA), all’acqua; l’universalizzazione di una democrazia partecipativa, rappresentativa, inclusiva, deliberativa. Su questo aveva già scritto lo stesso papa Francesco nel citato Messaggio per la Celebrazione della Giornata Mondiale per la Pace del 1° gennaio 2017, ove ha iniziato a delineare gli elementi costitutivi di una non violenza attiva e creativa, quale unica via efficace di costruzione della pace.[7]

Ma vi sono altri piani su cui muoversi per prevenire le guerre e costruire la pace. Papa Francesco sempre nel suo Messaggio per la Celebrazione della Giornata Mondiale per la Pace del 1° gennaio 2017 ha offerto svariati orientamenti pratici:[8]

  1. l’annuncio e la testimonianza di Gesù Cristo, causa esemplare della non violenza attiva e creativa;
  2. la proposta ai leader politici e religiosi, ai responsabili delle istituzioni internazionali, ai dirigenti delle imprese e dei media del «manuale» della strategia della costruzione della pace, ossia le otto Beatitudini (cf Mt 5, 3-10);
  3. l’umanizzazione della politica, la sua risemantizzazione in senso samaritano, a partire da tutto ciò che può insegnare la non violenza attiva e creativa, come il principio architettonico della fraternità (si confronti anche la successiva enciclica Fratelli tutti);
  4. la rivitalizzazione della democrazia, oggi colpita da gravi forme di degenerazione e di involuzione, quali la pazzo-democrazia, la democrazia senza democratici, la democrazia insoddisfatta, la democrazia populista od oligarchica;[9]
  5. l’educazione alla pace;
  6. i percorsi di quei movimenti sociali, che il pontefice argentino viene da tempo sollecitando ed «educando», affinché abbandonino la violenza, marciando per la giustizia e non «contro» qualcuno, come i movimenti popolari.[10] Non vanno dimenticati il movimento ecologico mondiale;[11] i movimenti della cooperazione;[12] i movimenti per la vita; i movimenti a difesa e promozione della famiglia, quale società naturale fondata sul matrimonio tra uomo e donna; i movimenti a difesa della libertà religiosa e della libertà di insegnamento; i movimenti per la riforma del sistema finanziario internazionale, anche mediante la tassazione delle transazioni istantanee applicando la Tobin Tax; e i movimenti per l’abolizione della pena di morte;
  7. non dev’essere, poi, esclusa la preparazione di nuove generazioni di cattolici e di uomini di buona volontà per l’impegno competente nell’area della politica, una politica alta, all’insegna della carità cristiana, capace di affrontare con visione e decisione la rimozione delle cause di povertà e di sperequazione. Senza la preparazione di nuove generazioni dal punto di vista politico non si possono sperare nuove Istituzioni di pace, né sul piano politico regionale (come gli Stati Uniti d’Europa, d’Africa, ecc.) né sul piano mondiale;
  8. oggi, nell’ambito dell’azione nonviolenta, occorre coltivare legami internazionali, in vista di una maggiore incisività su quei processi e su quelle istituzioni che operano a livello sovranazionale e multilaterale. Solo agendo su questo piano, si può influire nella necessaria riforma dei mercati, delle istituzioni di pace e delle politiche mondiali; si possono altresì instaurare quelle collaborazioni, quel lavoro di intelligence, quella vigilanza sulla rete web e sugli ingenti flussi di denaro, che sono determinanti nel prevenire e nel combattere la violenza del fanatismo e del terrorismo, che si avvale dei nuovi e sofisticati mezzi, per destabilizzare e seminare l’odio.

A proposito della preparazione di nuove generazioni di politici occorre dire che non si mostra una seria attenzione al problema né entro il mondo cattolico né fuori di esso. Eppure, non si può sperare nella possibilità della costruzione efficace di istituzioni di pace senza l’apporto di nuove generazioni di politici, come anche della società civile rimotivata e riorientata. Poca credibilità possono offrire al Paese quei politici che, in occasione di una situazione complessiva molto fragile dal punto di vista delle relazioni internazionali e della pace, di forte indebitamento delle casse statali, di problemi energetici, di pandemie non debellate, di aiuti da corrispondere a chi combatte contro un nemico più forte, che ha mire imperialistiche destabilizzanti l’Occidente europeo e non solo, poco fanno per mantenere la stabilità del governo e sembrano come i capponi di Renzo, di manzoniana memoria, che litigavano tra di loro mentre andavano incontro ad una morte sicura.

Senza la passione per il bene comune e senza una politica guidata dall’impegno morale non si costruisce la pace. Affinché la comunità politica non venga rovinata dal divergere di ciascuno verso la propria opinione è necessario un’autorità capace di dirigere le energie di tutti i cittadini verso il bene comune, non in forma meccanica e dispotica, ma prima di tutto come forza morale che si appoggia sulla libertà e sulla coscienza del dovere e del compito assunto.

 

  1. La condizione imprescindibile del lavoro per tutti.

Le condizioni del lavoro a motivo della pandemia, delle innovazioni tecnologiche introdotte in maniera non graduale, dell’insicurezza sul posto di lavoro, dell’insufficiente preparazione professionale e del mancato aggiornamento rispetto alle nuove esigenze della domanda, della carenza di politiche attive del lavoro, sono divenute più precarie e complesse. Peraltro, per capire il tempo che stiamo vivendo occorre comprendere che la situazione del mercato del lavoro in Italia è cambiata. Da un’economia manifatturiera siamo passati a un’economia basata prevalentemente sull’immaterialità. L’Italia è l’emblema di questo processo di trasformazione della società da industriale a post-industriale. È un Paese in cui la struttura produttiva è costituita da un tessuto di piccole e medie imprese, in cui cioè i grandi complessi industriali rappresentano un’eccezione, in cui l’estensione territoriale è limitata e la popolazione non solo non è numerosa, ma è in calo per effetto della denatalità e dell’invecchiamento. Nonostante queste fragilità siamo l’ottavo paese al mondo per il prodotto interno lordo. Sono ormai lontani gli anni in cui la maggior parte della forza lavoro era impegnata nel settore primario (il settore economico che raggruppa tutte le attività legate allo sfruttamento delle risorse naturali o delle materie prime: agricoltura, pesca, allevamento, silvicoltura, attività mineraria). Oggi la maggior parte delle persone lavora nel settore dei servizi, in quello dell’informazione, svolge professioni di carattere intellettuale. Con l’avanzamento della tecnologia, dal telaio meccanico all’intelligenza artificiale, il lavoro si è velocizzato ed è diminuito, specie per quanti non hanno istruzione e formazione professionale adeguate ad affrontare il nuovo mercato del lavoro. Pur riconoscendo la validità delle affermazioni del sociologo Domenico Masi, e cioè che il lavoro non è più l’elemento centrale della vita e della nostra democrazia, e che anche il tempo libero e lo studio hanno acquisito spazio, non le si può sottoscrivere al 100%. Perché? Infatti, specie in un contesto di transizione ecologica, riemergono anche qui in Sardegna, l’importanza del lavoro rurale, l’allevamento, la pastorizia, che vengono ripensati e organizzati in maniera diversa, naturalmente anche con l’ausilio delle nuove tecnologie, offerte dalla robotizzazione e dalla digitalizzazione, per l’aratura, l’irrigazione, la coltivazione, la mungitura, la produzione dei latticini, la distribuzione. Da tempo la Coldiretti, ma non solo, parla di agricoltura 4.0. con tutto quello che essa comporta.

Se è vero che «i soldi non si fanno con le ore lavorate ma con la ricchezza prodotta», occorre tener conto che c’è lavoro e lavoro e che ci sono attività produttive per cui servono velocità e precisione, mentre per altre no.  Resta, invece, sempre indispensabile l’apporto dell’uomo. Il che vuol dire che se la produttività è scarsa ci vuole più tecnologia, ci vogliono imprenditori e manager più preparati. Se la cultura di base è carente c’è bisogno di formazione e di una cultura umanistica del lavoro.

Purtroppo, le forze politiche e sociali spesso sposano standard di efficientismo economico. Puntano di meno sulla qualità dei prodotti, tipici di un territorio come la Sardegna. Sono, poi, maggiormente preoccupati dei diritti civili, anziché dei diritti sociali. Il lavoro per tutti non è più un ideale strettamente congiunto con la democrazia partecipativa e deliberativa. Si punta, piuttosto, ad «assistenzializzare» il lavoro, mentre esso va ripensato, come ci insegna la Dottrina sociale della Chiesa, in termini di bene fondamentale per lo sviluppo di ogni Paese e della stessa democrazia perché il lavoro è antidoto alla povertà e titolo di partecipazione. Va amato ed organizzato, specie qui in terra sarda, ricca di meravigliosi scenari e di risorse naturali spesso incontaminate, entro la prospettiva di un’ecologia integrale, secondo quella transizione che implica un’economia circolare, uno sviluppo sostenibile, la preservazione dell’ambiente e della biodiversità. Anche in questa Regione va posto un rapido rimedio all’inquinamento e all’insicurezza nei luoghi del lavoro, con interventi appropriati da parte dei responsabili, singoli (imprenditori) e associati (associazioni di categoria e sindacati). Fondamentale in tutto questo è la promozione di una nuova cultura umanista del lavoro, nonché l’inserimento nei programmi scolastici e di formazione professionale, come raccomandava la CEI nel suo Messaggio per il 1° maggio 2022, della disciplina relativa alla salute e alla sicurezza del lavoro.

  1. A mo’ di conclusione: altre condizioni da attuare in vista del bene comune

Con riferimento alle condizioni sociali ed economiche, proprie di un periodo di cambiamento epocale, indotto da molteplici fattori, sono da considerare strategici: a) un sistema industriale e un’economia circolare; b) la costruzione di comunità energetiche rinnovabili come scelta etica,[13] sulla base del fattore umano e comunitario, senza profitti utilitaristici per pochi. L’obiettivo non può più essere quello di trovare nuovi giacimenti di combustibili fossili, ma quello di mettere in sicurezza l’attuale sistema energetico e sociale per evitare che le nostre società si fermino e i cambiamenti climatici ci travolgano. Il quotidiano indipendente «L’Unione sarda» del 6 luglio scorso informava che l’intera isola bocciava l’assalto eolico, un assalto speculativo, a servizio delle multinazionali, favorito dal decreto Energia firmato da Mario Draghi. Senza dubbio non si può essere d’accordo con progetti imposti dall’alto, che per di più favoriscono la speculazione di soggetti stranieri che puntano solo a ritorni economici dei privati. Occorre, piuttosto, puntare sulle comunità energetiche, ossia su soggetti giuridici autonomi che si basano sulla partecipazione aperta e volontaria, facendo leva sui fattori umani e comunitari. Solo in tal modo si attivano processi dal basso, sotto la responsabilità dei cittadini e delle comunità, commisurati ai bisogni del territorio, rispettosi dell’ambiente; c) il ripopolamento delle aree collinari, nel dorsale appenninico nella penisola e nelle colline della Sardegna, con incentivi adeguati alle famiglie e ai giovani che desiderano rimanere nei loro territori di origine.

Un caso attuale di realizzazione di condizioni favorevoli a servizio del bene comune si ha e si avrà nel controllo della distribuzione e dell’utilizzo dei fondi PNRR. Con riferimento a ciò si stanno manifestando distribuzioni diseguali e discriminanti. Basti anche solo pensare a quanto si è verificato in alcune Regioni, come ad esempio in Emilia-Romagna. In questa Regione i fondi per la messa in sicurezza i luoghi di culto sono stati assegnati esclusivamente alla parte emiliana, mentre la Romagna è stata esclusa dall’accesso a queste fondamentali risorse.

In un periodo ancora segnato dalla pandemia, per la realizzazione del bene comune sono fondamentali le condizioni delle strutture e del personale sanitari. Esse, a fronte delle continue e diversificate sfide epidemiologiche, richiedono una profonda revisione, l’ammodernamento e la riqualificazione, senza che l’incuria o l’irresponsabilità provochi il ripetersi di ingiuste discriminazioni nei confronti della popolazione anziana e, più in generale, di intere aree del Paese.

Infine, ai fini del bene comune, presente e futuro, non si possono ignorare le necessarie attenzioni che si debbono avere nei confronti delle nuove generazioni. Oggi non pochi giovani vivono emarginati nei nostri paesi e nelle nostre città. Essi, non raramente sono senza lavoro e senza studio. Vivono raggruppati in baby gang che purtroppo sono disponibili a farsi assoldare per pochi spiccioli dalla criminalità che spalanca loro le porte del malaffare. È evidente che in tal modo, porzioni non insignificanti della popolazione giovane vengono escluse dalla possibilità di dare il loro importante apporto al bene comune in termini di cambiamento e innovazione intrinsecamente connessi alla giovane età.

Perché il bene comune possa concretizzarsi è pregiudiziale, come già detto, che la politica viva un’intensa passione per esso, in modo particolare per le persone, le famiglie, le nuove generazioni, nell’ambito di una cultura personalista e comunitaria. In conclusione, se la politica non sarà animata dalla morale difficilmente potrà essere a servizio del bene comune.

                                                 + Mario Toso

[1] Il bene comune appare sfuggente e impalpabile. Nonostante la sua difficile individuazione, il bene comune esiste ed è estremamente importante per una società e per le persone che la compongono. Su questo tema si veda: AA.VV., Alla ricerca del bene. Prospettive teoretiche e implicazioni pedagogiche per una nuova solidarietà, a cura di G. Quinzi-U. Montisci-M. Toso, LAS, Roma 2008.

[2] Su questo è ancora attuale il volume del Pontificio Consiglio Della Giustizia E Della Pace, Acqua, Un elemento essenziale per la vita. Contributi della Santa Sede ai Forum Mondiali dell’Acqua, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2013.

[3] Su questo tema si legga M. Toso, Se vuoi la pace, prepara istituzioni di pace, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa, Roma 2022.

[4] Cf art. 11 della Costituzione della Repubblica Italiana che, analogamente al Magistero sociale, testualmente recita: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».

[5] Su questo aspetto si veda quanto afferma Vladimiro Zagrebelsky secondo cui va lumeggiato un punto sul quale spesso non si riflette a sufficienza: «[…] il ripudio della guerra dichiarato nella prima parte dell’art. 11 della Costituzione non comporta l’esclusione di ogni tipo o occasione di guerra. Non è vietata la guerra difensiva da parte della sola Italia o collettiva nel quadro della partecipazione ad organizzazioni che agiscono a quello scopo», (V. Zagrebelsky, Il governo dichiari che armi invia a Kiev, in La Stampa, 8 giugno 2022, p. 29).

[6] Circa la forma di autorità politica mondiale, regolata dal diritto, come afferma la Fratelli tutti, non necessariamente si deve pensare a un’autorità personale. Dovrebbe almeno prevedere il dare vita a organizzazioni mondiali più efficaci, dotate di autorità per assicurare il bene comune mondiale, lo sradicamento della fame e della miseria, la difesa dei diritti umani fondamentali. È in questa prospettiva, precisa sempre papa Francesco, che diventa necessaria una riforma sia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che dell’architettura economica e finanziaria internazionale, affinché si possa dare reale concretezza al concetto di famiglia di Popoli. Senza dubbio ciò presuppone limiti giuridici precisi, per evitare che si tratti di un’autorità cooptata solo da alcuni Paesi e, nello stesso tempo, per impedire imposizioni culturali o la riduzione delle libertà essenziali delle nazioni più deboli a causa di differenze ideologiche. Il compito delle Nazioni Unite, a partire dai postulati del Preambolo e dei primi articoli della sua Carta costituzionale, può essere visto come lo sviluppo e la promozione della sovranità del diritto, sapendo che la giustizia è requisito indispensabile per realizzare l’ideale della fraternità universale. […] Bisogna assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni Unite, vera norma giuridica fondamentale», (Cf Fratelli tutti, nn. 172 – 173).

[7] Su questo si legga S. Zamagni, Oltre il dualismo bellicismo-pacifismo: una via per costruire la pace, in «il Cantico», Marzo-Aprile 2022 on line, pp. 7-8.

[8] Chi scrive ha predisposto un Commento su tale Messaggio: M. Toso, La nonviolenza stile di una nuova politica per la pace, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa, Roma 2017.

[9] Si tratta di una letteratura molto vasta. Qui, ci limitiamo a rimandare ai seguenti volumi: S. J. Pharr- R. D. Putnam (a cura di), Disaffected Democracies. What’s Troubling the Trilateral Countries, Princeton University Press, Princeton 2000; G. Zagrebelsky, La democrazia e la felicità, a cura di E. Mauro, Laterza, Roma-Bari 2011; C. Galli, Il disagio della democrazia, Einaudi, Torino 2011.

[10] Cf, ad esempio, Francesco, Discorso al II Incontro dei Movimenti Popolari (9 luglio 2015).

[11] Francesco, Laudato si’, n. 14.

[12] Cf, ad esempio, Francesco, Discorso ai Rappresentanti della Confederazione Cooperative Italiane (28 febbraio 2015).

[13] Su questo si veda J. Rifkin, Un green new deal globale. Il crollo della civiltà dei combustibili fossili entro il 2028 e l’audace piano economico per salvare la terra, Mondadori, Milano 2019.