La settimana sociale di Cagliari e il lavoro

09-04-2018

LA SETTIMANA SOCIALE DI CAGLIARI E IL LAVORO

  1. La situazione del lavoro oggi

Bastano poche cifre per descrivere la situazione del lavoro oggi. Il nostro tasso di occupazione è del 57,8%, circa 10 punti inferiore a quello medio dell’Eurozona. Il tasso di disoccupazione giovanile è del 35,4% (fatta eccezione per l’Emilia Romagna), ma nell’Eurozona la media è scesa sotto il 20%. Stessa distanza siderale tra tasso di occupazione femminile italiano (48,8%) e quello medio Ue al 62%. Con la mancanza del lavoro è cresciuta la povertà e il lavoro povero, il lavoro sfruttato, deturpato dall’illegalità come le agromafie, il caporalato e le ecomafie.

È in questo contesto che si è celebrata la Settimana sociale dei cattolici a Cagliari lo scorso ottobre. L’obiettivo era, più che la critica dell’esistente, quello di aprire processi, impegnando le comunità cristiane e la società a rimettere al centro il lavoro, per giungere a crearne di nuovo, mettendo in rete persone competenti e soggetti sociali. Pertanto, non tanto e solo denunciare le situazioni più critiche ma anche narrare i cambiamenti del lavoro e capire i nuovi problemi. E questo, per procedere poi al rilevamento di buone pratiche, per avanzare delle proposte a livello di governo e di società civile.

  1. Cambiamenti e strumentalizzazioni contemporanee del lavoro

In un conteso socio-economico, in cui le nuove tecnologie trovano ampia applicazione, in concomitanza all’affermarsi dell’industria 4.0, che libera sempre di più dalla ripetitività e dalle fatiche fisiche, favorendo la creatività e l’interazione nelle imprese; ossia in un mondo che registra il suo potenziamento produttivo e generativo, non mancano, peraltro, seri pericoli per la sua svalutazione ed emarginazione, per la sua indisponibilità per tutti.1 Attività fondamentale per lo sviluppo della vita personale e sociale, troppo spesso il lavoro non viene valorizzato in tutte le sue potenzialità di personalizzazione e di umanizzazione, di miglioramento della qualità della vita, di diversificazione produttiva, perché, come ha scritto papa Francesco, si investe di più in vista della riduzione dei costi della produzione e dei posti di lavoro,2 e meno sulle persone, meno in vista della creatività imprenditoriale, della nascita di nuove aree di operosità, che possono sorgere, ad esempio, mediante lo sviluppo dell’economia circolare, il progresso nell’ambito delle energie rinnovabili e dell’ecologia sociale ed urbana. La stessa messa in atto della robotizzazione e della digitalizzazione comanda nuovi modelli organizzativi delle imprese, l’acquisizione di nuove competenze e di una più alta professionalizzazione e, quindi, non tanto la fine del lavoro umano, bensì la nascita di una nuova tipologia di attività autonome e di qualifiche lavorative.3 Anche nel contesto di una avanzatissima automazione, il lavoro, seppur ridotto nelle sue forme tradizionali, resta centrale. Vede riqualificato il suo ruolo e accresciute le sue nuove modalità come il telelavoro, il coworking (spazi di lavoro condiviso), indipendentemente dalla localizzazione geografica dell’ufficio o dell’azienda. Semmai bisogna vigilare, con adeguate politiche (non escluse quelle fiscali),4 – pena l’aumento della disoccupazione e l’indebolimento della democrazia -, sulla forbice che si verrà a creare tra lavori «poco qualificati e remunerati» (i nuovi fattorini del digitale, i braccianti agricoli sfruttati, tutti coloro che lodevolmente si occupano di servizi alla persona) e i lavori ad alta competenza creativa ben remunerati; tra lavoro nero, lavoro non tutelato e lavoro a tempo pieno, stabile e protetto.

  1. Cause del deficit di lavoro per tutti oggi.

Fra di esse si possono annoverare: la carenza di un’adeguata cultura del lavoro (presso i giovani, gli imprenditori, i politici), l’assenza di politiche attive che lo favoriscono, il mancato coordinamento tra le parti sociali, il vuoto di fondamentali istituzioni sovranazionali atte a governare la globalizzazione,5 ad incoraggiare, orientare, decidere e sanzionare i mercati, ma anche, come già accennato, un progresso tecnologico volto esclusivamente a sostituire sempre più il lavoro umano; un’insufficiente sinergia tra scuola e lavoro (alle volte, così come viene organizzata, può essere per gli studenti una perdita di tempo),6 il diffondersi di una mentalità secondo cui il lavoro non è un bene fondamentale per le persone, bensì semplice forza produttiva, strumento in vista del profitto, merce, variabile dipendente dai mercati finanziari e monetari.

In un contesto in cui ancora domina un capitalismo finanziario assolutizzante il profitto a breve, brevissimo termine, il lavoro è prevalentemente considerato quale mezzo per produrre ricchezza. Se le persone che lavorano non sono produttrici di guadagni rapidi, specie mediante la finanza speculativa, non meritano considerazione dal punto di vista dell’erogazione del credito. Il loro lavoro non è così importante per la produzione della ricchezza nazionale, come emerge anche presso alcune nuove fprze politiiche. Vale soprattutto il lavoro dello speculatore. Il lavoro manuale, artigianale, agricolo, sociale è svalutato. L’ideologia del capitalismo finanziario, in definitiva, tende a scindere il lavoro dal soggetto che lo compie e, inoltre, a porre al centro del mercato non le persone ma la finanza, il profitto. Con un simile capitalismo, né democratico né funzionale all’economia reale, il lavoro perde la centralità, viene impoverito dal punto di vista antropologico ed etico, sociale e culturale. Soprattutto perde dignità. Un analogo riduzionismo il lavoro lo subisce a causa di quella tecnocrazia che pensa di risolvere tutti i problemi con l’applicazione delle nuove scoperte scientifiche, ignorando i bisogni umani che non posseggono un potere d’acquisto, ma hanno una dimensione di trascendenza, a cui non possono rispondere la semplice tecnica e il mercato. Si dimentica che le innovazioni tecnologiche non hanno un’applicazione senza limiti. Non tutto ciò che è fattibile tecnicamente è moralmente accettabile.

Come reagire alla moderna «cosificazione» del lavoro, come risemantizzarlo dal punto di vista antropologico, etico, sociale e culturale?

  1. Una nuova cultura del lavoro: l’apporto della Dottrina sociale della Chiesa

Già san Giovanni Paolo II, nel secolo scorso, sollecitava una nuova evangelizzazione del sociale e, connessa a questa, una nuova cultura del lavoro, che egli ha cercato di delineare nell’importante enciclica Laborem exercens (=LE). In essa sono rinvenibili i nuclei fondamentali di un nuovo umanesimo del lavoro, che sono:

  1. Il lavoro è un bene dell’uomo. Il lavoro è un obbligo morale per ogni persona sia in obbedienza al­l’ordine del Creatore, sia per il fatto che lo sviluppo del­la sua stessa umanità e di quel­la del suo prossimo esige il lavoro. Il dovere e il diritto di lavorare esistono, in definitiva, perché il lavoro è per l’uomo un bene: un bene utile, degno di lui, cioè capace di esprimere ed accrescere il suo essere globale.7 Più in par­ticolare, è bene del­l’uomo, per l’uomo, perché mediante esso si acquista il diritto al­la proprietà e si accede normalmente ad essa,8 si può formare e mantenere una famiglia,9 si contribuisce al­la creazione del reddito nazionale, al bene del­le generazioni future, al bene comune mondiale del­la famiglia umana.10 Tutto ciò costituisce l’obbligo morale del lavoro, inteso nel­la sua ampia accezione.11 Quanto detto esige che, nelle varie società, si creino le condizioni di accesso al lavoro per tutti:12 perché se il lavoro è un bene dell’uomo è un dovere e, se dovere, un diritto, un diritto di tutti. Il lavoro – qualunque lavoro, anche il più umile – è un’espressione essenziale del­la persona, è actus personae,13 e ogni forma di materialismo ed economicismo, passati e futuri, che in linea di fatto o di principio tentino di ridurlo a puro strumento di produzione, a semplice forzalavoro, mirando esclusivamente o prevalentemente al suo valore economico, ne snaturano irrimediabilmente l’essenza, poiché lo privano del suo contenuto più nobile, profondamente umano: la personalità. La soggettività del lavoro è, dunque, il fondamento per determinare il valore del lavoro. Il metro del­la dignità del lavoro risiede in chi lo svolge e non tanto nel genere di lavoro che compie; per questo non si deve vedere separazione tra le diverse forme del lavoro, manuale e intel­lettuale. La soggettività del lavoro induce a concludere che il lavoro è per l’uomo e non l’uo­mo per il lavoro. Questo principio indica la necessità di relativizzare il lavoro, che è sì un valore, ma non il valore unico e sommo della vita e del destino dell’uomo. Se assolutizzato il lavoro occupa il centro della vita sociale, divenendone il fine ultimo.

  1. Il lavoro ha il primato sul capitale. Questo principio riguarda direttamente il processo stesso del­la produzione, ove il capitale è dato anzitutto, oltre che dal­le risorse del­la natura messe a disposizione del­l’uomo da Dio Creatore, dal­l’insieme dei mezzi mediante cui l’uomo se ne appropria, trasformandole a misura del­le sue necessità. Nel processo produttivo, ricorda la Laborem exercens, il lavoro è sem­pre causa efficiente primaria; le risorse naturali e i mezzi di produzione, dai più primitivi a quel­li più moderni e complessi, sono solo uno strumento, sono causa strumentale.14 Detto altrimenti, nel processo di produzione l’uomo del lavoro ha il primato di fronte al­le cose e di fronte al capitale, dato che questo in definitiva è un insieme di cose. L’uomo del lavoro è la «risorsa» più importante.15Qualsiasi organizzazione del lavoro che capovolga il primato del lavoro a favore del capitale non è corrispondente alla dignità dell’uomo.

 

  1. L’uomo è per Dio: non di solo pane vive l’uomo. L’uomo nel­la sua esistenza e finalità eccede il lavoro. Egli, come già visto, ha il primato sul lavoro e questo non può essere il suo fine ultimo. L’uo­mo è per Dio, il lavoro non può diventare per lui un idolo, l’unico scopo del­la vita. Indipendentemente dal suo contenuto oggettivo, il lavoro deve essere subordinato e finalizzato al suo soggetto, ossia al­la realizzazione del­la sua umanità e al compimento del­la sua vocazione ad essere per­sona. Lo scopo del lavoro, di qualunque lavoro eseguito dal­l’uomo – fosse pure il lavoro più servile, più monotono nel­la scala del­la comune valutazione – rimane sempre l’uomo stesso. La soggettività piena del lavoro o il pieno personalismo del lavoro consistono proprio in questo, e cioè che il lavoro non soltanto procede dal­la persona umana, ma è anche essenzialmente ordinato e finalizzato ad essa, essere aperto alla Trascendenza. Così inteso il lavoro ha il suo soggetto, fondamento e fine nella persona.

 

Ciò premesso, si può affermare che, nel contesto odierno la DSC ci aiuta a compiere una conversione culturale, a recuperare la centralità della persona che lavora, rispetto alla tecnocrazia odierna e al capitalismo finanziario ammalato di breveperiodismo.16 Il lavoro va ripensato nella sua soggettività, oltre che, ovviamente, nei suoi aspetti oggettivi strumentali, pur importanti. La tecnica e la finanza vanno riportate alla loro funzione più propria, di servizio all’economia reale e alla società. Occorre passare da un modello di sviluppo materialistico e consumistico, tecnocratico, basato sullo sfruttamento indiscriminato dell’uomo e del creato, su un’espansione illimitata, ad uno sviluppo integrale, solidale, sostenibile, inclusivo. Non può considerarsi progresso uno sviluppo tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore. Entro il quadro antropologico ed etico della DSC, il lavoro – come fonte ultima della produzione di valore, punto di incontro focale tra la vita personale e l’organizzazione sociale circostante – può essere ripensato e vissuto esattamente come attività che consente di costruire la nostra vita comune, la pace.

  1. C’è bisogno di un lavoro degno dell’uomo

In un contesto in cui il lavoro è fortemente sottodimensionato dal punto di vista antropologico ed etico, ma anche dal punto di vista sociale, occorre evidenziarne, diffonderne e promuoverne le modalità e le peculiarità che consentono di accrescere la dignità delle persone, nonché di conseguire i beni collettivi quali lo sviluppo integrale, la salvaguardia e la promozione del creato, la pace.

Il lavoro è strumento di uno sviluppo inclusivo e sostenibile quando non sia asservito all’avidità del denaro che sfrutta i lavoratori, depreda il creato e non rispetta la giustizia intergenerazionale. Così, può essere generativo e al servizio della pace quando sia organizzato e vissuto come bene che contribuisce alla concretizzazione del bene comune della famiglia umana. Entro questa prospettiva, papa Francesco ha in questi anni di pontificato evidenziato che l’universalizzazione del lavoro è antidoto alla povertà e alla diseguaglianza, ed è titolo di partecipazione alla vita politica (cf Evangelii gaudium n. 192). Il lavoro è lo strumento mediante cui il povero può esprimere ed accrescere la sua dignità, emanciparsi, contribuire alla realizzazione di una democrazia sostanziale, partecipativa ed inclusiva.

Il lavoro, pertanto, va visto come una priorità umana perché mediante esso non solo si acquisisce un reddito, ma ci si riscatta, si accresce la propria libertà, si coltiva e si fa crescere le potenzialità della terra; perché si «fonda», come è scritto nell’art. 1 della Costituzione italiana, la repubblica, ovvero la società politica democratica, una società equa. Occorre, pertanto promuovere un lavoro che è «amico» dell’uomo e della sua crescita, che lo fa fiorire nella sua dignità e lo rende protagonista dal punto di vista politico. «Un lavoro che permetta ai lavoratori di essere rispettati al di fuori di ogni discriminazione; un lavoro che consenta di soddisfare le necessità delle famiglie e di scolarizzare i figli, senza che questi siano costretti essi stessi a lavorare; un lavoro che permetta ai lavoratori di organizzarsi liberamente e di far sentire la loro voce; un lavoro che lasci uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie radici a livello personale, familiare e spirituale; un lavoro che assicuri ai lavoratori giunti alla pensione una condizione dignitosa» (Caritas in veritate n. 63). Non è, invece, degno dell’uomo un lavoro sempre più caratterizzato dalla precarietà come ci potrebbe offrire un futuro tecnologico non ben orientato e governato, oppure quel lavoro che sarebbe sostenuto da semplici misure assistenziali, da assegni sociali, come ha sottolineato papa Francesco a Genova. L’ideale non è un mondo ove solo metà o forse due terzi dei lavoratori lavoreranno, e gli altri saranno mantenuti da un assegno sociale. Dev’essere chiaro, ha insistito il pontefice, che l’obiettivo vero da raggiungere non è «il reddito per tutti», bensì il «lavoro per tutti». Perché senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti. Il lavoro dà dignità. Vivere e mangiare attraverso il lavoro delle proprie mani non è come ricevere un sostegno economico, che mi permette di vivere, sì, ma che proviene, in definitiva, dal lavoro altrui.

  1. Un lavoro libero, creativo, partecipativo, solidale

C’è, invece, bisogno di un lavoro libero, creativo, partecipativo, solidale. Quando l’economia sia abitata da buoni imprenditori, le imprese sono amiche della gente e anche dei poveri, oltre che della pace.

Il Comitato Scientifico e Organizzatore delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani, in vista della 48.a Settimana sociale di Cagliari (26-29 ottobre 2017), dedicata al tema del lavoro, ha fatto propria la prospettiva di papa Francesco, peraltro già espressa nell’Evangelii Gaudium al n. 192, ossia quella, appena citata, di un «lavoro libero, creativo, partecipativo, solidale».

Lo stesso pontefice ha spiegato il significato dei vari aggettivi in occasione del 70° anniversario della fondazione delle Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani (23 maggio 2015). Con queste espressioni: «L’estendersi della precarietà, del lavoro nero e del ricatto malavitoso fa sperimentare, soprattutto tra le giovani generazioni, che la mancanza del lavoro toglie dignità, impedisce la pienezza della vita umana e reclama una risposta sollecita e vigorosa. […] Dobbiamo far sì che, attraverso il lavoro – il «lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale» (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 192) – l’essere umano esprima ed accresca la dignità della propria vita. Vorrei dire qualcosa su queste quattro caratteristiche del lavoro. Il lavoro libero. La vera libertà del lavoro significa che l’uomo, proseguendo l’opera del Creatore, fa sì che il mondo ritrovi il suo fine: essere opera di Dio che, nel lavoro compiuto, incarna e prolunga l’immagine della sua presenza nella creazione e nella storia dell’uomo. Troppo spesso, invece, il lavoro è succube di oppressioni a diversi livelli: dell’uomo sull’altro uomo; di nuove organizzazioni schiavistiche che opprimono i più poveri; in particolare, molti bambini e molte donne subiscono un’economia che obbliga a un lavoro indegno che contraddice la creazione nella sua bellezza e nella sua armonia. Dobbiamo far sì che il lavoro non sia strumento di alienazione, ma di speranza e di vita nuova. Cioè, che il lavoro sia libero. Secondo: il lavoro creativo. Ogni uomo porta in sé una originale e unica capacità di trarre da sé e dalle persone che lavorano con lui il bene che Dio gli ha posto nel cuore. Ogni uomo e donna è “poeta”, capace di fare creatività. Poeta vuol dire questo. Ma questo può avvenire quando si permette all’uomo di esprimere in libertà e creatività alcune forme di impresa, di lavoro collaborativo svolto in comunità che consentano a lui e ad altre persone un pieno sviluppo economico e sociale. Non possiamo tarpare le ali a quanti, in particolare giovani, hanno tanto da dare con la loro intelligenza e capacità; essi vanno liberati dai pesi che li opprimono e impediscono loro di entrare a pieno diritto e quanto prima nel mondo del lavoro. Terzo: il lavoro partecipativo. Per poter incidere nella realtà, l’uomo è chiamato ad esprimere il lavoro secondo la logica che più gli è propria, quella relazionale. La logica relazionale, cioè vedere sempre nel fine del lavoro il volto dell’altro e la collaborazione responsabile con altre persone. Lì dove, a causa di una visione economicistica, come quella che ho detto prima, si pensa all’uomo in chiave egoistica e agli altri come mezzi e non come fini, il lavoro perde il suo senso primario di continuazione dell’opera di Dio, e per questo è opera di un idolo; l’opera di Dio, invece, è destinata a tutta l’umanità, perché tutti possano beneficiarne. E quarto, il lavoro solidale. Ogni giorno voi incontrate persone che hanno perso il lavoro – questo fa piangere –, o in cerca di occupazione. E prendono quello che capita. Alcuni mesi fa, una signora mi diceva che aveva preso un lavoro, 10/11 ore, in nero, a 600 euro al mese. E quando ha detto: “Ma, niente di più?” – “Ah, se non le piace se ne vada! Guardi la coda che c’è dietro di lei”. Quante persone in cerca di occupazione, persone che vogliono portare a casa il pane: non solo mangiare, ma portare da mangiare, questa è la dignità. Il pane per la loro famiglia. A queste persone bisogna dare una risposta. In primo luogo, è doveroso offrire la propria vicinanza, la propria solidarietà. I tanti “circoli” delle ACLI, che oggi sono da voi rappresentati qui, possono essere luoghi di accoglienza e di incontro. Ma poi bisogna anche dare strumenti ed opportunità adeguate. E’ necessario l’impegno della vostra Associazione e dei vostri Servizi per contribuire ad offrire queste opportunità di lavoro e di nuovi percorsi di impiego e di professionalità. Dunque: libertà, creatività, partecipazione e solidarietà. Queste caratteristiche fanno parte della storia delle ACLI. Oggi più che mai siete chiamati a metterle in campo, senza risparmiarvi, a servizio di una vita dignitosa per tutti. E per motivare questo atteggiamento, pensate ai bambini sfruttati, scartati; pensate agli anziani scartati, che hanno una pensione minima e non sono curati; e pensate ai giovani scartati dal lavoro: e cosa fanno? Non sanno cosa fare, e sono in pericolo di cadere nelle dipendenze, cadere nella malavita, o andarsene a cercare orizzonti di guerra, come mercenari. Questo fa la mancanza di lavoro! Vorrei toccare brevemente ancora tre aspetti – è un po’ lungo questo discorso, scusatemi -. Il primo: la vostra presenza fuori d’Italia. Iniziata al seguito dell’emigrazione italiana, anche oltreoceano, essa è un valore molto attuale. Oggi molti giovani si spostano per cercare un lavoro adeguato ai propri studi o per vivere un’esperienza diversa di professionalità: vi incoraggio ad accoglierli, a sostenerli nel loro percorso, ad offrire il vostro supporto per il loro inserimento. Nei loro occhi potete trovare un riflesso dello sguardo dei vostri padri o dei vostri nonni che andarono lontano per lavorare. Possiate essere per loro un buon punto di riferimento. Inoltre, la vostra Associazione sta affrontando il tema della lotta alla povertà e quello dell’impoverimento dei ceti medi. La proposta di un sostegno non solo economico alle persone al di sotto della soglia di povertà assoluta, che anche in Italia sono aumentate negli ultimi anni, può portare benefici a tutta la società. Allo stesso tempo va evitato che nella povertà scivolino coloro che fino a ieri vivevano una vita dignitosa. Noi, nelle parrocchie, nelle Caritas parrocchiali, vediamo questo tutti i giorni: uomini o donne che si avvicinano un po’ di nascosto per prendere il cibo da mangiare… Un po’ di nascosto perché sono diventati poveri da un mese all’altro. E hanno vergogna. E questo succede, succede, succede… Fino a ieri vivevano una vita dignitosa… Basta un niente oggi per diventare poveri: la perdita del lavoro, un anziano non più autosufficiente, una malattia in famiglia, persino – pensate il terribile paradosso – la nascita di un figlio: ti può portare tanti problemi, se sei senza lavoro. E’ una importante battaglia culturale, quella di considerare il welfare una infrastruttura dello sviluppo e non un costo. Voi potete fare da coordinamento e da motore dell’“Alleanza nuova contro la povertà”, che si propone di sviluppare un piano nazionale per il lavoro decente e dignitoso. E infine, ma non per importanza, il vostro impegno abbia sempre il suo principio e il suo collante in quella che voi chiamate ispirazione cristiana, e che rimanda alla costante fedeltà a Gesù Cristo e alla Parola di Dio, a studiare e applicare la Dottrina sociale della Chiesa nel confronto con le nuove sfide del mondo contemporaneo».

  1. Ancora alcune parole sul lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale: migranti, burocrazia pletorica, finanza, innovazione

    1. Lavoro libero. Ovvero lavoro non schiavo

Nel Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2015 papa Francesco scrive su alcune forme di lavoro schiavo: «Penso a tanti lavoratori e lavoratrici, anche minori, asserviti nei diversi settori, a livello formale e informale, dal lavoro domestico a quello agricolo, da quello nell’industria manifatturiera a quello minerario, tanto nei Paesi in cui la legislazione del lavoro non è conforme alle norme e agli standard minimi internazionali, quanto, sia pure illegalmente, in quelli la cui legislazione tutela il lavoratore. Penso anche alle condizioni di vita di molti migranti che, nel loro drammatico tragitto, soffrono la fame, vengono privati della libertà, spogliati dei loro beni o abusati fisicamente e sessualmente. Penso a quelli tra di loro che, giunti a destinazione dopo un viaggio durissimo e dominato dalla paura e dall’insicurezza, sono detenuti in condizioni a volte disumane. Penso a quelli tra loro che le diverse circostanze sociali, politiche ed economiche spingono alla clandestinità, e a quelli che, per rimanere nella legalità, accettano di vivere e lavorare in condizioni indegne, specie quando le legislazioni nazionali creano o consentono una dipendenza strutturale del lavoratore migrante rispetto al datore di lavoro, ad esempio condizionando la legalità del soggiorno al contratto di lavoro… Sì, penso al “lavoro schiavo”».

Il lavoro è libero anche quando sia consentita la libera iniziativa. Bisogna riconoscere che la libera iniziativa in Italia sia soffocata da una burocrazia pletorica, paralizzante e paralizzata dal rischio di assumersi qualunque responsabilità visti i pericoli legali a cui va incontro. Bisogna assolutamente conciliare onestà e trasparenza con snellezza delle procedure. Specie per i giovani non si può parlare di lavoro libero quando volendo intraprendere un’attività non riescono a trovare istituzioni bancarie che offrano a loro il credito se non a condizione di essere proprietari di beni come la casa o di un buon conto in banca. Il lavoro libero può fiorire quando sia reso accessibile almeno quel microcredito che viene erogato a tasso basso e con forme di tutoraggio, le quali accompagnano i giovani nell’impiantare un’iniziativa di lavoro. In vista di ciò occorre che la politica, all’interno dei vari Paesi, sostenga banche locali, di comunità o di territorio (per es. le Landesbank tedesche o le Community Investment Banks statunitensi), oppure piattaforme di finanza alternativa aventi la missione specifica del finanziamento alla piccola impresa locale senza l’assillo della necessità di creare il massimo valore per gli azionisti. I dati relativi alla fine del 2016 continuano ad indicare che in Italia il credito ai piccoli resta uno dei problemi più seri. Nel Rapporto del primo trimestre del 2017, rielaborando i dati di Bankitalia, Confartigianato sottolinea che tra il 2014 e il 2016 l’unico segmento produttivo che ha registrato un calo di prestiti è quello delle microimprese (-2,2%) a fronte dell’aumento per le grandi.17

    1. Lavoro creativo

Il lavoro creativo è quell’attività mediante la quale si producono beni e servizi utili, nuovi, buoni in sé e per sé (non per il salario, per il padrone, gli intenditori, per i clienti), necessari per costruire se stessi, gli altri, la società, l’ambiente. Il lavoro creativo si oppone al lavoro che distrugge e non costruisce. In un contesto di digitalizzazione e di robotizzazione il lavoro è chiamato a superare forme tradizionali usuranti e poco efficaci per assumere forme che creano maggior efficacia e qualità nel processo produttivo, distributivo. Oggi assume, in particolare, la configurazione della creatività ogni attività che evita l’inquinamento e il deterioramento della casa comune, il consumo illimitato di risorse non rinnovabili. È attività creativa quella che usufruisce dell’innovazione, delle nuove tecnologie, le quali non sono adoperate in qualsiasi maniera (non tutto ciò che è tecnicamente possibile è anche etico), ma sono messe a disposizione della creazione di nuove aree di operosità, di energie rinnovabili ovvero della transizione energetica, del miglioramento degli ambienti abitativi ed urbani, del mondo vegetale e animale, del mondo rurale ed agricolo. Il lavoro creativo non rinuncia alle nuove possibilità che offre la tecnologia. Esso le utilizza servendo la crescita integrale delle persone e del creato, il bene comune. In particolare le utilizza per promuovere forme di risparmio energetico, per favorire modalità di produzione industriale con massima efficienza energetica e minor utilizzo di materie prime, per realizzare costruzione o ristrutturazione di edifici che riducano il consumo energetico e il livello di inquinamento, per sviluppare un’economia dei rifiuti e del riciclaggio.

    1. Lavoro partecipativo

Il lavoro partecipativo è quella attività professionale mediante cui non solo si concorre a produrre beni e servizi utili a tutti ma anche con cui si concorre a determinare scelte, soluzioni all’interno delle imprese e delle istituzioni presso le quali si lavora. Per la Dottrina sociale della Chiesa è fondamentale che per chi lavora ad un banco comune di lavoro abbia voce in capitolo, ossia non sia un mero esecutore di ordini e di operazioni. È insita nella dignità stessa dell’uomo del lavoro l’esigenza di partecipare al prodotto comune, ai profitti, di prendere parte con il consiglio all’organizzazione delle varie attività imprenditive. La stessa Dottrina sociale sollecita, soprattutto per le medie e grandi imprese, di prevedere per i lavoratori la partecipazioni alla proprietà mediante azioni o la presenza di rappresentanti nei consigli di amministrazione, senza che questo pregiudichi l’unità della gestione. La partecipazione dei lavoratori nelle imprese oggi è resa difficile dalla loro complessificazione, dalla coesistenza di molti soggetti, tra i quali, gli imprenditori, i dirigenti, i portatori di capitali o azionisti di riferimento, i lavoratori, dalla delocalizzazione, dalle OPA. Come ha mostrato la finanziarizzazione dell’economia sulle imprese hanno una grande incidenza gli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi (cf CIV n. 40). Il fatto, poi, che spesso la proprietà delle imprese sia nelle mani di holding straniere rende più arduo il controllo della gestione e delle decisioni da parte di eventuali rappresentanti dei lavoratori. Oggi, più che mai, in un contesto di industria 4.0, che vede l’effettuarsi di tecnicizzazioni spinte del lavoro, mediante digitalizzazione e robotizzazione, diventa indispensabile la partecipazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti nei consigli di amministrazione e di gestione. La condeterminazione dei lavoratori nella gestione e nell’indirizzo economico va promossa in ordine all’umanizzazione delle imprese, della loro «democratizzazione». La democratizzazione dell’economia, come sostenne Thomas Burton Bottomore, è fondamentale anche in vista della realizzazione della democrazia politica. Secondo T. Bottomore un governo democratico, che esige dall’individuo un giudizio indipendente e una partecipazione attiva alla decisione d’importanti problemi sociali, non si può sviluppare quando in una sfera principale della vita, quella del lavoro e della produzione economica, si nega alla maggior parte degli individui l’opportunità di partecipare effettivamente alla formulazione di decisioni che hanno per loro un’importanza vitale. Alla FCA (=Fiat Chrysler Automobiles) di Pomigliano d’Arco si stanno riducendo i confini fra operai ed ingegneri, e forse anche fra operai, ingegneri e manager. La media dei suggerimenti di ciascun operai per migliorare il processo produttivo a Pomigliano è di 30 l’anno, un valore enorme che è frutto del team working e della rotazione. Nelle altre fabbriche, dove pure c’è il WCM sta crescendo, la media dei suggerimenti è di 10-20 l’anno. Trenta suggerimenti l’anno vuol dire quattro o cinque punti di riduzione dei costi industriali che si cumulano anno per anno: sono cifre molto elevate mai raggiunte nella fabbriche fordiste. Per tutto questo si può dire che l’operaio che dà 30 suggerimenti è un “pezzo” di ingegnere e l’ingegnere che va in catena a risolvere i problemi di qualità che l’operaio gli segnala è un “pezzo” di operaio. In breve, il confine tra di loro sta riducendosi e c’è una sorta di rovesciamento di ruoli, fra l’esecutore e chi comanda, tranne nel caso dei top manager che decidono le grandi strategie. Il lavoro operaio diventa sempre più autonomo, intelligente, creativo, partecipativo. Naturalmente non tutto va in questa direzione: ci sono sempre i dirty work, cioè quelli che fanno i lavori sporchi, le pulizie, ecc. Ma anche in questi casi vi sono esempi di automazione e di nuove tecnologie.

    1. Lavoro solidale

Qualsiasi lavoro allorché sia posto in atto, non è solo per se stessi, per il proprio mantenimento e quello della propria famiglia, ma è anche un servizio reso agli altri, alla società, all’ambiente, ovviamente quando non sia un lavoro che preda le risorse a scopi di puro profitto e per il proprio guadagno. Da questo punto di vista il lavoro è solidale. L’imprenditore che si trasforma in puro speculatore, come ha sottolineato papa Francesco a Genova, non è solidale con i suoi operai e con la società, perché non ama i suoi lavoratori e la sua stessa impresa, bensì il suo portafoglio.

L’imprenditore che persegue il profitto con responsabilità sociale nei confronti dell’ambiente vive la solidarietà nei confronti delle presenti e delle future generazioni. «L’accaparramento delle risorse energetiche non rinnovabili da parte di alcuni Stati, gruppi di potere e imprese costituisce, invece, un grave impedimento per lo sviluppo dei Paesi poveri. Questi non hanno i mezzi economici né per accedere alle esistenti fonti energetiche non rinnovabili né per finanziare la ricerca di fonti nuove e alternative. L’incetta delle risorse naturali, che in molti casi si trovano proprio nei Paesi poveri, genera sfruttamento e frequenti conflitti tra le Nazioni e al loro interno. Tali conflitti si combattono spesso proprio sul suolo di quei Paesi, con pesanti bilanci in termini di morte, distruzione e ulteriore degrado. La comunità internazionale ha il compito imprescindibile di trovare le strade istituzionali per disciplinare lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili, con la partecipazione anche dei Paesi poveri, in modo da pianificare insieme il futuro.

Anche su questo fronte vi è l’urgente necessità morale di una rinnovata solidarietà, specialmente nei rapporti tra i Paesi in via di sviluppo e i Paesi altamente industrializzati. Le società tecnologicamente avanzate possono e devono diminuire il proprio fabbisogno energetico sia perché le attività manifatturiere evolvono, sia perché tra i loro cittadini si diffonde una sensibilità ecologica maggiore. Si deve inoltre aggiungere che oggi è realizzabile un miglioramento dell’efficienza energetica ed è al tempo stesso possibile far avanzare la ricerca di energie alternative. È però anche necessaria una ridistribuzione planetaria delle risorse energetiche, in modo che anche i Paesi che ne sono privi possano accedervi. Il loro destino non può essere lasciato nelle mani del primo arrivato o alla logica del più forte. Si tratta di problemi rilevanti che, per essere affrontati in modo adeguato, richiedono da parte di tutti la responsabile presa di coscienza delle conseguenze che si riverseranno sulle nuove generazioni, soprattutto sui moltissimi giovani presenti nei popoli poveri, i quali “reclamano la parte attiva che loro spetta nella costruzione d’un mondo migliore”» (CIV n. 49).

Un lavoro solidale si realizza, dunque, sia nelle imprese for profit allorché siano rispettati i diritti dei lavoratori e dell’ambiente, sia all’interno delle imprese non profit, ossia in quelle imprese che non sono finalizzate al profitto, sia anche in quell’ampia area intermedia tra imprese profit ed imprese non profit, che è costituita da «imprese tradizionali, che però sottoscrivono dei patti di aiuto ai Paesi arretrati; da fondazioni che sono espressione di singole imprese; da gruppi di imprese aventi scopi di utilità sociale; dal variegato mondo dei soggetti della cosiddetta economia civile e di comunione. Non si tratta solo di un “terzo settore”, ma di una nuova ampia realtà composita, che coinvolge il privato e il pubblico e che non esclude il profitto, ma lo considera strumento per realizzare finalità umane e sociali. Il fatto che queste imprese distribuiscano o meno gli utili oppure che assumano l’una o l’altra delle configurazioni previste dalle norme giuridiche diventa secondario rispetto alla loro disponibilità a concepire il profitto come uno strumento per raggiungere finalità di umanizzazione del mercato e della società» (CIV n. 46).

  1. Conclusione

Il «dopo Cagliari» va vissuto puntando sulla dignità del lavoro, sulla sua universalizzazione, perché bene delle persone. Il che comporta una versa conversione culturale rispetto alla prevalenza di visioni tecnocratiche o del solo reddito. In vista di ciò è fondamentale l’ausilio della Dottrina sociale della Chiesa. L’attenzione necessaria allo sviluppo dell’economia digitale e al formarsi dell’impresa 4.0 evidenzia l’importanza dell’innovazione come opportunità da cogliere e da indirizzare non solo al profitto, ma soprattutto alla creazione di nuovi lavori a servizio delle persone e della società, della promozione del creato. La risposta alla disoccupazione, specie giovanile, richiede, in particolare una nuova sinergia tra i vari soggetti sociali, economici e politici; nonché un metodo di analisi e di valorizzazione sistematica delle buone pratiche già esistenti nei territori.

1 Sulle trasformazioni del lavoro odierno si legga almeno: F. OCCHETTA, Il lavoro promesso. Libero, creativo, partecipativo e solidale, Àncora-La Civiltà Cattolica, Milano 2017, pp. 15-30; M. BENTIVOGLI, Abbiamo rovinato l’Italia? Perché non si può fare a meno del sindacato, Lit Edizioni Srl, Roma 2016, pp. 22-66.

2 Cf FRANCESCO, Laudato si’ n. 128.

3 Nelle aziende come Luxottica, Fiat, Siemens o Barilla è già possibile constatare l’applicazione delle nuove tecnologie. Queste superano e in parte usano le organizzazioni del lavoro precedente. I nuovi modelli di impresa hanno molti elementi in comune con quelli tradizionali. I nuovi «network globali» – ossia quelle imprese sovranazionali che hanno diversi poli produttivi, diversi stabilimenti specializzati, strettamente connessi in una catena logistica mondiale capace di spostare i componenti e i prodotti finiti da una parte all’altra del globo – convivono e sembrano destinati a convivere con quelle forme che alcuni chiamano «artigianato creativo», cioè quelle piccole imprese che grazie alle stampanti 3D e alle altre tecnologie, rilanceranno un nuovo tipo di lavoro artigiano, basato su artigiani-ingegneri, e perfino sulla produzione domestica, cioè fatta in casa. Si ipotizza che con una stampante 3D ognuno sarà in grado di farsi il pezzo di ricambio della lavatrice e di altri utensili con abbattimento rilevante di costi. Un altro esempio è offerto dall’agricoltura evoluta che combina in una sola impresa l’agriturismo, la produzione di energia rinnovabile, la produzione di cibo ecologico, il mantenimento del territorio.

4 Come ha recentemente rilevato il prof. L. Becchetti, il progresso tecnologico aumenta la ricchezza globale (attorno al 3% l’anno). Se questa ricchezza venisse opportunamente tassata e ridistribuita produrrebbe domanda diffusa che, a sua volta, genererebbe nuovi lavori (cf «Avvenire», sabato 5 agosto 2017, p. 1).

5 Cf F. DE LA IGLESIA VIGUIRISTI, Una globalizzazione da governare, in «La Civiltà Cattolica», III, 1/15 luglio 2017, pp. 49-62.

6 In Italia nonostante gli ultimi tentativi rimane un notevole scollamento tra mondo della scuola e mondo del lavoro. In Germania la disoccupazione giovanile è nulla e un giovane su quattro esce da scuola e/o università dopo un percorso duale che prevede una parte importante di formazione dentro il mondo del lavoro. Per intraprendere in modo decisio la via del sistema duale ci vorrebbero più risorse per rinforzare apprendistato, formazione professionale secondaria e terziaria, ma i fondi su queste partite sono stati diminuiti Anche la via di protezione sociale non viene percorsa con energia. Le risorse per il reddito di inclusione (REI) sono largamente insufficienti rispetto al fabbisogno necessario per portare tutti coloro che sono sotto la soglia di povertà almeno a quel livello minimo, avendo sempre come obiettivo il reinserimento nel tessuto sociale e produttivo. Le risorse da cui attingere potrebbero e dovrebbero essere anche quelle della WEB tax.

7 Cf LE 9.

8 Cf LE 14.

9 Cf LE 10.

10 Cf ib., 16.

11 Cf ib.

12 Cf LS n. 127.

13 Cf ib.

14 Cf LE 12.

15 Cf CA 32.

16 Su questi aspetti è bene leggere: J. E. STIGLITZ, Le nuove regole dell’economia, Il Saggiatore, Milano 2016, in particolare pp. 110-111.

17 Cf L. BECCHETTI, Postafazione: dire lavoro oggi, in F. OCCHETTA, Il lavoro promesso. Libero, creativo, partecipativo e solidale, Àncora-La Civiltà Cattolica, Milano 2017, pp. 134-135.