[apr 9] Omelia – Messa in coena Domini

Faenza, cattedrale 9 aprile 2020
09-04-2020

Cari fratelli e sorelle, in questa prima celebrazione del Triduo pasquale siamo chiamati a confrontarci col grande mistero dell’amore di Gesù per noi. Proprio nella notte in cui veniva tradito, ingiustamente condannato, e consegnato per essere crocifisso, Egli istituisce l’Eucaristia, che si può definire il sacramento del suo amore per la famiglia umana, per ognuno di noi. All’odio e al rifiuto risponde con il perdono, con un più di amore rigenerante. In che cosa, più precisamente, consiste il suo amore nei nostri confronti? Detto altrimenti, che cosa vuole donarci? La cosa più bella che egli pensa di regalarci è la sua capacità di amare Dio, il suo essere Figlio in piena comunione con il Padre, con il suo volere. E siccome questo suo essere in comunione con Dio costituisce l’essenza della sua personalità, Gesù desidera che noi acquisiamo una personalità come la sua. Ebbene, per darci la sua capacità di amare, la sua personalità, per ricreare la nostra umanità, in sostanza, istituisce l’Eucaristia. Risentiamo il racconto di tale istituzione, il più antico fra quelli riferiti dal Nuovo Testamento: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me» (1 Cor 11, 23-26). Come già detto, lo scopo dell’Istituzione dell’Eucaristia è quello di far sì che i discepoli di Gesù facciano piena comunione con Lui, per acquisire la sua capacità di amare, la sua capacità di essere in comunione con Dio Padre, per essere insomma umanità ricreata. Va sottolineato che Gesù si accinge ad istituire l’Eucaristia, come è riferito nel Vangelo di Lc (cf Lc 22,15), desiderandolo ardentemente, più di ogni altra cosa. Nel suo intimo attendeva da tempo di giungere a quel momento in cui avrebbe donato se stesso ai suoi, sotto le specie del pane e del vino. La sua incarnazione, la sua predicazione e la sua testimonianza dovevano culminare nelle nozze messianiche con l’umanità: ossia nel momento in cui con la trasformazione dei doni di questa terra e la loro assunzione da parte dei discepoli, il Figlio di Dio diventa una cosa sola con loro, per renderli come Lui, ossia più capaci di amare Dio e di trasformare il mondo. Gesù ci desidera, ci attende per essere una cosa sola con noi, per ricondurci al Padre. In breve, lo scopo primo ed ultimo della transustanziazione eucaristica, è la nostra trasformazione nella comunione con Cristo e tra di noi. L’obiettivo è che diventiamo persone nuove, un popolo nuovo. Nel pane spezzato, Gesù distribuisce se stesso. Ringraziando e benedicendo, Gesù trasforma il pane. E così non dà un pane terreno, ma se stesso, come amore in piena comunione con Dio, sino alla morte. In tale maniera, mentre dà se stesso come pane trasformato, ossia come comunione con Dio, dà inizio alla trasformazione dell’uomo e del mondo, ad una «nuova creazione». Egli si è fatto carne proprio per questo.

Gesù che dice «fate questo in memoria di me» invita noi, sua Chiesa a fare l’Eucaristia, ossia a fare comunione con Colui che si dona al Padre, con tutto se stesso, in corpo ed anima, sino a morire. La comunione con Gesù diventa partecipazione al sacrificio di Lui sommo Sacerdote, che consente di compiere il nostro sacrificio, ossia di rendere gradita e santa la nostra vita. La Chiesa celebra l’Eucaristia. L’Eucaristia, a sua volta, ci trasforma in umanità nuova, ci fa crescere come Chiesa, come popolo di Dio, pellegrino nella storia, e che trasforma il mondo, vivendo il sacerdozio di Gesù, la sua figliolanza. In breve: la Chiesa fa l’Eucaristia e l’Eucaristia fa la Chiesa. Eucaristia e Chiesa sono un binomio inscindibile. In questi giorni di pandemia abbiamo l’occasione di capire più profondamente come la comunità dei credenti non sia propriamente marginale nella celebrazione dell’Eucaristia e come, viceversa, l’Eucaristia manchi per davvero alla comunità fatta di persone, soggetti concreti, sinoli di anima e corpo.

Ma nella celebrazione di questa sera non possiamo dimenticare che Gesù istituisce anche il sacerdozio ministeriale dei presbiteri. Ordinati dal vescovo, essi celebrano il sacrificio del Signore, sommo ed eterno sacerdote, per far crescere il sacerdozio comune, ossia il sacerdozio che appartiene a tutto il popolo di Dio, agli stessi presbiteri, ai diaconi ai religiosi e alle religiose. In vista di far crescere nei fedeli la capacità di essere in comunione con Dio, alla maniera di Gesù, i presbiteri spezzano il pane, offrono il perdono di Dio, predicano il Vangelo, sono pastori che presiedono alla carità e guidano il popolo di Dio.

Conoscendo il loro importante ministero a servizio del popolo di Dio, affinché i cristiani percorrano la terra seminando la speranza, offrendo un principio di trasfigurazione del quotidiano; e conoscendo anche la loro attuale scarsità, questa sera non possiamo non pregare per loro, per le vocazioni sacerdotali, per la loro santità, perché siano cioè in mezzo alla loro gente senza paure, con il cuore stracolmo di Dio, impastati di preghiera. Abbiamo bisogno di sacerdoti che sappiano portare le persone a Gesù. Il loro cuore dev’essere pieno di amore per il Padre e la Chiesa. E così la cosa più importante non sarà la loro popolarità tra la gente, l’attrazione delle persone a sé, bensì l’impegno a far crescere credenti credibili, capaci di essere protagonisti nella ri-evangelizzazione di cui abbiamo sempre più bisogno nei nostri territori di antica tradizione cristiana. In questi giorni di epidemia mi ha profondamente colpito l’atto eroico di don Giuseppe Berardelli, arciprete di Casnigo, nella terra Bergamasca, che è stato fedele, sino alla fine, alla sua missione di sacerdote, condividendo il servizio di salvezza del Signore Gesù. Colpito dal coronavirus rinuncia al respiratore per darlo a pazienti più giovani.

Cari fratelli e sorelle, il Vangelo di Giovanni ci ricorda, infine, che tutti – presbiteri, diaconi, christifideles laici, religiosi e religiose -, siamo chiamati ad un servizio di salvezza. Gesù si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano, se lo cinse attorno alla vita e lavò i piedi ai suoi discepoli. Si tratta di un gesto esemplare, paradigmatico. Con esso Gesù depone le vesti della sua gloria, assume la condizione di uno schiavo, di un servo, che non si appartiene. Ebbene, con la lavanda dei piedi Gesù ci dice che Egli ci salva, ci divinizza, ci fa persone nuove con la sua vita di servo obbediente. Noi, siamo chiamati ad essere collaboratori di Cristo nel suo servizio di salvezza: un servizio che rende capaci di Dio, vivendo una vita da servi, sino alla totale spogliazione di se stessi. La lavanda dei piedi ci indica Gesù come modello di salvatore. Assumendo la sua forma di servo, diventiamo capaci di amarci gli uni gli altri come ama Gesù, (cf Gv 13,34); diventiamo capaci di compiere per i nostri fratelli un servizio di salvezza. Questa è la carità più alta.

+ Mario Toso