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Ordinazione diaconale di Marco Donati

Faenza, basilica cattedrale di san Pietro 26 ottobre 2019

Cari fratelli e sorelle, è questo un momento in cui Dio onnipotente, come abbiamo pregato, accresce in noi, singoli e comunità, fede, speranza e carità. Contempliamo e riflettiamo sull’origine della salvezza che ci è donata. Consideriamo la nostra chiamata e la molteplice partecipazione al sacerdozio del Signore Gesù.

Caro Marco, chiamato all’ordine del diaconato, sarai di aiuto al vescovo e al suo presbiterio nel ministero della parola, dell’altare e della carità, mettendoti al servizio di tutti i fratelli, specie dei più poveri. In particolare, annunzierai il Vangelo, distribuirai il sacramento del Corpo e Sangue del Signore. Esorterai e istruirai, per conseguenza, nella dottrina di Cristo, anche quanti sono alla ricerca della fede. Guiderai le preghiere, amministrerai il Battesimo, assisterai e benedirai il Matrimonio, porterai il viatico ai moribondi, presiederai il rito delle Esequie.

Quali gli atteggiamenti richiesti per il tuo prezioso ministero? Anzitutto, la dedizione totale, quale discepolo di Cristo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e darsi tutto. In secondo luogo, prontezza nel compiere la volontà di Dio. In terzo luogo, gioia e generosità nel dono di te stesso, mediante il celibato e un cuore indiviso. Tutta la tua vita dev’essere fondata e radicata nella fede, ossia nell’incontro e nell’esperienza di Cristo, accolto, amato, celebrato, testimoniato. Cosa potrà custodire la tua fede? Una coscienza pura, ossia sempre alla ricerca della verità. Chi è scelto per il dono pieno di sé, al servizio del Signore nella Chiesa e nel mondo, non può che sentirsi povero, peccatore, sempre sproporzionato, bisognoso dell’amore risanante e liberante del Padre. Non può sentirsi chissà chi, una persona piena di sé, che fa sfoggio dei suoi meriti e non si umilia.  La preghiera di colui che è inviato nella vigna è come quella del pubblicano. Non è lunga e sbrodolata come quella del fariseo. È molto breve: «O Dio, abbi pietà di me peccatore» (Lc 18, 9-14). Niente di più. Caro Marco, agisci sempre da persona umile. Non vantarti di quello che fai. Sii mendicante della misericordia del Signore. Solo così, potrai al termine del viaggio della tua vita, affermare come san Paolo: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2 Tm. 4, 6-8).

Vieni ordinato diacono in un momento importante della storia della nostra diocesi di Faenza-Modigliana. E precisamente nella fase attuativa del Sinodo dei giovani. Come tuo vescovo, in questa particolare fase storica, oso domandarti, di aiutarmi, di aiutare ugualmente il presbiterio, ad accompagnare soprattutto i giovani sinodali perché non abbiano paura nel formarsi, attraverso esperienze di bene e lo studio teologico, nella fede e nell’appartenenza a Cristo. Senza una fede ben radicata e formata, dal punto di vista affettivo, intellettuale e culturale, c’è il rischio di non riuscire ad aiutare la propria Chiesa ad annunciare coraggiosamente il Vangelo, in un «oggi» caratterizzato da politeismo e dal non-senso. Si corre il rischio di vanificare il Sinodo, di balbettare appena, se mai si riesce, le ragioni della propria speranza. Chi non ha una fede salda difficilmente trova nuovo entusiasmo e forti motivazioni per la missionarietà.  Non si può pensare di essere missionari nei confronti dei giovani lontani dalla Chiesa, se la propria fede è poca cosa, semispenta.

Testimoniare la verità di Cristo, senza possedere una coscienza pura, ossia liberata dal male, in grado di riconoscere, di fronte ai grandi problemi morali e religiosi, una verità, la verità è un’impresa improba. Una coscienza che non coltiva la verità, difficilmente  si apre e si consegna a Gesù Cristo, somma Verità, fonte di libertà. Difficilmente la può consegnare agli altri. Recentemente è stato canonizzato il cardinale John Henry Newman. Egli ci ha insegnato che quel «noi», che è la Chiesa, non ha come obiettivo l’eliminazione della coscienza libera, bensì quello di custodirla, di proteggerla e di farla fiorire, aiutando ogni persona a riconoscere nel proprio intimo la voce di Dio, il suo Verbo fatto carne. Nella coscienza di ogni persona, infatti, è seminato l’anelito all’incontro con Cristo, Amore pieno di verità. Cristo, Via, Verità e Vita è atteso da ogni coscienza. La Chiesa sorge con la missione di diventare Madre delle coscienze, affinché possano incontrare Chi può farle confluire nell’oceano infinito della Verità, che è Dio-Trinità.

Caro Marco, aiuta i credenti a scoprire la voce divina che si trova nel loro cuore. Una tale voce li aiuterà a smarcarsi da ogni totalitarismo, da ogni idolo, e a trovare un varco per giungere nella comunità cristiana che conserva ultimamente quel Senso che è ricercato dal profondo di ogni coscienza. Se la sollecitudine pastorale ti creano insuccessi, cali di popolarità, pensa alla tensione d’amore che vive Cristo sulla croce. Ti porterà luce, desiderio di essere uno col Figlio crocifisso, missionario del Padre, in un mondo assetato di sapienza e di amore. Se vorrai vivere per i tuoi fratelli e sorelle, immedesimati, sempre di più, in Colui che ha dato la vita per tutti, e dei molti ha formato una sola famiglia di figli, per Dio. Con la tua dedizione entusiasta al Signore, insegna a non vivere un cristianesimo sbiadito ed incolore, senza spessore. Cresci con la preghiera nella comunione con il Signore Gesù, per essere completamente suo, per sempre. È bello far parte di un popolo di credenti che, compatti, si dissetano al calice della Salvezza e si nutrono col pane della Vita, mentre camminano, spediti e bramosi, verso la Luce. Essa tutto illumina, colma di senso le fatiche pastorali,  le croci delle incomprensioni, le attese dei germogli e dei frutti copiosi.

Caro Marco, cari genitori e parenti di Marco, cari giovani e fedeli, il Signore ci visita sempre con i suoi doni. Noi, sua Chiesa, accogliamolo, serviamolo, lodiamolo.

+ Mario Toso

Vescovo di Faenza-Modigliana

Pellegrinaggio dei cresimati

Roma, san Giovanni Laterano 8 ottobre 2019

Cari ragazzi, cari catechisti e genitori, cari parroci, durante questa santa Messa, celebrata in san Giovanni Laterano, la Chiesa cattedrale di Roma, la madre di tutte le Chiese di Roma e del mondo, si farà la tradizionale consegna del simbolo degli Apostoli. Esso contiene in forma più breve le principali verità di fede che recitiamo con il Credo della Santa Messa domenicale, il simbolo niceno-costantinopolitano, composto dopo i Concili di Nicea e di Costantinopoli.  Che cos’è il Simbolo degli Apostoli? È, come evoca il nome, una sintesi della fede degli Apostoli. È il primo Credo della Chiesa delle origini. È detto  «Credo degli Apostoli»,  perché, secondo la tradizione di cui parla anche Rufino, ciascuno dei dodici apostoli, ispirati dallo Spirito Santo,[8] il giorno di Pentecoste, avrebbe scritto uno dei dodici articoli di fede contenuti nel Symbolum.[7] È chiamato anche l’antico Simbolo battesimale della Chiesa di Roma, perché era recitato dai  battezzandi. Accolto dalla Chiesa di Roma, ove ebbe la sua sede Pietro, il primo tra gli Apostoli, fu da essa costantemente conservato e tramandato nella sua originale purezza.La consegna a voi del simbolo degli Apostoli, qui a Roma, ha un significato del tutto particolare, cari cresimati. Vi è affidato perché, come la Chiesa delle origini, lo accogliate con stupore, con slancio ed entusiasmo, e perché nei prossimi anni delle scuole superiori  non lo perdiate di vista, ma lo approfondiate. Come? Amando e conoscendo di più Gesù Cristo. Con quale scopo? Per conoscerLo e amarLo sempre di più. L’amore fa vedere e il vedere fa amare. Ricevere con fede il Simbolo, recitarlo attentamente, studiarlo, consente di entrare in comunione con Dio, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, con il loro Amore, con tutta la Chiesa, che ce  lo trasmette. Consente di entrare in sintonia e in connessione con Dio-Amore. Permette di amare e vedere le cose, le persone, i genitori, gli amici come li vede e li ama Lui. Il simbolo degli Apostoli diventa nutrimento per lo spirito, si fa vita di dono. Guardando a Colui che «fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi e il terzo giorno risuscitò da morte», come ci insegna il Simbolo, impariamo l’amore, diventiamo amore. Grazie al Credo apostolico, accolto e pregato, giungiamo a vivere Gesù Cristo, a vivere la sua Chiesa, nel seno della quale noi siamo e viviamo. Arrivando ai 18 anni  potrete fare una professione di fede più convinta. Sceglierete di seguire Gesù Cristo come suoi missionari coraggiosi. Dal profondo del vostro cuore, sentirete di appartenere a Lui in maniera indissolubile. GuardandoLo imparerete ad amare per davvero. Chi ama come Gesù, è bene ripeterlo, vede di più, e chi vede e conosce di più, ama sempre di più. Proverete gioia di essere suoi, di avere come madre la Chiesa. Ne andrete fieri, non arrossirete, nonostante i suoi difetti. Sarete più pronti a rinnovarla, a costruirla, come anche a costruire una società dove  vivere il comandamento nuovo di Gesù.

Cosa vuol dire vivere, amare la Chiesa, costruirla? A chi possiamo guardare per capire meglio cosa significa tutto questo? Penso che faremmo bene guardare a san Francesco d’Assisi, festeggiato qualche giorno fa. Come racconta san Bonaventura, il poverello di Assisi fu visto in sogno da papa Innocenzo III mentre impediva il crollo di questa Chiesa, sorreggendola con una delle sue spalle. Cosa voleva dire il sogno del papa? Che san Francesco, con la sua scelta di vita povera, con il suo esempio, con il suo slancio missionario – partì per convertire il sultano mussulmano -, con la fondazione di una famiglia religiosa numerosa, fatta di tante persone consacrate  (pensiamo solo a santa Chiara, a sant’Antonio di Padova, a san Bonaventura e, più vicino a noi, a padre Kolbe, a Padre Pio), impedì la rovina morale e religiosa della Chiesa. Egli, ancora oggi ci indica come rinnovarla, come renderla più giovane e bella, per non farla cadere rovinosamente.

San Francesco impersonò colui che nel Libro del Siracide (Sir 50, 1. 3-7) è descritto come chi «nella sua vita riparò il tempio, e nei suoi giorni fortificò il santuario». Il Crocifisso, che Francesco pregò nella chiesetta diroccata di san Damiano, lo sollecitò in tal senso: «Va’, Francesco, e ripara la mia Chiesa in rovina». Cari cresimati, accogliete anche voi le parole del Crocifisso rivolte al giovane Francesco. Esse, non solo sollecitano Francesco a riparare materialmente la chiesetta di san Damiano, pietra su pietra. Lo invitano a vedere nello stato rovinoso del piccolo edificio la situazione drammatica ed inquietante della Chiesa del suo tempo. Tra i fedeli dominava una fede superficiale, senza radici. Ossia una fede che non formava e non trasformava la vita. Il clero in generale, alto e basso, era poco zelante, più preoccupato del potere e del benessere materiale. L’amore per Gesù Cristo si era raffreddato. Tutto ciò procurava la distruzione interiore della Chiesa, dando adito anche ad eresie.

Il Crocifisso posto al centro della chiesetta di san Damiano chiamò, dunque, Francesco sia ad un lavoro manuale per riparare concretamente la chiesetta di san Damiano sia ad un lavoro spirituale, missionario, di testimonianza, per rinnovare la Chiesa stessa di Cristo.

Riflettiamo: nel sogno di Innocenzo III fu visto un religioso, piccolo e insignificante, che puntellava la Chiesa con le sue spalle affinché non cadesse. È interessante notare, sottolineò Benedetto XVI nell’udienza generale del 27 gennaio 2010, che non è il Papa a dare l’aiuto affinché la Chiesa non cada, bensì un piccolo religioso, che il Papa riconobbe in Francesco, allorché gli fece visita per chiedergli l’approvazione della Regola. E pensare che Innocenzo III era un Papa potente, di grande cultura teologica, come pure di grande potere politico. Ebbene, non è lui a rinnovare la Chiesa. Cosa vuol dire questo per noi, per voi cresimati? La Chiesa può essere riformata, costruita così come Gesù Cristo la desidera, anche da chi, come noi, è piccolo e insignificante, ossia non è una persona importante e non è molto conosciuta. Basta amare Lui, ascoltarlo, cominciando da giovani, come fece san Francesco. Basta scegliere la «parte buona» che è ascoltare la parola di Gesù, come fece Maria, senza trascurare peraltro di operare, come Marta (cf Lc 10, 38-42). Volete diventare credenti che si fanno carico della propria Chiesa, del suo futuro? Amate Gesù, tifate per Lui, vantatevi del suo amore, un amore certamente costoso, che importa crocifissioni, ma che riempie il cuore di gioia, di tanta amicizia fraterna, di voglia di fare nuove le cose e le persone.

Il Signore Gesù, che si fa cibo e bevanda in questa Eucaristia, san Francesco di Assisi vi e ci aiutino.

+ Mario Toso

Ammissioni tra i candidati al diaconato permanente

Faenza, cattedrale 6 ottobre 2019

Cari fratelli e sorelle, in questa domenica il brano evangelico ci presenta il tema della fede. Gli apostoli chiedono a Gesù Cristo: «Accresci in noi la fede» (Lc 17,6). Una bella preghiera che dovremmo rivolgere costantemente durante la giornata al Signore: «Accresci la mia fede».Gesù risponde  in due modi, impiegando due immagini. Il primo modo: la nostra fede cresce quando, sebbene piccola, come è il granello di senapa, è umile, sente un grande bisogno di Dio, e nella sua pochezza si abbandona con piena fiducia in Lui. Quando la nostra fede non si affida alle proprie forze, ma a Dio, che può tutto, può compiere cose strabilianti. È capace di spostare, superare, montagne di difficoltà e di prove, poiché, in ogni circostanza, il credente conserva una incrollabile fiducia in Dio, che interverrà nel momento opportuno, nel tempo più favorevole per coloro che gli restano fedeli.Il secondo modo: la nostra fede c’è, seppur minuscola, cresce genuina e schietta quando assumiamo l’atteggiamento di disponibilità dei servi, quando ci rimettiamo completamente alla volontà del Signore, senza calcoli o pretese; quando ci dedichiamo nella comunità al servizio gli uni degli altri, trovando già in questo la remunerazione, senza pensare a ricompense o a guadagni che ne possono derivare. Detto altrimenti, la nostra fede cresce allorché serviamo Dio, la comunità e il prossimo. La fede cresce vivendola, donandola, senza pretese di essere ringraziati, senza rivendicazioni. Ossia, sentendoci «servi inutili», umili, disposti a farci incessantemente dono e basta.

Il brano di Luca ci offre un ottimo contesto biblico e liturgico per ammettere tra i candidati al diaconato permanente due nostri fratelli: Danilo Toni, che è della parrocchia di Solarolo, e Gino Covizzi della parrocchia dei Cappuccini.

Tutti e due si dedicheranno al servizio delle parrocchie a cui appartengono, sebbene secondo modalità diverse, corrispondenti ad urgenze pastorali differenti. Come mai essi sono ammessi tra i candidati al diaconato permanente qui in cattedrale e non nelle loro parrocchie particolari? Perché con ciò si desidera indicare più concretamente che il loro futuro diaconato è associato al ministero del vescovo e saranno diaconi non solo a servizio della loro parrocchia ma anche della diocesi.

Cari candidati, da oggi in avanti, oltre a perfezionare il vostro cammino di formazione, coltiverete a fondo la vostra vocazione diaconale, avvalendovi soprattutto di quei mezzi che la comunità ecclesiale mette a vostra disposizione. In un futuro non lontano, avrete, fra l’altro, il compito di esortare e di istruire  nella dottrina di Cristo i fedeli e quanti sono alla ricerca della fede, guidare le preghiere, amministrare il Battesimo, assistere e benedire il Matrimonio, portare il viatico ai moribondi, presiedere il rito delle Esequie. Crescete nella fede umile e servizievole, in aiuto dell’ordine sacerdotale, a servizio del popolo cristiano. In occasione di questa vostra ammissione sottolineo che, come già detto, sarete chiamati non solo a vivere una fede profonda, ma ad aiutare i vostri fratelli a renderla più salda con l’aiuto del Signore e con una diligente formazione. Educare i propri fratelli alla fede richiede una particolare attenzione e dedizione. Esige un’attenta formazione biblica, teologica, cristologica, ecclesiologica, pastorale, pedagogica, catechetica. C’è formazione e formazione, evidentemente. Per i bambini, i ragazzi, i giovani, gli adulti. Chi si rivolge anche a professionisti, a docenti, insegnanti di religione, ad amministratori della cosa pubblica, a dirigenti, non può accontentarsi di una formazione generica, elementare. Occorre un surplus di impegno nello studio, nella conoscenza dei problemi odierni non solo dal punto di vista tecnico, ma anche dal punto di vista morale, religioso, culturale. Il che richiede di partecipare ai corsi attivati  dagli Istituti di Scienze religiose o ai corsi di aggiornamento programmati dalla Diocesi. Aiutate, poi, i vostri parroci ad incoraggiare i giovani che hanno partecipato al Sinodo dei giovani a farsi promotori di una fede che cresce sul piano spirituale e culturale. La fede è veramente il punto fondamentale, qualificante, decisivo dell’appartenenza a Cristo e al suo popolo, della missionarietà e, in radice, della stessa coscienza cristiana. La fede, diceva san Giovanni Paolo II, offre nuovo entusiasmo e forti motivazioni alla missionarietà. Essa, peraltro, si rafforza, come già detto, «donandola». Chi non ha una fede convinta non la può accendere in altri. Si può affermare che la fede cristiana o è missionaria o non è affatto fede cristiana. Oggi, non può essere ignorata l’urgenza di mostrare la ragionevolezza del credo cristiano, non disgiunta, ovviamente, dall’esperienza di una fede vissuta. Non si può rinunciare a mostrarne l’intelligibilità e la comunicabilità. Lo esige la stessa fede, la quale necessita di una ragione che sia capace di veicolarla nello spirito umano, mettendo a disposizione tutte le sue energie, riconoscendo peraltro i suoi limiti intrinseci. Sant’Agostino, grande Padre della Chiesa, soleva ripetere che credere è null’altro che pensare assentendo. «Chiunque crede pensa, e credendo pensa e pensando crede». «La fede se non è pensata è nulla».[1] Ed ancora: «Se si toglie l’assenso, si toglie la fede, perché senza assenso non si crede affatto».[2] In breve, venendo a completare gli spunti provenienti dal brano evangelico odierno, la fede cresce se ama e vede, se vede ed ama. Più conosce profondamente Gesù Cristo e la sua Chiesa più li ama. Più li ama e più è sospinta a conoscerli, in un cerchio in cui chi ama Cristo vede, e vedendo più in profondità Chi è, lo ama maggiormente.

Attiro, infine, la vostra attenzione sull’urgenza che nelle nostre parrocchie, specie in quelle che comprendono piccole comunità, ove un tempo esisteva un sacerdote residenziale, sorgano dei Gruppi ministeriali a servizio dell’evangelizzazione e della carità. Stiamo, infatti, convincendoci che affinché possa essere continuata la vita cristiana in paesini ove non risiede più il parroco, diventa necessaria l’istituzione dei suddetti Gruppi ministeriali, che comprendono catechisti, accoliti e lettori, persone dedite al servizio degli anziani e dei malati religiosi e religiose, ma anche diaconi, che facendo capo al parroco possano garantire l’evangelizzazione e l’educazione alla fede, il culto. Ebbene, stando nelle vostre comunità osservate, aguzzate la vista, per vedere se non sia arrivato il momento di pensare e di istituire tali Gruppi dei quali si parla nella Lettera pastorale che uscirà a giorni.

La Madonna delle Grazie, patrona della nostra Diocesi, vi accompagni nel vostro cammino. Lo Spirito del Signore vi fortifichi nella fede.

[1] Agostino, De praedestinatione sanctorum, 2,5 [PL 44, 963]

[2] Id., De fide, spe et caritate, 7 [CCL 64, 61].

+ Mario Toso

San Francesco d’Assisi

San Francesco, 4 ottobre 2019

Cari fedeli, noi festeggiamo i santi perché ci manifestano l’amore di Dio, la sua grandezza. Nella loro vita amarono Dio e la Chiesa da Lui voluta. San Francesco, in particolare, venne suscitato da Gesù Cristo come riformatore della Chiesa. In altri termini, impersonò colui che nel Libro del Siracide (Sir 50, 1. 3-7) è descritto come chi «nella sua vita riparò il tempio, e nei suoi giorni fortificò il santuario». Il Crocifisso, che Francesco pregò nella chiesetta diroccata di san Damiano, lo sollecitò in tal senso: «Va’, Francesco, e ripara la mia Chiesa in rovina». Le parole del Crocifisso contengono un significato profondo. Esse, non solo sollecitano Francesco a riparare materialmente la chiesetta di san Damiano. Lo invitano a vedere nello stato rovinoso del piccolo edificio la situazione drammatica ed inquietante della Chiesa del suo tempo. Tra i fedeli dominava una fede superficiale, senza radici. Ossia una fede che non formava e non trasformava la vita. Il clero in generale, alto e basso, era poco zelante, più preoccupato del potere e del benessere materiale. L’amore per Gesù Cristo si era raffreddato. Tutto ciò procurava la distruzione interiore della Chiesa, dando adito anche ad eresie.Il Crocifisso posto al centro della chiesetta di san Damiano chiamò, dunque, Francesco sia ad un lavoro manuale per riparare concretamente la chiesetta di san Damiano sia ad un lavoro spirituale e di testimonianza per rinnovare la Chiesa stessa di Cristo. Quest’ultimo impegno di riforma, compiuto dal poverello di Assisi, fu visto in sogno da Innocenzo III. Il papa vide che la basilica di san Giovanni in Laterano, la chiesa madre di tutte le chiese, stava crollando e un religioso, piccolo e insignificante, la puntellava con le sue spalle affinché non cadesse. È interessante notare, sottolinea Benedetto XVI nell’udienza generale del 27 gennaio 2010, che non è il Papa a dare l’aiuto affinché la Chiesa non cada, bensì un piccolo religioso, che il Papa riconobbe in Francesco allorché gli fece visita. E pensare che Innocenzo III era un Papa potente, di grande cultura teologica, come pure di grande potere politico. Ebbene, non è lui a rinnovare la Chiesa. Peraltro, è da tener presente che Francesco riforma la Chiesa non opponendosi al Papa. Lo fa mantenendo la comunione con lui.  Il rinnovamento della Chiesa lo effettua coniugando insieme istituzione e carisma nuovo. Francesco per aiutare la Chiesa a rimanere in piedi, non fa appello immediatamente solo a Cristo, alla sua Parola, bypassando l’autorità. È anche un uomo di Chiesa, che ne conosce l’importanza come istituzione. Egli intende creare un rinnovamento del popolo di Dio unitamente alla gerarchia, non senza la Chiesa, non senza il Papa, non senza i vescovi. La sua azione vuol’essere della Chiesa, con la Chiesa, nella Chiesa. Perché questo?  Perché la salvezza che Cristo porta all’umanità è stata affidata alla Chiesa. E chi si oppone alla Chiesa rischia di non godere di tale salvezza. Lo aveva ben capito don Lorenzo Milani, il priore di Barbiana. Nonostante le molte incomprensioni da parte della gerarchia fiorentina volle rimanere nella Chiesa, ove c’è l’Eucaristia che rende presenti il Corpo e il Sangue di Cristo redentore. San Francesco avrebbe potuto concepire la riforma della Chiesa alla maniera di Lutero, uscendo dalla Chiesa e criticandola severamente, abbandonando i sacramenti, che sono fonte di grazia, e opponendosi al Papa. Ma non lo fece, per le ragioni dette.

A questo punto domandiamoci: la Chiesa odierna ha bisogno di essere riformata come ai tempi di san Francesco? Basta che seguiamo minimamente quanto viene riportato dai mezzi di comunicazione: diminuzione dei credenti, crescente separazione tra fede e vita, la triste piaga della pedofilia, annunci di scismi, scandali pecuniari. Ebbene, anche oggi la nostra Chiesa ha bisogno di essere riformata profondamente, specie nella vita mediocre di molti di noi. Noi non siamo fatti per la mediocrità. Dio ci chiama ad essere suoi completamente, non a metà. Per cui non possiamo condividere ed assecondare quel cristianesimo fai-da-te che è piuttosto diffuso nelle nostre comunità. Dal Vangelo e da quanto ci propone Gesù Cristo si prende, come da un self service, ciò che piace di più, lasciando quanto è più impegnativo e costoso. Ma ciò che dobbiamo pure combattere con determinazione è il neopaganesimo strisciante tra le file dei credenti, ossia la tentazione di mettere al centro di tutto se stessi, diventando l’unico metro di misura del vero e del bene, occupando il posto di Dio. Più che inginocchiarsi davanti a Dio si pone in cima a tutto il proprio io, facendo di noi stessi un dio. La triste conseguenza è che rimaniamo da soli, senza Dio, senza Colui che ci redime e ci divinizza. Per il cristianesimo, lo sappiamo, Dio diviene creatura perché questa diventi Dio. Solo così si compie il sogno originario. Non sostituendoci a Dio, ma sprofondando nel suo mare infinito. Il cristianesimo non è un circolo per signore, non è intrattenimento per il tempo libero, un’associazione di beneficienza. È essere di Cristo. È vivere Lui, diventare un «altro Cristo», come lo divenne Francesco. È essere missionari coraggiosi. La causa di tutte le disperazioni del presente, in fin dei conti, sta nel fatto che mettiamo da parte Gesù Cristo. Ci disabituiamo anche soltanto a pensarlo.

Ma la nostra Chiesa va riformata liberandola anche da altre povertà. I campanilismi, la paralisi nella comunione tra noi e nella missione, maldicenza, una certa aggressività verbale, che non risparmia neppure il papa, stanchezza negli organismi di partecipazione, desiderio di imporre le proprie idee a tutti i costi, tendenza a condannare tutto e tutti, essere comunità arroccata che non riesce ad essere in dialogo con altri credenti, ad uscire, non per perdere la propria fede ed identità, ma per interagire con altri e proporre Gesù Cristo.

Proprio su questo ultimo punto san Francesco ha qualcosa da insegnarci, ossia sul rapportarci con chi, come i mussulmani, ha una fede diversa ed abita tra noi. In un’epoca in cui era in atto uno scontro tra il cristianesimo e l’Islam, Francesco, «armato» volutamente solo della sua fede e della sua mitezza personale, percorse con efficacia la via del dialogo. Le cronache ci parlano di un’accoglienza benevola e cordiale ricevuta dal sultano mussulmano. L’esempio di Francesco costituisce un modello a cui anche oggi dovrebbero ispirarsi i rapporti tra cristiani e mussulmani: promuovere un dialogo nella verità, nel rispetto reciproco e nella mutua comprensione.  Francesco volle incontrare il mondo mussulmano e predicare anche lì il Vangelo di Cristo. Domandiamoci: e, noi, che conviviamo con mussulmani giunti qui già da anni, tant’è che sono inseriti nel lavoro, nella scuola, nelle attività commerciali, siamo solleciti a far conoscere Gesù Cristo? Arde in noi un amore intenso per Gesù Cristo, tale sa sospingerci ad essere missionari come san Francesco?

In questo mese missionario straordinario onoriamo degnamente il poverello di Assisi. Imitiamolo nel suo amore a Cristo che ha redento il mondo sulla croce. Siamo, come lui, un’icona viva di Cristo, siamo un altro Cristo, missionario del Padre. Lo Spirito santo ci aiuti a vivere il «giogo» dell’amore di Cristo, mite ed umile di cuore (cf Mt 11, 25-30).

+ Mario Toso

S. Messa per i migranti defunti: Dio discese negli inferi e nelle profondità del mare

Faenza, chiesa del Paradiso, 3 ottobre 2019

L’Eucaristia che celebriamo è per i migranti defunti, ricordando in particolare il naufragio del 3 ottobre del 2013 a poche decine di metri da Lampedusa che causò la morte di 368 innocenti. Con questa santa Messa li affidiamo a Gesù Cristo, venuto su questa terra per dare a tutti pienezza di umanità e di figliolanza divina. Nell’Eucaristia, che fa memoria della sua incarnazione, morte e risurrezione, Gesù Cristo si pone come principio di unità e di fraternità tra i popoli. Offre a tutti un cuore da figli, per essere figli in Lui, primogenito del Padre. Con la sua incarnazione, morte e risurrezione, si unisce ad ogni persona, diventa una cosa sola con essa, accoglie nel suo abbraccio universale tutti i vivi e i defunti, credenti e non credenti. E così nessuno rimane abbandonato, prigioniero dell’oblio, stretto invincibilmente nelle mani gelide della morte.

Con la sua morte e con la sua discesa negli Inferi, già prima di risorgere, raggiunge i defunti del passato, come Adamo ed Eva, e li conduce in paradiso, a godere la piena comunione con Dio.

Gesù compie per tutti i migranti defunti quell’atto redentivo che ha celebrato come Sommo Sacerdote più di duemila anni fa, raggiungendo i nostri progenitori. Con la sua morte e risurrezione di Uomo-Dio va fino agli ultimi confini del tempo e ai primordi dell’umanità. Va ovunque, nel passato, in profondità, sino ai perduti di tutti i tempi. Li afferra come esseri che non sono arrivati alla meta della loro vita, ossia alla comunione piena con Dio.

L’anima di ogni uomo è creata immortale e destinata a vivere nell’amore e nell’abbraccio di Dio Padre. Ma la forza dell’anima creata non basta per elevarsi verso Dio. Non ha ali che la possano portare sino alla casa di Dio. Eppure, nient’altro può appagare l’uomo eternamente, se non l’essere con Dio totalmente. Un’eternità senza questa unione sarebbe una condanna. Solo il Cristo che discende nella morte di tutti può portare su fino all’unione con Dio. Egli prende ogni uomo sulle sue spalle e lo porta a casa. Aggrappato a Cristo ogni uomo vive eternamente.

L’efficacia della redenzione di Cristo, come detto, trascende tutti i tempi: passato, presente e futuro. Cristo che discende nella morte e risorge la vince, pone un atto di redenzione sovratemporale, che va al passato, riguarda il presente ma anche il futuro. Suo è il tempo e sua è la Vita degli uomini di tutti i tempi. Qualora ogni uomo muore, compreso il migrante, incontra il Pastore dagli occhi grandi che, se vuole, lo prende per mano, come prese per mano Adamo ed Eva – umanità del passato -, e lo guida avanti, in alto. Egli  accompagna al varco da Lui aperto, verso Dio. Ciò è parte essenziale della sua missione di Redentore universale. Egli apre la porta della casa del Padre a tutti gli uomini, a tutte le donne, a tutti i bambini periti tragicamente nel Mediterraneo, non esclusi quelli  che non hanno fatto a tempo a vedere la luce.

Rut trovò solidarietà in terra straniera. Cristo offre la sua solidarietà in ogni luogo, in ogni tempo, nelle stesse profondità del mare. Viviamo una solidarietà che fa vivere tutti, tutti i giorni. Attingiamola da questa Eucarestia, che offre cibo e bevanda di salvezza. Partecipando all’Amore pieno di verità, che è Cristo, impariamo ad amare nella verità tutti i migranti costretti a lasciare la loro casa e il loro Paese. Amiamo secondo verità,  secondo la verità dei diritti e dei doveri dei migranti, secondo la verità dei diritti e dei doveri dei cittadini dei Paesi ospitanti. Come cittadini, movimenti e popoli prodighiamoci secondo amore e verità affinché sia realizzato il diritto a non emigrare, ossia affinché siano vinte le guerre, i neocolonialismi, il land grabbing, gli inquinamenti, le migrazioni bibliche a motivo del degrado ambientale, della povertà di acqua.

Lo Spirito d’amore di Dio Padre e del Figlio ci sostenga nel desiderare e nel conseguire pienezza di vita per tutti, secondo giustizia e le esigenze dei figli di Dio.

+ Mario Toso

Beata Vergine Addolorata

Russi, 16 settembre 2019

Qui a Russi si è abituati a celebrare la festa della Beata Vergine Addolorata invitando i sacerdoti originari di questa parrocchia o che vi hanno prestato servizio pastorale. Questo ci consente di riflettere su Maria, Madre dei sette dolori – così è venerata in questa Chiesa dei Servi -, con riferimento ai presbiteri e al loro ministero sacerdotale e parrocchiale. Come ci ha ricordato il versetto del canto al Vangelo, la beata Vergine Maria, senza morire, sotto la croce del Signore, meritò la palma del martirio. Per il Figlio fu un martirio cruento, per Lei incruento, ossia il martirio della sua anima di Madre, ripetutamente ferita. Pur non essendo inchiodata sulla croce è come se lo fosse stata. Le sofferenze del Figlio si riflettono su di Lei. Sono sperimentate dalla Madre. Ella, vive intimamente l’offerta sacerdotale del Figlio al Padre. Condivide lo strazio e il disprezzo che subisce il Figlio mentre agonizza per la redenzione del mondo. Gesù, il Sommo Sacerdote, che non compie sacrifici offrendo animali ma immolando se stesso come vittima gradita, santa ed immacolata, ha accanto sua Madre.

Cari fratelli e sorelle, allorché facciamo della nostra vita sacerdotale – vi è un sacerdozio comune e un sacerdozio presbiterale – un dono alla comunità cristiana e al Padre, sentiamo accanto a noi la presenza e la partecipazione di Maria. Vediamola come Colei che ci accompagna nella nostra passione d’amore, nel servizio ai fratelli, nel dono di Lui al mondo, affinché sia Tutto in tutti. Come Lei, viviamo accanto ai nostri fratelli e sorelle, specialmente gli ammalati e coloro che sono soli, crocifissi, perché calpestati nella loro dignità, emarginati e abbandonati. Impariamo da Lei quella fecondità spirituale che diventa maternità generativa di una nuova umanità, di un nuovo popolo, il popolo di Dio. Apprendiamo quella spiritualità vittimale che ha fatta propria anche Benedetta Bianchi Porro. Sabato scorso è stata beatificata a Forlì ed è stata indicata a tutti noi, presbiteri, diaconi, suore, christifideles laici quale modello di crocifissa, vivente d’amore per Dio e per i fratelli. Carissimi, la sofferenza inclusa in ogni apostolato, il sacrificio delle persone consacrate che rendono sacra la loro vita, non devono essere considerati periferici rispetto all’affermazione del Regno di Dio. Essi sono preziosi. Essi danno compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella nostra carne, a favore del corpo di Cristo, che è la Chiesa (cf Col 1, 24-2,3). Sono necessari per aprire varchi di speranza in coloro che debbono essere liberati dal potere delle tenebre e trasferiti nel regno del Figlio di Dio, nella sua pienezza di vita.

Riflettiamo anche, come ci sollecita il Vangelo odierno, sulle parole che Gesù dalla croce rivolge al discepolo Giovanni: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé. Maria, dopo la morte e risurrezione del Figlio, e l’inizio per i discepoli di un tempo nuovo, contrassegnato da una diversa presenza del loro Signore, mediante il suo Spirito di verità  e di amore, continua a vivere in mezzo a loro. Vive nella e con la Chiesa, che si diffonde nel mondo, attraverso i tempi, portando il lieto annunzio. Vive unita al gruppo degli apostoli, sempre più Madre della Chiesa. È stata Madre nel Cenacolo, ove lo Spirito santo scende e rinfranca il gruppo traumatizzato dei discepoli. Continua ad esserlo incoraggiando ad andare dal Figlio, a portarLo tra i popoli, nelle famiglie, entro i cuori, nelle culture. Maria è Madre non di una Chiesa eterea, astratta, ridotta ad una nozione teologica. È Madre del popolo di Dio che, seminato nei solchi della storia, irriga i terreni aridi e germoglia nuovi umanesimi, libera dagli idoli. Ma, come è noto, non tutto è agevole, senza contrasti e senza opposizioni. Pensiamo alla desertificazione spirituale crescente, alle persecuzioni che continuano. Pensiamo al neopaganesimo che si diffonde tra gli stessi credenti. Non dimentichiamo il rimpicciolimento delle comunità nei Paesi di lunga tradizione cristiana. Non trascuriamo il relativismo e l’individualismo libertario assolutizzati, che costituiscono un vero e proprio ostacolo alla seminagione e alla fioritura del Vangelo nello spirito soprattutto delle nuove generazioni. Da ultimo,  pensiamo che per la Madre di Cristo e della Chiesa sono una spada le divisioni tra i fedeli che si schierano per «Paolo», per «Apollo», per «Cefa», costituendo gruppi a sé. È, forse, diviso il Cristo, si chiedeva già l’Apostolo delle genti, agli inizi della Chiesa (cf 1Cor 1, 11-13)?  Non siamo, piuttosto, tutti membra diverse di un unico corpo, il corpo di Cristo che è la Chiesa? Rispetto a ciò è importante il ministero dei presbiteri. Essi sono chiamati a tenere unito il corpo di Cristo, recuperando l’apprezzamento reciproco, mettendo al centro Cristo Signore.

Ai piedi della Madre esprimiamo il nostro grazie per la sua sollecitudine, perché ci accompagna ad essere un Cenacolo ove un unico Spirito rende i discepoli comunione-comunità di amore.

+ Mario Toso

Vescovo di Faenza-Modigliana


Natività della Beata Vergine Maria

Fusignano, 8 settembre 2019

Il giorno della Natività della Vergine Maria non è un compleanno come tanti altri. Celebrando il compleanno di Maria santissima non parliamo di Lei semplicemente, come nei nostri compleanni, nei quali siamo solo noi al centro dei festeggiamenti. Nella festa della Natività della Madre di Dio onoriamo anche la venuta di Dio tra gli uomini. Il significato pieno della festa odierna, cioè della nascita di Maria, comprende l’incarnazione del Verbo, rimanda ad essa. Infatti, Maria nasce, viene allattata e cresciuta per essere la Madre di Dio, di Gesù Cristo. Dal primo momento della sua vita, dunque, Lei ci appare una vita non solo per se stessa, ma un’esistenza per Dio, totalmente per Lui. Sin dalla sua nascita, con la totalità della sua persona, è un messaggio vivo di Dio per noi. Di fronte alla Natività di Maria siamo invitati ad interrogarci: anche noi, come Maria, siamo una vita per Dio, a servizio della sua incarnazione? Lo siamo con tutto il nostro essere, totalmente? San Giovanni Paolo II aveva scelto come motto del suo pontificato queste parole: Totus tuus, ponendole in uno stemma ove campeggia la croce. La nostra vita – domandiamoci, allora – è una vita che, come ci ha insegnato il santo papa polacco, è totalmente per Dio, nel segno di Dio e di Cristo crocifisso? Cosa vuol dire? Vuol dire: essere totalmente di Dio con lo stesso amore di Gesù, sino ad abbracciare la croce, morendo per amore di Dio, facendo della nostra esistenza un dono, costi quel che costi. Maria, con la sua disponibilità alla volontà di Dio ha messo, ha consegnato la propria vita nelle mani di Dio. Facciamo così anche noi? Siamo solo suoi o apparteniamo prima di tutto ad altri, come forse diamo spesso da vedere? Dio lo amiamo per ultimo, dopo il successo, i soldi, i nostri interessi politici ed economici, o per primo? Siamo per Dio, completamente a sua disposizione, per donare al mondo Dio: nella famiglia, nella scuola, nel mondo del lavoro? È questo il primo grande messaggio della Natività della Madonna. Maria, nasce per essere la “porta” per la quale Dio entra nel mondoNon solo. Diventa “dimora”del Signore, “casa vivente”, dove ha abitato realmente il Creatore e Redentore del mondo. Maria offre la sua carne perché il Figlio di Dio diventi uno di noi, come noi. Qui ci viene in mente la parola con la quale secondo la Lettera agli Ebrei, Cristo ha iniziato la sua vita umana dicendo al Padre: “Non hai voluto né sacrifici né offerta, un corpo invece mi hai preparato […]. Allora io ho detto: ecco, io vengo, o Dio, per fare la tua volontà” (Ebr 10, 5-7). Maria, di fronte all’angelo che le annuncia l’incarnazione, riconosce di essere un «corpo» o, meglio, un’esistenza preparata per accogliere il Figlio di Dio e afferma, «ecco,  sono la serva del Signore. Si compia in me la sua parola». In Maria, l’umanità si offre per accogliere il Figlio di Dio. In Lei si toccano, anzi si uniscono cielo e terra, Dio creatore e la sua creatura. Dio diventa uomo, Maria si fa “casa vivente” del Signore, “tempio” dove abita l’Altissimo.Anche qui, chiediamoci: mettiamo a disposizione la nostra «carne», ossia noi stessi, per diventare umanità unita a Dio? In noi si realizza l’unione tra Dio e la nostra vita, tra la fede e la vita quotidiana? Le nostre scelte sociali, economiche, politiche specie su temi importanti (famiglia, matrimonio, educazione, morte, nuove tecnologie, lavoro, salvaguardia del creato) ignorano la presenza di Dio in noi? Abbiamo, tutti i giorni, l’ambizione o, meglio, il desiderio di essere «casa vivente del Signore», ove Dio dimora, al punto che la nostra vita irradia, mostra agli altri che viviamo, come afferma san Paolo, Gesù Cristo? Uniti a Cristo, evangelizziamo anche con una vita retta, onesta, dedita alla coltivazione del bene comune e di un’ecologia integrale?

In breve, dobbiamo domandarci se siamo realmente aperti anche noi al Signore, se vogliamo offrirgli la nostra vita perché sia una dimora per lui; oppure se abbiamo un po’ di paura della presenza del Signore, se abbiamo paura che essa possa limitare la nostra libertà, se vogliamo forse riservarci una parte della nostra vita che vorremmo appartenesse solo a noi e non fosse conosciuta da Dio, che non dovrebbe avvicinarsi ad essa.

Cari fratelli e sorelle, la festa della Natività di Maria ci sospinge a vedere la nostra vita come un qualcosa che non è fine a se stessa, bensì per Dio, per gli altri. Diventando: umanità che accoglie Dio che viene a vivere con noi; umanità che si lascia abitare da Lui per essere divinizzata. Chiediamo a Maria di avere la sua fede solida e cristallina. Come Lei magnifichiamo il Signore per le meraviglie che è venuto a compiere tra noi, per noi. Riconosciamo in Lei la nostra vocazione e missione, come singoli, associazioni, popolo di Dio, come scuola cattolica, come Oratorio o Centro giovanile, qui a Fusignano. Nella santa Messa celebriamo l’incarnazione, morte e risurrezione di Cristo. Mentre lo facciamo ricordiamo la Natività di Maria e la sua piena associazione al mistero della redenzione.

+ Mario Toso

Cattolici e politica, nuovo saggio di mons. Toso

Il libro sarà presentato martedì 10 settembre alla Loggetta del Trentanove da Muky

Il saggio “Cattolici e politica, In un tempo di cambiamento sociale” scritto dal vescovo di Faenza-Modigliana mons. Mario Toso sarà presentato martedì 10 settembre alle ore 20.30 alla Loggetta del Trentanove (Faenza, Piazza II giugno 7). Alla presentazione, organizzata da Muky e dalla diocesi, interverranno il prof. Stefano Zamagni e la prof.ssa Vera Negri.


La famiglia cristiana e l’ecologia integrale

Bellamonte, 26 agosto 2019

Premessa

Porre la famiglia in rapporto all’ecologia significa parlarne con riferimento al territorio, ad «ecosistemi», alla casa comune che è il creato. Ciò non è tanto situarla in un’area geografica,  in un qualcosa che è separato da essa, in una mera cornice della sua vita, quanto piuttosto riferirla ad una comunità, ad un insieme di soggetti sociali, di istituzioni, di tradizioni, di costumi che formano un ambiente di vita, una rete di rapporti, ove però persone e gruppi di persone, in forza della loro dignità, detengono nativamente un primato di «gestione» e di finalizzazione. Quando si parla di «ambiente» si fa riferimento ad una particolare relazione che si stabilisce tra la natura e la società che la abita, tra l’ambiente e le famiglie, tra i problemi ecologici e i contesti umani, familiari, lavorativi, urbani. Per questo, l’analisi dei problemi ambientali è inseparabile dall’analisi dei suddetti contesti, e dalla relazione di gruppi di famiglie o di ciascuna famiglia con se stessa, che genera un determinato modo di relazionarsi con gli altri e con l’ambiente. Se tutto è in relazione, anche lo stato di salute delle famiglie e delle istituzioni di una società comporta conseguenze per l’ambiente e per la qualità della vita umana. Ogni lesione o frantumazione etico-relazionale delle famiglie, del loro tessuto, provoca danni ambientali, come scrive papa Francesco nella Laudato sì’.[1]

Nel territorio, le persone e i «noi di persone» costituiti in famiglia sono, dunque, il soggetto, il fondamento e il fine delle relazioni con il sociale e con l’ambiente naturale. Basti pensare che un territorio disabitato costituisce un’area «vuota» di umanità e di civiltà. La singolare unità che si instaura tra popolazione e ambiente naturale – da non gestirsi a danno di quest’ultimo, pena forti conseguenze negative per entrambi – è contrassegnata, per conseguenza, dalla preminenza ontologica ed etico-operativa delle persone, delle famiglie e delle istituzioni.

Segnalata la dimensione comunitaria del territorio, che peraltro non è dimenticata nel dettato degli Statuti regionali, è indispensabile precisare la figura di famiglia che orienterà il nostro discorso  sulle sue relazioni con l’ambiente e con  gli altri soggetti sociali, con gli ecosistemi dai quali dipende la nostra stessa esistenza. Se la sociologia ci informa dell’esistenza di molteplici forme di famiglia, è necessario che si giunga a possedere, mediante processi di indagine ed astrazione,[2] un concetto universale di famiglia, per avere un punto di riferimento per la riflessione e per la progettualità sociale. Per avere un concetto più adeguato di famiglia è indispensabile l’impiego di un’ermeneutica più che sociologica, più che meramente fenomenologica, ovvero è necessaria un’ermeneutica globale, che si avvale di una ragione integrale, che coglie non solo le dimensioni sociologiche, biologiche, psicologiche, spirituali, ma anche ontologiche ed etiche della famiglia. Grazie ad un metodo globale di conoscenza la famiglia risulta alla ragione come un intreccio combinato di quattro elementi o componenti legati fra loro: il dono, la reciprocità, la generatività, la sessualità come amore coniugale. Si tratta di una configurazione specificamente relazionale, che sussiste grazie a persone-in-relazione tra di loro e con altri gruppi di persone.  In generale, la famiglia si forma allorché due persone si danno (donano) reciprocamente, riattivano questo dono attraverso la norma della reciprocità, e generano (hanno figli) attraverso la sessualità di coppia. Questa polidimensionalità si manifesta all’interno della famiglia come sua realtà costitutiva, tanto da identificare un codice simbolico specifico, quello dell’amore, che, appunto, viene inteso, di volta in volta, come dono, reciprocità, generazione, manifestazione sessuale. Una conoscenza onto-fenomenologica della famiglia consente di individuare diverse forme di famiglia, nonché di capire cosa sia realmente una famiglia e cosa non lo sia, a partire precisamente dal suo essere una comunità di vita e di amore tra un uomo e una donna, connotata da complementarità, reciprocità e generatività. Solo chi si avvale di un’ermeneutica globale può comprendere che il pluralismo ideologico e la multiculturalità non implicano, come sostengono alcuni, un alleggerimento della verità sulla famiglia (dal punto di vista antropologico, etico, culturale e religioso) e, tantomeno, disimpegno morale nel creare le condizioni che maggiormente favoriscono la crescita umana delle stesse famiglie in merito al loro essere e dover essere relazionale.

In queste riflessioni, in definitiva, ci si riferirà prevalentemente ad un concetto di famiglia molto vicino a quello codificato nella Costituzione italiana (cf artt. 29-31), vale a dire società naturale fondata sul matrimonio, istituzione sociale, soggetto comunitario, privato e pubblico. Tale figura riscontrabile nella realtà è reperibile, con tratti analoghi, anche nella Dottrina sociale della Chiesa.[3] Peraltro, questo non pregiudica la considerazione dei differenti tipi concreti di famiglia,[4] e nemmeno l’attenzione alle unioni di fatto e a quelle omosessuali, che rappresentano un fenomeno non insignificante dal punto di vista sociale.[5]

Si intende così effettuare un approccio mirato, «autorizzato» sia dalla tradizione, sia dall’esperienza dell’esistenza concreta del nucleo famigliare, da una prospettiva culturale chiaramente cristiana che, a voler essere obiettivi, non si può considerare estranea alla nostra civiltà, nonostante i consistenti attacchi culturali e giuridici.

 

  1. La famiglia, soggetto comunitario di ecologia sociale

 

Nel rapporto famiglia ed ecologia integrale è imprescindibile la considerazione della natura comunitaria  del primo elemento del binomio, oltre che la conoscenza del secondo per capire quale possa essere la loro interazione.[6] La dimensione comunitaria della famiglia, che è più delle relazioni interpersonali prese in sé, non è ininfluente rispetto all’incremento della qualità della vita, alla rigenerazione degli ecosistemi, alla salvaguardia del creato, ossia alla realizzazione di un’ecologia integrale, che è data dall’intreccio di ecologia umana ed ecologia ambientale.[7] Una tale dimensione, infatti, si esplica in un «servizio» che si potrebbe definire di ecologia sociale, vale a dire di rafforzamento dei legami sociali, dell’amicizia civica, delle buone pratiche di salvaguardia e di cura del creato, di un ethos aperto sia alla trascendenza sia alla logica della gratuità e del dono. Lo stato di salute della dimensione comunitaria della famiglia, come già accennato, incide sul «benessere» dell’ambiente.[8] Analogamente, lo stato di salute della società internazionale e delle sue istituzioni influisce sulla custodia dell’ambiente e della casa comune della famiglia umana. Un ordinamento giuridico internazionale che, ad esempio, non codifica doveri e diritti ecologici non è ministeriale alla soluzione dei problemi ambientali.

A motivo del suo essere comunionale, del suo essere con e per si può dire che la famiglia – contrariamente a quanto suggeriscono visioni intimistiche e privatistiche – è dotata di un’innata soggettività «generatrice» a livello civile, economico, politico, amministrativo, oltre che religioso ed ecologico.[9] Le sue funzioni sono economiche, sociali, culturali, ecologiche, non solo procreative ed educative. Si esplicano mediante diverse forme di attività imprenditoriale, di amore per la terra, di solidarietà cooperativa o di economia civile nei confronti dei poveri, degli orfani, dei malati, degli anziani, dei bambini, dei portatori di handicap, oltre che del quartiere e dello stesso ambiente.

Tale soggettività sociale deriva ultimamente dalla socialità dei suoi componenti e, prossimamente, dal fatto che la famiglia è una relazionalità stabile (!) di amore, di potenziamento d’essere reciproco. Nascendo dall’amore e crescendo nell’amore, la solidarietà e la soggettività comunitaria della famiglia le appartengono come elementi essenziali e costitutivi. Rappresentano un «capitale sociale», composto da relazioni di fiducia, di affidabilità, di pro-essere, di rispetto delle regole, indispensabili all’ecologia integrale.

In questi ultimi anni, in ragione soprattutto di una straordinaria vitalità nei campi del volontariato e della cooperazione, stanno emergendo le potenzialità, reali e virtuali, della cittadinanza societaria ed ecologica della famiglia,[10] nonostante l’assistenzialismo statale, che non è mai del tutto defunto, tenda in parte ad emarginarla dalla fase elaborativa ed erogativa del sistema di sicurezza sociale come anche di una cultura democratica  e partecipativa della cura ecologica, non valorizzandone adeguatamente le potenzialità a livello di coscientizzazione delle motivazioni, di maturazione di abitudini, di coltivazione di solide virtù, rispetto alle quali lo Stato è impari.

In virtù di tale cittadinanza societaria ed ecologica, la famiglia è soggetto sociale le cui risorse, rispetto a quelle del mercato e dello Stato, appaiono particolarmente predisposte a produrre beni e servizi più commisurati ai bisogni spirituali delle persone, ad una relazionalità ecologica che non si regga solo su criteri di mera obbligatorietà legale o di scambio degli equivalenti, ma che sia di dono, di gratuità, di cura, di responsabilizzazione nei confronti di un ambiente sfruttato, inquinato.

È proprio grazie alla sua soggettività generativa che la famiglia, in quanto istituzione comunitaria – ossia insieme duraturo di relazioni, adeguatamente configurato e finalizzato –, e in quanto piccolo centro ecologico, concorre a costituire la società civile e a svilupparla nella direzione di un tessuto sociale atto ad esprimere progetto e iniziative, a creare e ad animare strutture e condizioni che garantiscono risposte pertinenti ai bisogni materiali e relazionali delle persone e dei gruppi nei confronti dell’ambiente, nel ricercare soluzioni integrali che considerino le interazioni dei sistemi naturali tra loro e con i sistemi sociali.

 

  1. Famiglia, cellula educativa della società civile e del popolo, fulcro della radicale trasformazione della qualità della vita nel territorio

L’ambiente morale ed educativo della famiglia, come già accennato, è determinante per la robustezza e la vitalità dell’ethos della società civile e della cittadinanza democratica ed ecologica. È fattore decisivo per la qualità della vita, per l’ecologia integrale. È ammirevole, riconosce papa Francesco, la creatività e la generosità di persone e di famiglie che sono capaci di ribaltare i limiti dell’ambiente, modificando gli effetti avversi dei condizionamenti che, purtroppo, si incontrano nei centri urbani, nei quartieri, ma anche in zone rurali o montane. La vita sociale positiva e benefica dei cittadini e delle famiglie diffonde luce  in ambienti urbani e rurali a prima vista invivibili o particolarmente difficili. A volte è straordinaria l’ecologia umana che riescono a sviluppare famiglie povere in mezzo a tante limitazioni. Il degrado, ad esempio, di determinati quartieri, come anche l’isolamento delle persone anziane, vengono spesso contrastati mediante la supplenza di relazioni umane di vicinanza tra famiglie. I limiti ambientali vengono così compensati dalla ricchezza della vita interiore delle persone e delle famiglie. L’amore è più forte. Tante persone e famiglie, pur vivendo in ambienti affollati e psicologicamente opprimenti, sono capaci di trasformare l’anonimato e la spersonalizzazione in un’esperienza comunitaria in cui si infrangono le pareti dell’io e si superano le barriere dell’indifferenza, per costituire dei «noi» accoglienti e conviviali.

È importante tornare a considerare qui anche il benefico influsso della famiglia rispetto alla società civile che costituisce un tessuto sociale di prima rilevanza nella custodia e nella coltivazione del creato. La società civile è un insieme di relazioni e di risorse culturali ed associative, relativamente autonome dal­l’ambito economico e politico, ed è dotata di una propria capacità progettuale orientata a favorire una convivenza libera e giusta, inclusiva, ma anche a recuperare i diversi livelli dell’equilibrio ecologico: quello interiore con se stessi, quello solidale con gli altri, quello naturale con tutti gli esseri viventi, quello spirituale con Dio.[11] Ciò avviene quando la società civile è animata da un ethos col­lettivo costituito da un insieme di valori condivisi, da un costume di vita diffuso, da un comune senso di appartenenza, da un’ecologia della vita quotidiana (gli ambienti in cui si vive quando siano inquinati dal punto di visto acustico e visivo, influiscono negativamente sul nostro modo di vedere la vita, di sentire e di agire), da un’ecologia culturale (che valorizza il patrimonio storico e artistico locale, la cultura orale, la dimensione religiosa, il lavoro comunitario, le buone pratiche). Tale ethos la rende «luogo» ove, grazie a un dialogo serrato, grazie a pratiche di mutuo sostegno e di cooperazione fra singoli e fra famiglie, si conseguono obiettivi sempre più consistenti di promozione umana, di qualità della vita, di ecologia integrale.[12] Orbene, con riferimento all’ecologia della vita quotidiana, all’ecologia economica o culturale, all’ethos civile di una società, le famiglie e i gruppi di famiglie possono svolgere una missione decisiva ed insostituibile, specie quando contribuiscono ad educare all’ecologia (umana, sociale), a curare le ricchezze culturali locali, nonché le consuetudini e il mondo simbolico propri di ciascun gruppo umano (ecologia culturale). Così papa Francesco illustra l’importanza centrale della famiglia in ordine all’educazione ecologica: «Nella famiglia si coltivano le prime abitudini di amore e cura per la vita, come per esempio l’uso corretto delle cose, l’ordine e la pulizia, il rispetto per l’ecosistema locale e la protezione di tutte le creature. La famiglia è il luogo della formazione integrale, dove si dispiegano i diversi aspetti, intimamente relazionati tra loro, della maturazione personale. Nella famiglia si impara a chiedere permesso senza prepotenza, a dire “grazie” come espressione di sentito apprezzamento per le cose che riceviamo, a dominare l’aggressività o l’avidità, e a chiedere scusa quando facciamo qualcosa di male. Questi piccoli gesti di sincera cortesia aiutano a costruire una cultura della vita condivisa e del rispetto per quanto ci circonda».[13]

Parimenti, è risaputo che la democrazia ha il suo soggetto in un popolo che, in un determinato territorio, unito da vincoli di mutua fraternità e amicizia civica, e sottoposto a giuste leggi, forma un corpo morale unico – pur essendo composto da più famiglie spirituali –, ed è animato dal senso del bene comune e dal­la vita retta del­la moltitudine, sul­la base del­la responsabilità e di una cittadinanza attiva e partecipativa anche con riferimento alla salvaguardia dell’ambiente. In vista dello sviluppo di un’ecologia integrale è sorta, peraltro, una molteplicità di movimenti ecologici che confluiscono in quel movimento ecologico mondiale che ha già fatto un lungo percorso, arricchito dallo sforzo di molte organizzazioni della società civile. È grazie all’impegno di questi molteplici soggetti che le questioni ecologiche sono sempre più presenti nell’agenda pubblica dei governi. In definitiva, è cresciuta una democrazia ecologica, partecipata e partecipativa, in connessione ad un’economia altrettanto ecologica, segno di una ricca vitalità della popolazione, sempre più cosciente  del suo ruolo di pressione, di controllo e di coinvolgimento responsabile. Se i cittadini e le famiglie non sono in grado di controllare il potere politico – nazionale, regionale e municipale – neppure è possibile un contrasto efficace dei danni ambientali, come anche la coltivazione del creato a vantaggio di tutti.

Ora, proprio nel­la famiglia fondata sul­l’amore – ossia su un insieme di rapporti improntati dall’essere con gli altri, per gli altri, negli altri, che si attuano come comunione-comunità di persone, ove queste sono trattate come fini (in Dio) e non come mezzi –, si sviluppano le prime elementari, ma fondamentali, esperienze di relazionalità; si strutturano legami da cui iniziano ad emergere il senso e l’importanza del­la fraternità e del­la solidarietà anche sul piano ecologico; si apprendono comportamenti basati sul rispetto profondo del­la vita e del­la dignità del­l’essere umano, sull’alleanza tra l’umanità e l’ambiente, sul­la partecipazione al­la realizzazione di un bene comune, sulla maturazione della consapevolezza di una «cittadinanza ecologica»; si impara a guardare al­l’«altro» – persona o creato o «noi-di-persone» – con uno sguardo di benevolenza disinteressata e ci si prende cura di lui. Mediante l’opera educativa, tutto questo viene assunto in termini di libertà e responsabilità, cosicché la famiglia diviene la prima scuola di vita sociale, dove si trasmettono valori culturali, etici e religiosi, atteggiamenti, usi e costumi ecologici.

Giovanni Paolo II è il pontefice che per primo esplicita in maniera significativa il «ministero» ecologico della famiglia, scrivendo chiaramente che essa è la «prima e fondamentale struttura a favore dell’“ecologia umana”» (CA 39). Su questo suo nuovo approccio, assunto anche dai successori, si ritornerà a breve.

Il male più grave del­la società occidentale, incline al materialismo consumistico e performativo, minata nella sua ricerca di senso dallo scetticismo e dall’agnosticismo imperanti, consiste – annota il pontefice polacco – nel­l’alienazione morale. Le sue forme di organizzazione, di produzione e di consumo, derivanti da un ethos intriso di relativismo e utilitarismo, non consentono al­le persone di autotrascendersi, di vivere cioè l’esperienza del dono di sé, del­la for­mazione di un’autentica comunità umana, orientata al suo destino ultimo in Dio, prestando attenzione alla sua dimensione ecologica.

In tale contesto, quando rispettano e promuovono la struttura naturale e morale del­l’uomo, permettendogli di realizzarsi in quanto essere relazionale, comunionale e solidale, aperto al­la Trascendenza, le famiglie non assecondano conservatorismi e forme di relazioni strumentalizzanti, di abitudini di consumo che sperperano le risorse, ma sono, piuttosto, fucine di radicali trasformazioni del­la qualità del­la vita di tutto il tessuto sociale, di cambiamenti spirituali e culturali che concernono la cura del creato.

La presenza di famiglie unite e sane, strutturate in termini di amore e di solidarietà a livel­lo di volontariato e di cooperazione, è la migliore garanzia contro ogni deriva individualistica o socio-sistemica. Esse rappresentano un efficace antidoto contro ordinamenti e istituzioni che umiliano la dignità del­le per­sone e non coltivano la destinazione universale dei beni della terra, non vigilando adeguatamente su forme di accaparramento delle risorse e di comportamenti illegali. Contribuiscono al­la costruzione di una società nuova: meno ego­ista, meno dilapidatrice del­le risorse naturali, meno devastante per l’ambiente, più orientata ad uno sviluppo sostenibile, più etica nel­la sua vita e nel­le sue strutture democratiche, più carica di speranza.[14]

 

  1. Le famiglie, soggetti politici del territorio

La soggettività sociale delle famiglie, come accennato, è anche di natura politica: le famiglie, ad essere più precisi, sono soggetti politici, hanno un peso politico, in quanto comunità di persone, ossia entità collettive qualificate umanamente e socialmente dai soggetti che le compongono.

A questo proposito, Giovanni Paolo II scrive: «Il compito sociale del­le famiglie è chiamato ad esprimersi anche in forma di intervento politico: le famiglie, cioè, devono per prime adoperarsi affinché le leggi e le istituzioni del­lo Stato non solo non offendano, ma sostengano e difendano positivamente i diritti e i doveri del­la famiglia. In tale senso le famiglie devono crescere nel­la coscien­za di essere “protagoniste” del­la cosiddetta “politica familiare” ed assumersi la responsabilità di trasformare la società: diversamente le famiglie saranno le prime vittime di quei mali, che si sono limitate ad osservare con indifferenza».[15]

Ebbene, la soggettività politica della famiglia, relativamente anche all’ambito ecologico, si articola concretamente sul piano locale oltre che sul piano nazionale e sovranazionale.

È proprio al profilo di famiglia, che ne evidenzia le responsabilità di soggetto originario e primario e, quindi, centrale della società civile e politica, che occorre riferirsi nella costruzione non solo di una nuova società, fondata sull’essere più che sull’avere, ma anche di un nuovo Welfare, specie a livello territoriale e municipale, come anche di una politica ecologica non prona alla finanziarizzazione dell’economia, alla tecnocrazia. Occorre abbattere l’esaltazione tecnocratica,[16] la massimizzazione dei profitti,[17] come anche l’indifferenza nei confronti della vita umana sin dal suo nascere. La LS afferma chiaramente che non è coerente e non è credibile una politica ecologica che giustifica l’aborto, che tollera la tratta degli esseri umani, la criminalità organizzata.[18]

Per conseguenza, la figura della famiglia – istituzione sociale con funzioni private e pubbliche, soggetto attivo e responsabile della società civile e politica, dell’ambiente –, deve trovare traduzione adeguata a livello di legislazione, di formazione, di economia, di mercato del lavoro, di custodia e di coltivazione del creato. Di qui, l’esigenza di porla al centro dell’attenzione degli altri soggetti sociali: partiti, sindacati, movimenti, associazioni, scuola, amministrazioni, parrocchie. La famiglia ha una funzione strategica e insostituibile nella cura del creato. La politica non può ignorarlo, specie quando intende volgersi alla modifica dei consumi, allo sviluppo di un’economia dei rifiuti e del riciclaggio o circolare, alla protezione di determinate specie e alla programmazione di un’agricoltura diversificata con la rotazione delle colture.[19]

 

  1. Famiglia rurale

 

Gli studiosi dei problemi ecologici riconoscono che la famiglia svolge un ruolo importante nella tutela e nella promozione della biodiversità,[20] dell’ecologia integrale. La missione ecologica della famiglia si esprime in particolare sul piano dell’agricoltura familiare.

«Agricoltura familiare» è oggi un’espressione tecnica, dall’uso frequente nelle Organizzazioni internazionali e nelle Agenzie che si occupano di questioni agricole. Ricordiamo qui che l’Assemblea generale dell’ONU ha dichiarato l’anno 2014, International Year of Family Farming[21]. La famiglia, però, nel gergo di funzionari e tecnici internazionali, corre il rischio di essere considerata come una mera unità di misura per elaborare statistiche e indicatori. L’agricoltura familiare, secondo alcuni, sarebbe sinonimo di limitatezza e di arretratezza, una tappa solo parzialmente soddisfacente, chiamata ad evolvere verso qualche cosa di più moderno e  strutturato.
Orbene, la famiglia non può rimanere confinata in accezioni così aride, riduttive e fuorvianti. Purtroppo è innegabile che nel contesto socio-culturale odierno il concetto di «famiglia» ha perso molto del suo spessore. Nelle società più industrializzate, dominate da ideologie caratterizzate da un particolare tipo di relativismo individualista, libertario e materialista, di assolutizzazione della tecnologia, la famiglia appare fragile e liquida, assottigliata nella sua essenza relazionale e culturale. La sua dimensione culturale si impoverisce, si svuota. Ciò nonostante, il suo valore e le sue potenzialità sono riconosciuti in molti luoghi, specie ove le sfide e le speranze per l’agricoltura e per i nuclei contadini sono più grandi.[22] L’efficacia della famiglia rurale rispetto alla salvaguardia dell’ambiente e della biodiversità si può constatare, ad esempio, allorché riesce ad organizzarsi in azienda agricola che offre alternative biologicamente valide rispetto al centro commerciale o al supermercato ove non sempre si può essere sicuri che i prodotti posti in vendita siano privi di pesticidi e di sostanze tossiche.[23] Peraltro, la famiglia sia come singola sia come associata può divenire protagonista di una ecologia integrale allorché imposta la sua economia in maniera da evitare lo stimolo compulsivo al consumo di oggetti o di prodotti usa e getta. Oggi crescono le famiglie resilienti, ovvero le famiglie che scelgono di prodursi beni, servizi di cui hanno bisogno per vivere, curando un orto nel giardino di casa o su un pezzo di terra messo a disposizione dalla amministrazione comunale, oppure costituendo gruppi di acquisto solidale, comprando insieme beni di uso quotidiano, andando a conoscere, produttore per produttore, dove e come si realizza ciò che viene comprato e consumato: frutta, verdure, olio, conserve, latte, formaggi, carne, pane. In tal modo, si possono potenziare quelle aziende rurali locali, che proprio grazie al funzionamento dei gruppi di acquisto solidale sono incentivate e stimolate a produrre meglio, garantendo sconti collettivi, altrimenti impensabili. Tutto questo favorisce il ritorno ad un’agricoltura di prossimità, al consumo di prodotti sani e di stagione, a filiere corte. Ciò è anche un modo per abbattere o comunque calmierare i costi solitamente elevati di certi prodotti, specie quelli bio.[24]
Occorre, allora, puntare con risolutezza sì sul concetto di agricoltura familiare, ma evidenziandone lo spessore valoriale e relazionale, nonché culturale, affinché una valida riflessione su questo tipo di conduzione possa contribuire maggiormente allo sviluppo del settore agricolo. In un contesto in cui l’agricoltura ha sempre più bisogno del supporto di un’«ecologia umana», attenta alla formazione morale delle persone, oltre a quella professionale, appare vitale e imprescindibile il suo nesso con la famiglia, quale prima e fondamentale struttura della suddetta ecologia, come già rilevato. A questo proposito, la tradizione del pensiero sociale cattolico può offrire all’espressione «agricoltura familiare» tutto quello spessore semantico e etico che è vissuto da quell’unità che è il «noi» della famiglia rurale, in cui le persone si amano, in un mutuo potenziamento d’essere e di relazionalità, usufruendo di un substrato culturale e spirituale che il cristianesimo ha contribuito a sedimentare negli animi e nella sensibilità civile. È nella famiglia rurale, nel suo particolare milieu, che crescono nuovi protagonisti dell’agricoltura che, in un clima di amore per la terra, di fiducia nel dono di Dio all’uomo, concepiscono il loro lavoro come risposta alla chiamata della coltivazione del creato, con senso di umiltà, rispetto e di solidarietà intergenerazionale. L’azienda familiare, pertanto, trova in se stessa gli incentivi ottimali per coltivare e custodire il dono della terra e presidiare il territorio, facendolo fruttificare in modo sostenibile, generazione dopo generazione.[25] Non ci può essere nulla di meglio dell’autentica relazionalità e convivialità familiare, che è humus fecondo e modello comportamentale esemplare, per un’agricoltura chiamata a rinsaldare una costante solidarietà tra gli uomini, a stabilire un rapporto di armonia tra l’umanità e la natura, a trasmettere valori, tradizioni e conoscenze.[26] È importante, allora, difendere la famiglia rurale da discriminazioni a livello di credito e di investimenti (pubblici e privati), da ideologie fuorvianti o da quelle tecnologie che assorbono il ruolo specifico e tipico del coltivatore diretto e la dimensione familiare nella struttura operativa del mondo dei produttori di cibo.[27] Il lavoro dei campi coinvolge il nucleo della famiglia in una maniera del tutto particolare, in termini quasi di simbiosi con la terra, di riconoscenza nei suoi confronti, di esperienza privilegiata della presenza di Dio e del suo amore per le sue creature, di spiritualità vissuta nel grande tempio del creato, godendo e condividendo la bontà provvida del Signore della vita. La famiglia, riconosce Giovanni Paolo II, «costituisce sempre la base di tutti i valori umani che l’agricoltura è anche oggi capace di salvaguardare».[28] Non si deve, infine, sottovalutare che la conduzione familiare può contribuire ad evitare fenomeni di concentrazioni di potere nella produzione alimentare e a difendere importanti valori culturali, la biodiversità e il lavoro indipendente.

 

  1. Famiglia, prima e fondamentale struttura a favore dell’ecologia umana e della salvaguardia dell’ambiente

 

Come già accennato, nell’enciclica Centesimus annus (=CA),  Giovanni Paolo II ha evidenziato il legame tra famiglia, ecologia umana e salvaguardia del creato. La brevissima riflessione sul ruolo della famiglia rurale ci consente di ritornarci.

La crisi ecologica odierna, secondo il pontefice polacco, dipende ultimamente dalla crisi dell’uomo, dalla sua incapacità a comprendersi come essere creaturale, dialogico, dipendente dalle altre creature, ma qualitativamente differente da esse perché essere unico, irripetibile, trascendente. La questione ecologica si configura, quindi, sia come questione antropologica di visione dell’uomo e di responsabilità morale, sia come questione di ecologia umana.

In altri termini, il problema della salvaguardia dell’ambiente si intreccia con quello della salvaguardia dell’uomo. La soluzione si può ricercare sulla base di un’antropologia integrale e teocentrica, ossia di un’antropologia «postmoderna», che non pone dicotomie tra uomo e natura, né sacralizza quest’ultima secondo un modello culturale biocentrico. Solo con un maggiore impegno riformatore ed educativo, con l’ausilio della scuola e delle famiglie, sul versante tipicamente umano della questione ecologica, si pongono nuove condizioni morali e culturali, si umanizzano gli ambienti – quartieri, imprese, scuole, mezzi di comunicazione sociale –, si sostituiscono le «strutture di peccato» con strutture giuste ed eque, si forma a nuovi stili di vita.

Mantenendosi entro questo alveo di pensiero iniziato da Giovanni Paolo II, si può affermare che, nella famiglia fondata sulla convivialità, l’uomo viene educato secondo la propria vocazione a collaborare con Dio nel custodire e coltivare il giardino affidatogli, in un giusto rapporto con l’ambiente e con gli altri, al di là di atteggiamenti predatori o consumistici. Per questo, a livello di comuni o di comprensori territoriali, non è pensabile programmare interventi significativi circa la salvaguardia dell’ambiente, senza far leva sulle famiglie, sulla loro opera educativa, sulla loro soggettività civile, economica, associativa, culturale, ecologica. Come si sottolineava in un precedente paragrafo è la società civile, comprendente le famiglie e le loro associazioni, il primo e l’ultimo soggetto responsabile della custodia e della cura del creato, specie quando gli altri livelli – nazionali e sovranazionali – abbiano fallito i loro interventi e le loro politiche. Tocca alla società civile, allora, mobilitarsi, coinvolgendo le famiglie. Se la politica non è capace di rompere una logica perversa, e inoltre resta inglobata in discorsi inconsistenti, non rimane se non alla società civile, ai cittadini e alle famiglie, il compito di affrontare i grandi problemi dell’umanità e dell’ambiente, a cominciare dal basso.[29] Non tutto è perduto, anche quando la via che potrebbe incidere di più sui problemi ecologici, ossia la politica, si mostra un’arma spuntata. Ciò è dimostrato dai movimenti sociali che, con il loro associarsi, riescono ad esercitare una certa pressione su coloro che detengono il potere politico, economico e sociale. «È ciò che accade quando i movimenti dei consumatori riescono a far sì che si smetta di acquistare certi prodotti e così diventano efficaci per modificare il comportamento delle imprese, forzandole a considerare l’impatto ambientale e i modelli di produzione. È un fatto che, quando le abitudini sociali intaccano i profitti delle imprese, queste si vedono spinte a produrre in un altro modo. Questo ci ricorda la responsabilità sociale dei consumatori. “Acquistare è sempre un atto morale, oltre che economico”. Per questo oggi “il tema del degrado ambientale chiama in causa i comportamenti di ognuno di noi”».[30] Ma nel cambiamento degli stili di vita e delle abitudini negative della politica, con l’azione  dei consumatori e delle famiglie – anche quest’ultime sono, peraltro, soggetti consumatori -,  dovrà senz’altro influire un’intensa educazione ambientale.

 

  1. La vocazione ecologica della famiglia cristiana e il compito di un’evangelizzazione ecologica

Nel disegno di Dio, come le singole persone sono segnate e intimamente strutturate da una vocazione alla cura e alla custodia del creato, così lo sono le famiglie. Pensate e create da Dio, ma anche redente da Cristo, sono chiamate in Lui a partecipare alla generazione di cieli e terra nuovi, operando contro gli attuali attacchi distruttivi del creato, gestendolo non secondo una logica da padroni assoluti, bensì da saggi e prudenti amministratori. Persone, famiglie, popoli conseguono il proprio compimento in Cristo mediante la cura della casa comune, collaborando sinergicamente affinché il creato raggiunga il fine per cui è stato originato: servire l’umanità e, insieme, essere gloria di Dio.

Nella LS, la famiglia cristiana, chiamata da Dio alla cura e alla coltivazione del giardino in cui è stata posta, trova un metodo di discernimento indispensabile per la sua missione. Attuandolo diviene protagonista di una nuova evangelizzazione dell’ecologia e, contemporaneamente, di un nuovo umanesimo integrale, sociale, anch’esso ecologico, capace di integrare storia, cultura, economia, architettura, vita quotidiana nella città e nelle aree rurali. Detto altrimenti, le famiglie cristiane, sono sollecitate a prendersi cura della casa comune con  un’ispirazione propria, con motivazioni più che semplicemente umane. In particolare, sono le convinzioni di fede che le famiglie posseggono a offrire a loro motivazioni alte, superiori a motivazioni semplicemente umane, per prendersi cura della natura e dei propri fratelli e sorelle più fragili. I compiti delle famiglie all’interno del creato, i loro doveri nei confronti della natura e del Creatore, sono espressione, dunque, del loro essere in Cristo e della loro fede, che peraltro non cancella le motivazioni razionali ma le comprende e le rafforza. Proprio perché guidate dai contenuti di fede, le famiglie sono dotate di un particolare senso critico, capace di individuare nuove categorie per leggere ed interpretare la crisi ecologica e per proporre soluzioni adeguate. Ai fini della costruzione di un’ecologia integrale, in grado di riparare tutto ciò che abbiamo distrutto, è, dunque, fondamentale anche l’apporto delle convinzioni di fede. Con la loro ampia prospettiva, esse integrano quelle offerte da altri saperi, non esclusa la tecnoscienza, prodotto pur meraviglioso della creatività umana, ma da ridimensionare e ricondurre alla sua giusta valenza rispetto all’attuale assolutizzazione. Lo sguardo della fede consente un approccio più completo alla complessità della crisi ecologica. Le soluzioni non possono derivare da un unico modello interpretativo e trasformativo della realtà. Nessuna forma di saggezza può essere trascurata.

 

  1. Sulla crisi ecologica influisce la crisi religiosa: il ruolo della famiglia cristiana

A fronte di una crisi che coinvolge tutto l’ambiente quanto l’essere umano, concepiti da Dio come interrelati, interdipendenti, uniti in uno stesso destino comune, ed entrambi attraversati da una dimensione religiosa, la famiglia cristiana ha un importante apporto da offrire. Se la crisi ecologica ha radici etico-religiose e la sua soluzione avviene grazie all’indispensabile compimento del cuore dell’uomo e del suo atteggiamento nei confronti di Dio Padre, la famiglia cristiana, quando sia fedele alla sua identità e alla sua vocazione contribuisce efficacemente alla rimozione delle cause religiose della suddetta crisi. Poiché il libro della natura è uno e indivisibile, la salvaguardia dell’ambiente dipenderà principalmente dalla cura della vita umana, dall’educazione al senso religioso, dalla qualità etico-culturale dell’ambiente sociale. Quando dall’orizzonte culturale della società scompaia il riferimento a Dio, l’etica ecologica viene strutturata come se Dio non ci fosse. Le conseguenze che ne derivano sono l’indebolimento della condotta della condotta morale e, in particolare, dell’ethos sociale. Il come se Dio non esistesse si traduce in come se la comunità non esistesse. La vita assume configurazioni individualistiche ed utilitaristiche. Snaturandosi il telos umano, la libertà disconosce i propri limiti e dissocia, insensatamente, l’etica sociale ed ambientale dall’etica della vita. Perde l’ideale storico e concreto di una crescita globale, sostenibile ed inclusiva, ossia di un’ecologia integrale, aperta alla Trascendenza. Al posto di una civiltà dell’amore e della convivialità subentrano un modello di sviluppo materialistico e consumistico, la cultura dello scarto, comandati dall’antropocentrismo moderno e dal connesso paradigma tecnocratico.

La fede rende più idonea la famiglia al dialogo pubblico sui temi ecologici, nel proporre una cultura ambientale più adeguata a tutte le dimensioni della sua crisi. Ma quali sono, in concreto, i contenuti che rendono preziosa la fede per il discernimento ecologico? Papa Francesco li desume dalla sapienza biblica, dai racconti della creazione e dalla tradizione giudeo-cristiana. Eccone alcuni:

  1. la natura è un pre-dato: ci precede e ci è donata da Dio come ambiente di vita. Essa porta inscritta in sé una «grammatica», che l’uomo deve saper leggere senza stravolgerla, per apprendere l’uso corretto delle risorse nel suo compito di sviluppo della creazione;
  2. tutto il creato, e così la terra, appartiene a Dio (Dt 10,14). È stato affidato all’umanità, non in proprietà esclusiva, bensì come realtà destinata alle generazioni di ogni tempo. Il creato e l’ambiente sono un prestito che ognuno di noi riceve e deve conservare al meglio, per poi consegnarlo agli uomini a venire. Infatti, nella creazione e nella terra è inscritta una destinazione universale, che costituisce la «regola d’oro» da rispettare nell’uso dei beni;[31] dal fatto di essere creati ad immagine di Dio e dal mandato di dominare la Terra non si può dedurre la facoltà di asservire le creature;[32]
  3. ogni comunità può prendere dalla bontà della Terra ciò di cui ha bisogno, ma ha anche il dovere di tutelarla e di garantire la continuità della sua fertilità per le generazioni future;
  4. la libertà dell’essere umano non è senza limiti o indifferente nei confronti del bene, del vero e di Dio: essa è per la verità, per il dono e per Dio;
  5. essendo stati creati dallo stesso Padre, noi, esseri dell’universo, siamo uniti da legami invisibili e formiamo una sorta di famiglia universale, una comune-unione. È per questo che la desertificazione del suolo, ad esempio, colpisce come una malattia ciascun uomo;
  6. il traguardo del cammino dell’universo è nella pienezza di Dio, già raggiunta da Cristo risorto, fulcro del compimento universale. Noi non costituiamo lo scopo finale delle altre creature. Ognuna di esse ha un valore proprio nel loro esodo verso Dio;
  7. all’interno dell’universo materiale, la persona rappresenta una novità qualitativa, un soggetto che non può mai essere ridotto ad «oggetto», perché titolare di una dignità superiore rispetto a tutte le altre creature terrene;
  8. non può essere autentico un sentimento di intima unione, di fraternità con gli altri esseri della natura, se nello stesso tempo non c’è tenerezza e preoccupazione per gli esseri umani. È evidente l’incoerenza di chi lotta contro il traffico degli animali a rischio di estinzione, ma rimane del tutto indifferente davanti alle migrazioni, alla tratta delle persone, alla vita dei più deboli ed indifesi. Ciò mette a rischio il senso della lotta per la conservazione dell’ambiente.[33]

Merita che ci si fermi qui per alcune considerazioni. La prima: i contenuti di fede, così come li espone il pontefice, oltre ad aiutare a leggere in maniera corretta i testi biblici,[34] e ad offrire uno sguardo più ampio sulla realtà, rispetto a quello della tecnoscienza, propongono una precisa ermeneutica del rapporto tra Dio, il creato e la persona. Aiutano a leggerlo e ad interpretarlo, movendo dall’esperienza del «ricevere», dell’accogliere, del condividere, in un approccio non aprioristico o idealista. Indicano come fondamentale ciò che papa Francesco, nella Evangelii Gaudium (=EG), chiama criterio di realtà.[35] La realtà è sempre superiore alle idee, ai concetti, alle costruzioni teoriche, ai nominalismi. La prospettiva teologica delle convinzioni di fede, in concreto, aiuta a risvegliare una conoscenza di tipo «realista», che non dà adito a divagazioni astratte, bensì immette in un’esperienza gnoseologica aperta al fondamento, la quale va oltre la semplice fenomenologia e si apre al metafisico e all’etico. Senza un’ermeneutica che consente di accedere alla dimensione metafisica ed etica della realtà non si dispone di quella sintesi culturale che è imprescindibile per forgiare il concetto di un’ecologia integrale di cui si parlerà più avanti.

La seconda considerazione si collega alla prima. L’approccio al creato, con un metodo conoscitivo di tipo realista, consente di cogliere l’emergenza dell’originalità dell’uomo sulla natura. È su questa trascendenza che si costruisce l’etica ecologica. Il mancato riconoscimento dell’eccedenza dell’uomo – come avviene, ad esempio, nelle teorie che lo disperdono nella comunità biotica – inficia ogni discorso morale. Se si perdessero i parametri antropologici del rapporto con l’ambiente, assorbendo l’uomo in un tutto vitalistico, sarebbe impossibile parlare di etica ecologica e, per conseguenza, di etica ambientale. D’altra parte, la preminenza dell’uomo sulla natura non implica assolutamente il misconoscimento della dimensione creaturale di questa, e quindi non può giustificare atteggiamenti predatori di dominio dispotico. La natura è espressione di un disegno d’amore e di verità. Reca in sé ordinamenti che non sono invenzioni dell’uomo, ma costituiscono un ordine morale già abbozzato dall’azione creatrice di Dio e che, proprio per questo, non possono essere arbitrariamente scavalcati. Ecco perché si è sollecitati a superate un’etica utilitaristica, che ignora i legittimi bisogni dell’umanità, gli equilibri intrinseci al creato stesso, nonché i limiti delle risorse disponibili.

Quanto sin qui detto, inoltre, mette in risalto il fatto che, con la Laudato si’, viene messo a punto un tipo di discernimento, che i credenti e le famiglie devono valorizzare in modo particolare. Essi vengono di fatto sollecitati ad accettare prospettive omogenee con l’esperienza della loro fede. Papa Francesco evidenzia i capisaldi di una cultura ambientale loro specifica, con la quale i credenti e le famiglie entrano nel dialogo universale, apportando un contributo originale. La fede non li rende meno idonei al confronto ‒ come alcuni sembrano ritenere ‒, ma li costituisce portatori di visioni e di motivazioni, che supportano ed integrano quelle addotte da una retta ragione. In tal modo, papa Francesco, che non colloca in apertura dell’enciclica, come era previsto in una prima bozza, un forte nucleo teologico e spirituale dal quale far discendere, quasi deduttivamente, le diverse argomentazioni, rilancia vigorosamente l’impegno dei cristiani e delle famiglie, nonché delle varie associazioni ed aggregazioni, ricordando loro che possiedono motivazioni importanti per contrastare la crisi ecologica. Essi hanno tutto ciò che serve per elaborare quella cultura e quella progettualità, indispensabili al mondo intellettuale e alla politica per individuare  nuove strade.

  1. La famiglia cristiana è portatrice di un nuovo umanesimo che riabilita il lavoro

La famiglia che si nutre ed alimenta di fede diviene portatrice di una nuova antropologia. È fucina di un umanesimo trascendente, pregiudiziale per le applicazioni del progresso tecnologico sia nel mondo del lavoro che in quello vegetale ed animale. Solo sulla base di un tale umanesimo sarà possibile riabilitare il lavoro che nell’odierno contesto dominato dal capitalismo finanziario speculativo, è spesso considerato attività funzionale soltanto al profitto o anche una variabile dipendente dai mercati monetari e finanziari.

In vista di un’ecologia integrale, che non escluda l’essere umano, va recuperato un nuovo umanesimo del lavoro, concependolo come attività di custodia e di coltivazione del creato nonché strumento indispensabile per farne emergere tutte le potenzialità positive. Non si tratta solo del lavoro manuale o della terra, bensì di qualsiasi attività che implichi qualche trasformazione dell’esistente, dall’elaborazione di uno studio sociale fino al progetto di uno sviluppo tecnologico. Nell’attuale clima capitalistico-finanziario, che tende a sottovalutare il lavoro manuale ed artigianale, considerandolo sempre più funzionale ai mercati finanziari e monetari, occorre recuperare la visione del lavoro come bene e, quindi, come diritto fondamentale dell’uomo. E questo esige che si continui a perseguire, quale priorità, l’obiettivo dell’accesso al lavoro per tutti.[36]

«Non si deve cercare – ecco un’affermazione di papa Francesco carica di conseguenze per l’organizzazione odierna del mondo del lavoro – di sostituire sempre più il lavoro con il progresso tecnologico: così facendo l’umanità danneggerebbe se stessa».[37] Se il lavoro ha il primato sul capitale, se è antidoto alla povertà e titolo di partecipazione alla gestione di una società democratica, non si può accordare preminenza al paradigma tecnocratico. E neppure pensare che il progresso tecnologico sia soltanto in funzione della riduzione dei costi e dei posti di lavoro. Questo comporterebbe un impatto fortemente negativo sulla stessa economia, sul cosiddetto «capitale sociale», per non parlare della vita delle famiglie. Privilegiare il paradigma tecnocratico significherebbe giustificare quanto sta avvenendo anche nel nostro Paese, ove multinazionali e cordate finanziarie straniere si impossessano delle migliori aziende, per poi ristrutturarle, cambiandone le tecnologie, procedendo senza la necessaria gradualità a licenziamenti collettivi o alla messa in cassa integrazione, trascurando nella maggior parte dei casi la prospettiva di riqualificazione o di reinserimento dei lavoratori. Il ridimensionamento dell’occupazione va realizzato per gradi, non bruscamente, tenendo conto non solo del mercato ma anche delle famiglie. Va controllato socialmente, ed integrato dalla creazione di altre opportunità di lavoro. La sollecitudine per il bene comune impone il compito di ripensare le modalità di esercizio delle varie professioni, come anche di considerare i nuovi settori che si possono dischiudere. Se, da una parte, il progresso tecnologico può condurre al ridimensionamento dei posti di lavoro, dall’altra, l’esigenza non solo di un’economia ecologica, ma anche di un’ecologia culturale della vita quotidiana nei vari ambienti, conduce a nuovi sbocchi lavorativi e professionali.

Ma che fare, più concretamente, per aumentare l’occupazione? Secondo papa Francesco, si tratta di realizzare o conservare un’economia «che favorisca la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale».[38] In vista di ciò, in primo luogo, bisognerebbe evitare di privilegiare le economie di scala. Queste, specie nel settore agricolo, finiscono per costringere i piccoli coltivatori a vendere le loro terre o ad abbandonare le colture tradizionali ricche di biodiversità. «I tentativi di alcuni di essi di sviluppare altre forme di produzione, più diversificate, risultano inutili a causa della difficoltà di accedere ai mercati regionali e globali o perché l’infrastruttura di vendita e di trasporto è al servizio delle grandi imprese».[39] In secondo luogo, le autorità dovrebbero fornire il loro appoggio ai piccoli produttori, all’agricoltura famigliare, considerando che nel mondo sussiste ancora oggi una grande varietà di sistemi alimentari agricoli di modeste proporzioni. Sono loro che provvedono a nutrire la maggior parte della popolazione mondiale, lavorando piccoli appezzamenti agricoli e orti, che richiedono poca acqua e producono meno rifiuti, ed anche con la caccia, con la raccolta di prodotti boschivi, e con la pesca artigianale. In terzo luogo, potrà essere necessario porre dei limiti ai detentori di grandi risorse e potere finanziario. «La semplice proclamazione della libertà economica, quando però le condizioni reali impediscono che molti possano accedervi realmente, e quando si riduce l’accesso al lavoro, diventa un discorso contraddittorio che disonora la politica».[40]

  1. Famiglia protagonista nell’educazione ecologica e nella mobilitazione delle coscienze

Rispetto alla grande crisi ecologica emerge, come già accennato, l’urgenza di una grande opera educativa. Tra i luoghi educativi – oltre alla comunità cristiana, la catechesi, l’evangelizzazione dell’ecologia, la scuola in ogni ordine e grado, i nuovi mass media – la LS pone la famiglia. Qui, secondo l’angolatura delle nostre riflessioni, ci limitiamo a considerare la famiglia cristiana, la quale è connaturalmente commisurata ad offrire una spiritualità ecologica, che trae le sue energie dalle convinzioni di fede di cui si è già detto.

In vista di un’ecologia integrale, la grande ricchezza della spiritualità cristiana può offrire, tramite le famiglie, un magnifico contributo:

  • dando motivazioni, che derivano dall’esperienza di una vita radicata in Cristo: non bastano le idee, occorre possedere una vera e propria passione per la cura del mondo, riconoscendo nelle varie creature il gesto di tenerezza di Dio creatore;
  • sollecitando alla conversione ecologica, che comporta il lasciar emergere tutte le conseguenze dell’incontro con Gesù nelle relazioni con il mondo che ci circonda. Si tratta di comprendere in che modo si offende la creazione di Dio con le nostre azioni o con la nostra inettitudine;[41]
  • facendo comprendere che non basta essere «buoni» singolarmente, ma che occorre rispondere ai problemi sociali con reti comunitarie e con una conversione altrettanto comunitaria;[42]
  • aiutando a riconoscere che Dio ha inscritto nel creato un ordine e un dinamismo, a cui l’essere umano non ha il diritto di sottrarsi;[43]
  • proponendo un modello alternativo di intendere la qualità della vita; incoraggiando uno stile profetico e contemplativo, il ritorno alla semplicità che permette di fermarci a gustare le piccole cose, una sobrietà liberante;[44]
  • aprendo, in mezzo al rumore costante, a una capacità di stupore e di ascolto di tutte le parole d’amore, che Dio ha seminato nel mondo per noi;[45]
  • invogliando ad una preghiera di ringraziamento, per non dimenticare la nostra totale dipendenza da Dio per la vita;
  • ricordando che, avendo Dio come Padre comune, esiste una fraternità universale e che, oltre ad aver bisogno l’uno dell’altro, abbiamo una responsabilità personale verso l’altro e verso il mondo;
  • insegnandoci che l’amore per la società e l’impegno per il bene comune e per l’ambiente sono una forma eminente di carità;[46]
  • sospingendo le varie associazioni, che intervengono a difendere l’ambiente naturale ed anche quello urbano, ad esempio, prendendosi cura di un luogo pubblico (un edificio, una piazza, una fontana, un monumento abbandonato, un paesaggio, una chiesa…), a costruire sul territorio un nuovo tessuto sociale, che permetta di coltivare un’identità comune e di condividere una storia che si conserva e si trasmette;[47]
  • aiutando ad unire lo stupore per la grandezza del creato all’amore per il suo e nostro Creatore.

L’universo si sviluppa in Dio, che è onnipresente. Proprio per questo, possiamo scorgere ed incontrare Dio in tutte le cose.[48] Tutto quanto c’è di buono e di bello intorno a noi, si trova eminentemente in Lui. Solo uno sguardo mistico consentirà di cogliere l’intimo legame esistente tra Dio e tutti gli esseri, che sono tutti segno di Dio. In essi c’è una simbologia che assume la sua forma vertice nei sacramenti della Chiesa, in cui la natura è assunta da Dio e trasformata in mediazione di vita soprannaturale.

Per l’esperienza cristiana, tutte le creature trovano il loro vero senso nel Verbo incarnato, perché il Figlio di Dio, facendosi uomo in tutto simile a noi, ha incorporato nella sua persona parte dell’universo materiale, e vi ha introdotto un germe di trasformazione definitiva. Nel Pane eucaristico, la creazione è protesa verso la divinizzazione, verso le sante nozze, verso l’unificazione con il Creatore stesso.[49] La partecipazione all’Eucaristia consente di risanare le relazioni degli esseri umani con Dio, con se stessi, con ogni altro tu, con il creato. Con la celebrazione dell’Eucaristia – la nuova Alleanza –, l’impronta trinitaria disseminata nell’universo con la creazione e deturpata dal peccato, viene ristabilita ed irrobustita.[50]

 

  1. Conclusione

La considerazione delle molteplici interrelazioni tra famiglia, ecosistemi ed ecologia integrale ha consentito di valutare e di apprezzare la missione della famiglia nei confronti della cura della casa comune. In particolare, ha permesso di capire quanto sia fondamentale e strategica la sua «struttura» teologica, antropologica, comunionale-comunitaria, etica e pedagogica. Una delle conclusioni più immediate è l’urgenza di prendere sul serio la sua vocazione e la sua missione sia sul piano creaturale sia sul piano della redenzione. Ciò richiede un notevole investimento di energie nell’ordine dell’evangelizzazione della famiglia e dell’ecologia, delle connesse pastorali, per non parlare dell’impegno dei credenti e delle stesse famiglie sul versante  sociale e politico, oltre che culturale. Se per davvero sta a cuore la salvezza del nostro pianeta e dell’umanità – salvezza sia in senso fisico sia in senso teologico ed antropologico – non si può più indugiare nel difendere e nel promuovere una figura di famiglia quale quella che ci è consegnata dall’amore di Dio e dalla sapienza umana. Se il futuro del pianeta dipende dall’apporto di famiglie capaci di vivere secondo una vita retta è pregiudiziale farsi carico della sorte della famiglia, sbaragliando quella cultura neoindividualistica, laicista e libertaria che ne distrugge qualsiasi progetto dal punto di vista relazionale e morale, esaltando l’atomismo e l’autoreferenzialità.

 

+ Mario Toso

Vescovo di Faenza-Modigliana

[1] Cf Francesco, Laudato sì’, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2015, 141-142.

[2] Oggi ci troviamo di fronte ad una crescente variabilità di forme familiari, assistiamo ad un processo socio-culturale di differenziazione della famiglia.  Ciò, tra l’altro, sollecita a rendere indifferente il concetto di famiglia. È così che molti sono convinti che convivenze, unioni di fatto, coppie gay, aggregazioni opportunistiche siano tutte forme equivalenti. Detto altrimenti, non ci sarebbe più la famiglia, ma esisterebbero solo le famiglie. È vero? Di fronte a ciò è mai possibile pervenire ad un qualche concetto universale di famiglia? Ad un tale concetto si può pervenire considerando ed analizzando la famiglia come relazione sociale  che si incarna secondo modalità o forme particolari sempre determinate. Detto altrimenti, l’astrazione concettuale consente di cogliere la realtà della famiglia in ciò che permane e in ciò che la contraddice.

[3] La visione cristiana della famiglia si trova illustrata, fra l’altro, in: Francesco, Esortazione apostolica Amoris laetitia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2016; Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Familiaris consortio (22.11.1981), in AAS 74 (1982) 81-191; Id., Lettera alle famiglie, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994; Santa Sede, Carta dei diritti del­la famiglia (24.11.1983), con commento di P. Calderan Beltrão, Paoline, Roma 1984; Pontificio Consiglio per la Famiglia, Famiglia, matrimonio e «unioni di fatto», Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000;  ma si vedano anche D. Tettamanzi, La famiglia via della Chiesa, Massimo, Milano 19912; M. Toso, Famiglia, lavoro e società nel­l’insegnamento sociale del­la Chiesa, LAS, Roma 1994; A. Scola, Il mistero nuziale. 2. Matrimonio-famiglia, PUL-Mursia, Roma 2000; M. Toso, Umanesimo sociale. Viaggio nella dottrina sociale della Chiesa e dintorni, LAS, Roma 20022, pp. 131-170.

[4] Con ciò non si dimentica la molteplicità delle figure di famiglia concretamente esistenti (famiglie giovani di fronte alla nascita del primo figlio, famiglie con figli nelle varie età della crescita, famiglie con bambini che presentano situazioni di disagio, famiglie in crisi, famiglie separate, famiglie ricomposte, famiglie monoparentali, famiglie con anziani non autosufficienti, famiglie di soli anziani, famiglie di immigrati, ecc.). È, invece, evidenziato in modo da offrire alle politiche familiari e sociali una progettualità che, a fronte dell’urgenza di fornire risposte diversificate e commisurate ad ogni soggetto particolare, le articola in dipendenza di quell’universale concreto che si incarna, sia pure parzialmente, in tutte le famiglie, costituendo per esse un telos normativo. Solo con questa apertura le politiche familiari, chiamate a muoversi con strategie diversificate, mantengono alto il livello qualitativo del loro intervento, senza arrivare all’assurdo – peraltro verificabile in più di un’occasione – di penalizzare i valori e le relazionalità che rinsaldano i molteplici nuclei a cui si rivolgono. Per una conoscenza sociologica della famiglia si consulti: P. Donati, Manuale di sociologia della famiglia, Laterza, Roma-Bari 20186.

[5] Sul fenomeno delle unioni omosessuali e delle unioni di fatto si veda AA.VV., Antropologia cristiana ed omosessualità, Quaderni de «L’Osservatore Romano» n. 38, Tipografia Vaticana, Città del Vaticano 2003. Di questo volume, in particolare per ciò che concerne l’equiparazione tra famiglia ed unioni di fatto mediante l’iscrizione a registro, si legga il perspicuo intervento di D. Tettamanzi, Famiglia e unioni di fatto. Considerazioni antropologiche ed etiche, in AA.VV., Antropologia cristiana e omosessualità, Quaderni del «L’Osservatore Romano» n. 38, Tipografia Vaticana, Città del Vaticano, pp. 121-133. Sul tema delle unioni di fatto e delle unioni omosessuali sono intervenuti, oltre al già citato Pontificio Consiglio per la Famiglia, anche la Congregazione per la Dottrina della Fede (cf. Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali, EDB, Bologna 2003). Così, più recentemente, la C.E.I., come risulta nel testo finale sui lavori del Concilio Permanente «In ascolto della verità di Cristo per capire il nostro tempo» (19-22 settembre 2005) ha richiamato la doverosa tutela della vita nascente e della famiglia, quale è riconosciuta anche nella Costituzione italiana (art. 29), a fronte di iniziative tese a diminuire da una parte il valore e la dignità della vita umana fin dal suo concepimento e dall’altra la famiglia fondata sul matrimonio, con la proposta di istituzionalizzare le unioni di fatto. Inoltre, ha richiesto che si faccia chiarezza sulle ipotesi e sulle proposte finalizzate al riconoscimento legale delle unioni di fatto. A questo proposito, i vescovi, esprimendo unanime apprezzamento e consenso per le considerazioni fatte dal cardinale presidente nella sua prolusione, alla luce di un ampio e consolidato magistero della Chiesa in materia, hanno chiesto il rispetto della specificità dell’istituto familiare fondato sul matrimonio, nello spirito della giurisprudenza costituzionale secondo cui la convivenza more uxorio non può essere assimilata alla famiglia, così da desumerne l’evidenza di una parificazione di trattamento. L’attenzione verso eventuali situazioni particolari, che non trovino già risposta nel contesto dei diritti individuali, andrà ricercata nelle molteplici possibilità offerte dal diritto privato, senza creare surrettiziamente profili giuridici che finirebbero con il diventare dei piccoli matrimoni (cf. Un cuore vivo per la società, in «Avvenire» [28 settembre 2005] 18).Sul tema del gender si legga almeno: J. F. HARVEY, Attrazione per lo stesso sesso. Accompagnare la persona, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2016; T. CANTELMI, Gender. Una mappa per orientarsi, Paoline Editoriale Libri, Milano 2015; SOS-RAGAZZI, Gender. Come difendere i nostri figli, Tiber S.p.A, Brescia 2019; CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, «Maschio e femmina li creò». Per una via di dialogo sulla questione del gender nell’educazione, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2019.

[6] La prospettiva focale su cui si regge l’enciclica Laudato sì’ è quella dell’«ecologia integrale», espressione che dà il titolo al cap. IV e che ricorre altre nove volte nel testo. Come papa Francesco stesso spiega nel n. 16, i temi che tratta la Laudato si’ «non vengono mai chiusi o abbandonati, ma anzi costantemente ripresi e arricchiti» a partire da una pluralità di prospettive che – coerentemente – si integrano. Da un punto di vista concettuale, papa Francesco assume il termine «ecologia» non nel significato generico e spesso superficiale di una qualche preoccupazione «verde», ma in quello ben più profondo di approccio a tutti i sistemi complessi la cui comprensione richiede di mettere in primo piano la relazione delle singole parti tra loro e con il tutto. Il riferimento è all’immagine di ecosistema.
L’ecologia integrale diventa così il paradigma capace di tenere insieme fenomeni e problemi ambientali (riscaldamento globale, inquinamento, esaurimento delle risorse, deforestazione, ecc.) con questioni che normalmente non sono associate all’agenda ecologica in senso stretto, come la vivibilità e la bellezza degli spazi urbani o il sovraffollamento dei trasporti pubblici. Ancora di più, l’attenzione ai legami e alle relazioni consente di utilizzare l’ecologia integrale anche per leggere il rapporto con il proprio corpo (n. 155), o le dinamiche sociali e istituzionali a tutti i livelli: «Se tutto è in relazione, anche lo stato di salute delle istituzioni di una società comporta conseguenze per l’ambiente e per la qualità della vita umana» (n. 142) (Cf G. COSTA-P. FOGLIZZO,  Editoriale:L’ecologia integrale, come paradigma concettuale e come percorso spirituale [Fascicolo: agosto-settembre 2015]). È dentro questa ampia prospettiva di relazioni che si considera il rapporto della famiglia con l’ecologia integrale.

 

[7] «L’ecologia umana implica anche qualcosa di molto profondo: la necessaria relazione della vita dell’essere umano con la legge morale inscritta nella sua propria natura, relazione indispensabile per poter creare un ambiente più dignitoso» (LS n. 155).

[8]  La stabilità e la forza dei legami sono condizioni che elevano la capacità della famiglia di impegnarsi in compiti pro sociali, ecologici. Laddove c’è maggiore instabilità e debolezza dei legami, minore è la disponibilità a impegnarsi gratuitamente per la comunità intorno e maggiore è la chiusura della coppia in se stessa.

[9] Si è detto che la famiglia è fonte di custodia e di cura del creato, in quanto «generatrice», con la sua generatività. Occorre, forse, spiegare meglio tutto ciò. In che senso la famiglia è generativa? Nel senso che la famiglia mette a disposizione dell’ecologia integrale quella stessa capacità di generare e servire la vita umana con cui non solo consolida se stessa ma, «uscendo da sé», mette al mondo altre giovani vite le quali, a loro volta, concorrono a «generare», ovvero a potenziare umanamente, le persone dei genitori, facendoli essere più persone. In maniera analoga, la famiglia che si prende cura del creato, e dona ad esso un più di vita coltivandolo, promovendo una crescita sostenibile, con una produzione più innovativa e con minore impatto ambientale, grazie ad esempio al risparmio energetico, a sua volta ne è beneficata (sul tema della generatività si legga: M. MAGATTI-C. GIACCARDI, Generativi di tutto il mondo unitevi!. Manifesto per la società dei liberi, Feltrinelli, Milano 20164).

 

 

[10] Su questo tema si veda almeno P. Donati, Manuale di sociologia della famiglia, Laterza, Roma-Bari 1998, specie pp. 414-449.

[11] Cf LS n. 210.

[12] Cf Comitato Scientifico-Organizzatore, «Quale società civile per l’Italia di domani?», Documento preparatorio del­la 43.a Settimana Sociale dei Cattolici Italiani (Napoli, 16-20 novembre 1999), EDB, Bologna 1999; AA.VV., Quale società civile per l’Italia di domani?, Atti della 43.a Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, F. Garelli e M. Simone [edd.], Il Mulino, Bologna 2000.

[13] LS n. 213.

[14] Cf Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Centesimus annus n. 39, Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1991.

[15] Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Familiaris consortio n. 44.

[16] Il paradigma tecnocratico perde di vista, infatti, la complessità dei legami e delle interazioni, che sono invece al centro di uno sguardo eco sistemico. La tecnologia quando pretende di essere l’unica soluzione dei problemi, di fatto non è in grado di vedere il mistero delle molteplici relazioni che esistono tra le cose, e per questo a volte risolve un problema creandone altri (cf LS n. 20). Cercare solamente un rimedio tecnico per ogni problema ambientale che si presenta, significa isolare cose che nella realtà sono connesse, e nascondere i veri e più profondi problemi della crisi ambientale.

[17] Cf LS n. 190. «In questo contesto – scrive papa Francesco – bisogna sempre ricordare che “la protezione ambientale non può essere assicurata solo sulla base del calcolo finanziario di costi e benefici. L’ambiente è uno di quei beni che i meccanismi del mercato non sono in grado di difendere o di promuovere adeguatamente”. Ancora una volta, conviene evitare una concezione magica del mercato, che tende a pensare che i problemi si risolvano solo con la crescita dei profitti delle imprese o degli individui».

[18] Cf LS nn. 120-123.

[19] Cf LS n. 180.

[20] Sul tema della coltivazione della biodiversità si consulti l’agile sussidio predisposto dalla C.E.I. in occasione della 14a Giornata per la Custodia del Creato (1° settembre 2019): Quante sono le tue opere, Signore (Sal. 104,24). Coltivare la biodiversità. La ricchezza della biodiversità italiana è seriamente minacciata da un’ampia serie di fattori: la distruzione degli habitat (urbanizzazione e consumo di suolo) e la loro frammentazione e degrado, l’invasione di specie aliene invasive, le attività agricole intensive, gli incendi, i cambiamenti climatici. Le specie minacciate di estinzione sono 161.

[21] Cf. Assemblea Generale dell’ONU, Resolution 66/222 International Year of Family Farming, 2014, 22 dicembre 2011.

[22] Sul rapporto tra famiglia e sviluppo agricolo sostenibile mi permetto di inviare a M. Toso, Famiglia e sviluppo agricolo, in ASSOCIAZIONE INTERNAZIONALE CARITÀ POLITICA, Cooperazione internazionale in Agricoltura. Sviluppo e risposte operative, a cura di Alfredo Luciani, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2015, pp. 47-55.

[23] Con riferimento a questo aspetto va rilevato che le famiglie rurali sono riuscite, specie in contesti di robusta tradizione cooperativistica, a trovare sinergie con le cooperative di consumo, in modo da vedere ospitata la propria offerta di produzione nei supermercati. Detto altrimenti, da parte delle famiglie rurali, sono cresciute modalità di relazione con i supermercati gestiti da cooperative che vanno oltre all’essere alternative.

[24] Cf M. BOSCHINI, Nessuno lo farà al posto tuo, EMI, Bologna 2013, pp, 30-33.

[25] Cf Graziano da Silva, articolo The Family Farming Revolution, 14 gennaio 2014.

[26] Cf Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Per una nuova evangelizzazione del rurale. Piste di lavoro conclusive del IV Congresso mondiale sulla vita rurale svoltosi a Roma dal 24 al 27 giugno 2012, n. 7.

[27] Su questo si legga: Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Terra e Cibo, Prefazione di Peter Turkson e Mario Toso, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2015, 29-30.

[28] Giovanni Paolo II, Discorso ai Coltivatori diretti nel 40° anniversario della Confederazione, 12 febbraio 1985, n. 5.

[29] Cf LS n. 197.

[30] Cf LS n. 206.

[31] Cf LS n. 93.

[32] Cf LS n. 67.

[33] Cf LS n. 91.

[34] Cf  ad es. LS n. 68.

[35] Cf Francesco, Evangelii gaudium, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2014, n. 233.

[36] Cf LS n. 127.

[37] LS n. 128. Sul rapporto tecnoscienza e lavoro papa Francesco è tornato recentemente rivolgendosi al Presidente esecutivo del “World Economic Forum” in occasione del Meeting annuale a Davos-Klosters (Svizzera, 20-23 gennaio 2016). È importante leggere quanto scrive nel suo Messaggio, ribadendo quanto già detto nella LS: «Il sorgere della cosiddetta “quarta rivoluzione industriale” è stato accompagnato da una crescente percezione dell’inevitabilità di una drastica riduzione nel numero dei posti di lavoro. I più recenti studi, condotti dall’Organizzazione Internazionale per il Lavoro, indicano che attualmente la disoccupazione riguarda centinaia di milioni di persone. La finanziarizzazione e la tecnologizzazione delle economie nazionali e di quella globale hanno prodotto cambiamenti di ampia portata nel campo del lavoro. Le diminuite opportunità per un’occupazione vantaggiosa e dignitosa, insieme a una riduzione della copertura previdenziale, stanno causando una preoccupante crescita della disuguaglianza e della povertà in diversi Paesi. Emerge con chiarezza il bisogno di dar vita a nuovi modelli imprenditoriali che, nel promuovere lo sviluppo di tecnologie avanzate, siano anche in grado di utilizzarle per creare un lavoro dignitoso per tutti, sostenere e consolidare i diritti sociali e proteggere l’ambiente. L’uomo deve guidare lo sviluppo tecnologico, senza lasciarsi dominare da esso!» Poco più avanti scrive ancora: «Di fronte a cambiamenti profondi ed epocali, i leader mondiali sono chiamati alla sfida di assicurare che l’imminente “quarta rivoluzione industriale”, gli effetti della robotica e delle innovazioni scientifiche e tecnologiche non conducano alla distruzione della persona umana – ad essere rimpiazzata da una macchina senz’anima – o alla trasformazione del nostro pianeta in un giardino vuoto per il diletto di pochi scelti».

 

 

[38] Cf LS n. 129.

[39] Ib.

[40] Ib.

[41] Cf LS n. 217.

[42] Cf LS n. 219.

[43] Cf LS n. 221.

[44] Cf LS n. 223.

[45] Cf LS n. 225

[46] Cf LS n. 231.

[47] Cf LS n. 232.

[48] Cf LS n. 233.

[49] Cf LS n. 236.

[50] Cf LS 239-240.

SANTA CHIARA

Montepaolo, 11 agosto 2019

Cari fratelli e sorelle, care suore Clarisse, il brano di Vangelo appena proclamato (cf Lc 12,32-48) è particolarmente intonato al nostro essere qui, al contesto in cui ci troviamo. Come riferisce l’evangelista Luca, in quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Non temere piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno. Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore». Il «non temete piccolo gregge» è invito ad avere speranza. Perché il piccolo gregge dei discepoli non deve temere? Perché mediante la fede già possiede il Regno promesso dal Padre. La fede, come afferma la Lettera agli Ebrei (Eb 11, 1-2. 8-19), è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che è stato dato ma ancora non si vede.

Abramo è modello per noi «piccolo gregge». Egli, per fede obbedì, partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità. Al pari del nostro padre nella fede, siamo pellegrini verso il Regno, realtà invisibile che avremo in eredità. L’avremo proprio a motivo della nostra fede, con la quale crediamo che Dio è fedele e fa e farà ciò che dice. Coloro che hanno la certezza di possedere già il Regno, che è ancora oggetto di speranza, osano, con lo sguardo fisso sulle realtà future, disfarsi dei loro beni. Essi vegliano senza posa nell’attesa del Maestro, il Cristo, per non essere sorpresi dal suo imprevedibile ritorno. Non solo vegliano per se stessi, ma aiutano i propri fratelli e sorelle ad essere vigilanti! Care sorelle Clarisse, in quanto appena detto, vedo soprattutto voi, il vostro gesto coraggioso di lasciare Faenza per venire ad abitare qui a Montepaolo, per essere luce per tanti fratelli e sorelle. Penso che si tratti di una scelta che incarna e rende più parlante e convincente l’odierna Parola di Dio.

In un momento cruciale della storia della vostra comunità, per varie ragioni sempre più «piccolo gregge», avete scelto un modo di relazionarvi col Padre e con gli altri che vi mostri maggiormente fraternità mistica, contemplativa, che sa parlare a tutti del Regno, del viaggio che è la vita cristiana, delle cose più importanti, con gesti di fede radicali, provocanti. In particolare, con il vostro laborioso e silenzioso trasferimento a Montepaolo ci avete voluto insegnare che chi accelera il passo verso il Regno non si carica di bagagli inutili ed ingombranti. Nel cammino verso la Bellezza, che è Cristo, come vi ricorda costantemente santa Chiara, bisogna sbarazzarsi dei possessi terreni per ottenere all’arrivo un «tesoro inesauribile», che nessuno vi può sottrarre: l’oro inossidabile della Carità, con la C maiuscola, ossia Dio, Amore pieno di Verità, la sua Vita di comunione.

Grazie, care sorelle del vostro esempio, che ci appare ancor più straordinario e istruttivo perché, con la vostra decisione controcorrente e profetica, avete desiderato di vivere qui a Montepaolo, e non al centro di Faenza – cosa che non ci sarebbe affatto dispiaciuta – non per fuggire verso una solitudine più isolata e separata, bensì per immergervi più profondamente nel mistero della vita di questo mondo: un mondo in cui non poche persone si allontano dalla Chiesa e, in taluni casi, rendono le nostre comunità più piccole e più povere di fede. Se oggi c’è una particolare urgenza di portare l’umanità a Dio, la via privilegiata, insegnatavi da Francesco e Chiara, è senza dubbio quella mediante cui ci si concentra su Gesù Cristo, Verbo di Dio incarnato nella storia. Egli attende di essere annunciato e manifestato con una testimonianza credibile. Per ridare al mondo un’anima unificata nell’amore pieno di verità, che è Cristo, è essenziale dedicarsi alla contemplazione, intensificare la comunione con Lui, Via e Vita. Solo così si serve più efficacemente l’umanizzazione e la liberazione della società odierna dagli idoli.

Care suore, siete qui come Mosè sul monte, con le braccia alzate verso Dio. Voi pregate per sostenere la famiglia umana, in particolare il popolo pellegrinante della nuova Alleanza, impegnato nel combattimento della fede cristiana. Siete a fianco dei vostri fratelli e sorelle per accompagnarli nell’impegno della trasfigurazione di se stessi, delle famiglie e delle istituzioni.

Grazie ancora sorelle di santa Chiara, perché ci date un esempio altissimo di consacrazione a Dio, a ciò che più conta nella vita. Così, qui a Montepaolo possiamo constatare che Chiara, in certo modo, avvicenda Francesco, e ricambia quel servizio che il Padre serafico seppe offrire a santa Chiara e alle sue suore già fin dai primi tempi. Nel Testamento di santa Chiara leggiamo che Francesco, un giorno salì sul muro della restauranda Chiesa di san Damiano, e rivolgendosi ad alcuni poverelli che stavano lì, con voce spiegata e in francese li invitò: «Venite ad aiutarmi in quest’opera del monastero di san Damiano, perché tra poco verranno ad abitarlo delle donne, e per la fama e santità della loro vita si renderà gloria al Padre nostro celeste in tutta la sua santa Chiesa». Tutto il Testamento di Chiara è una testimonianza dell’aiuto ricevuto dalle clarisse da parte di Francesco, che le seguiva da vicino, scrivendo per loro una forma di vita, esortandole con la parola, gli scritti e soprattutto con il suo esempio all’amore e alla osservanza della santissima povertà. Francesco coltivava la comunità delle clarisse come una pianticella, come un piccolo gregge, con molta cura ed affetto. Vi è nel Testamento di Chiara un passaggio significativo. Scrive: come il Signore ci donò il beatissimo nostro Padre Francesco, […] così io affido le mie sorelle, presenti e future, al successore del beato padre nostro Francesco e a quelli che verranno dopo di lui, perché ci siano di aiuto a progredire sempre più nel servizio di Dio e soprattutto nell’osservare meglio la santissima povertà. Nell’affidare le suore clarisse ai successori di Francesco sta, forse, il senso di quanto le clarisse di Faenza hanno compiuto, «prelevando», in certo modo, il luogo francescano di Montepaolo. Chiara avvicenda Francesco e i suoi per prolungarne la missione e la testimonianza. Il carisma del Padre Francesco è preso in consegna e messo a frutto nell’oggi dalle clarisse di Faenza. Le sorelle aiutano i fratelli. Si tratta di un annichilimento della propria spiritualità? A ben riflettere non è nient’altro se non proseguire la ricerca del volto di Dio (Vultum Dei quaerere), in un luogo diverso, sempre con un cuore orante (Cor Orans). È lo stesso obiettivo di prima: percorrere la via del Signore, Bellezza fatta persona. Ciò che in definitiva conta è che a Montepaolo vi sia una comunità luminosa, che irradia la Bellezza di Dio, contemplata ed amata.

Santa Chiara, san Francesco e sant’Antonio di Padova, che primeggia nelle rappresentazioni figurative e plastiche di questo santuario, vi aiutino. Siate gloria di Dio, con un cuore pieno di gioia.

+ Mario Toso

Vescovo di Faenza-Modigliana