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Frammentazione

→ Sintesi diocesana: p. 12-14   

Le persone si sentono distanti le une dalle altre e fanno esperienza di una Chiesa frammentata. In tanti gruppi sono emerse la fatica e lo sconforto: molti non si sentono in cammino con i fratelli. Spesso la mancanza di coinvolgimento e di una partecipazione condivisa, l’abitudine, fanno sì che i luoghi e i servizi siano delegati solo a poche persone, quasi sempre le stesse.

Emerge che la maggior parte dei gruppi è autoreferenziale e con un orizzonte ristretto: questa chiusura su sé stessi, sul gruppo, nella vita consacrata, nell’associazione, nella parrocchia, non porta a sentirsi parte di un unico cammino.

La Chiesa rischia di essere una ONG (una Pro-Loco) che gestisce servizi o una Chiesa distante, divisa in piccole realtà, comunque una Chiesa che non sa entrare in relazione con la vita reale ed intercettare l’uomo di oggi.

Si fa esperienza di ambiti della vita in cui non c’è nulla della Chiesa perché là non c’è la presenza di uomini e donne di fede. Mancano le occasioni di incontro alle quali partecipare, per mancanza di adulti disposti a prendersi cura dei ragazzi e soprattutto dei disabili.

 

→ Parola di Dio: At 2, 1-17.21  

Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo.  Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua.

 

→ Domande per aiutare la narrazione   

Ci sono fatiche particolari di cui facciamo esperienza e in quali ambiti ecclesiali?

Quale cambiamento renderebbe meno faticoso il nostro impegno?

Riusciamo ad avere uno sguardo fuori dal nostro gruppo/comunità? Siamo “in uscita”? Cerchiamo di essere aperti all’altro, di coinvolgere e di avere uno stile sinodale nel vivere la Chiesa e i vari servizi?

In quali spazi/tempi facciamo esperienza di un’abitudine, di un “si è sempre fatto così”?

La nostra attuale esperienza è di gruppi chiusi e autoreferenziali?

C’è qualcuno che non è presente che stiamo dimenticando, che è fuori dal nostro gruppo (es. i poveri, gli ultimi)?

Chi chiede cura e attenzione da parte nostra e della comunità cristiana?

CI prendiamo cura gli uni degli altri? Qualcuno sta aspettando il nostro invito, la nostra accoglienza, il nostro servizio?

Cosa comporterà per noi e per la Ciesa assumere queste attenzioni?

Ci sono luoghi in cui la Chiesa non è presente non riuscendo ad intercettare l’uomo di oggi?

Nei nostri gruppi/comunità riusciamo a vivere le diversità e i conflitti aprendoci al confronto?

Riusciamo a vivere come comunità le decisioni, le scelte, le attività? Ciò che facciamo è condiviso o è solo di qualcuno?

Quali occasioni abbiamo per esprimere la misericordia della Chiesa?

Ricordiamo situazioni riuscite di integrazione delle diversità?

Cosa pensiamo ci stia suggerendo lo Spirito?

Relazioni

→ Sintesi diocesana: p. 11-12   

Questo cammino sinodale ha permesso alle persone di essere cercate e di andare a cercare, di essere ascoltate e di ascoltare. Con il servizio e l’impegno, la fatica e il tempo dei moderatori e dei segretari, si è fatta esperienza di qualcuno che “mi è venuto a cercare”, sia come battezzato sia come persona lontana, di qualcuno che “ha preso l’iniziativa” e “si è interessato a me”. Le persone si sono sentite prese in considerazione, ascoltate, messe al centro e coinvolte con provocazioni originali.

Vedersi, incontrarsi e sentirsi non giudicati ma ascoltati e basta: questa accoglienza è uno stile che piace. Si chiede che diventi lo stile proprio della Chiesa.

Si è sentita la Chiesa come luogo in cui vivere questa doppia dinamica: finalmente la Chiesa mi chiede come sto”, “mi viene a cercare”, “si interessa a me”, “ha cura di me”. Allo stesso tempo la Chiesa mi fa sentire che non sono solo”, ma che posso vivere come fratello in una grande famiglia.

Si sente la paura della solitudine e il grande desiderio di non rimanere soli.

 

→ Parola di Dio: Gv 13, 31-35  

Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri.

 

→ Domande per aiutare la narrazione   

Siamo aperti all’ascolto dell’altro?

Come viviamo le relazioni all’interno della nostra comunità/gruppo? Chi prende l’iniziativa verso l’altro?

Quando abbiamo sentito di essere ascoltati e presi sul serio nella Chiesa?

Quando siamo stati in grado di tessere relazioni personali e comunitarie significative? Come ci siamo messi in gioco?

Quali attenzioni, abilità, stili ci piacerebbe adottare?

Il nostro consiglio pastorale/affari economici è luogo di ascolto e di discernimento sinodale?

Quali funzioni e impegni sono davvero necessari all’evangelizzazione e quali sono solo volti a conservare le strutture?

Quali delle nostre strutture si potrebbero snellire per servire meglio l’annuncio del Vangelo?

Che cosa chiedono gli uomini e le donne del nostro tempo per sentirsi “a casa” nella Chiesa? Proviamo a ipotizzare.

Quali passi siamo disposti a fare per essere comunità cristiane aperte, accoglienti e capaci di avere cura dell’altro?

Che consapevolezza abbiamo di essere Diocesi, Chiesa di Faenza-Modigliana?

Che cos’è che aiuta a vivere l’esperienza cristiana nelle case e cosa servirebbe per essere aiutati a viverla meglio?

Esistono esperienze ospitali positive per bambini, ragazzi, disabili, giovani, anziani e famiglie (ad es. l’oratorio)?


Ecologia integrale, il cambiamento parte dall’Eucaristia. Concluso Creattivo: le parole del vescovo Mario

Un cambio di stile che trova le sue radici nell’Eucaristia. Così si è concluso il 31 luglio scorso, con la Messa celebrata dall’arcivescovo Lorenzo e dal vescovo di Faenza-Modigliana Mario Toso a Santa Teresa, Creattivo, il camp per giovani sui temi della sostenibilità e dei nuovi stili di vita organizzato dalla Caritas e dalla Pastorale Sociale e del Lavoro assieme a tante realtà del territorio. Una quindicina di giovani (e altrettanti dell’organizzazione) per 4 giorni hanno riflettuto, condiviso esperienze, giocato, esplorato best practices del territorio, pensato e progettato un’attenzione al Creato e alla casa comune che certamente avevano già dentro che che non può che essere cresciuta in questi giorni.

Una piccola luce per la nostra diocesi e per il territorio, così l’ha definita il diacono Luciano di Buò al termine della Messa, “che abbiamo acceso e che vorremmo far crescere”, anzitutto a partire dalla Giornata del creato, in programma il 23 settembre.

Ma le radici di questo cambiamento, come ha sottolineato monsignor Mario Toso nell’omelia, stanno appunto nell’Eucaristia: “se siamo risorti con Cristo, ci siamo svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e abbiamo rivestito l’uomo nuovo”. Un passo da fare ogni giorno, alla luce della Parola e della Messa.

Pubblichiamo di seguito il testo integrale dell’omelia del vescovo Mario Toso a conclusione della prima edizione di Creattivo

Cara Eccellenza, sig. arcivescovo Lorenzo Ghizzoni, caro diacono Luciano di Buò, cari fratelli e sorelle, cari giovani partecipanti al CreAttivo. Nuovi stili per il Creato, in questi giorni abbiamo riflettuto sull’urgenza del cambio dei nostri stili di vita per assumerne di nuovi – san Paolo nella lettera ai Colossesi ci ha ricordato che, se siamo risorti con Cristo, ci siamo svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e abbiamo rivestito l’uomo nuovo (cf Col 3,1-5.9-11). Abbiamo riflettuto anche sulla necessaria intensificazione delle buone pratiche in vista dell’obiettivo di coltivare il creato e di rimediare ai danni subiti dalla nostra casa comune.

Celebrando l’Eucaristia non ci poniamo ai margini del grande impegno personale e comunitario richiestoci dall’ecologia integrale. Ci collochiamo al centro della sua scaturigine. Infatti, il memoriale dell’incarnazione, morte e risurrezione di Gesù Cristo, è per noi il «luogo» ove partecipiamo più intensamente alla «nuova creazione», iniziata da Cristo con la sua incarnazione. Vivendo il mistero della ricapitolazione di tutte le cose in Cristo, di cui facciamo memoria nell’Eucaristia, ci uniamo alla grande opera della creazione continua che il Risorto compie nella storia dell’umanità e dell’universo. L’Eucaristia è il centro della rigenerazione del creato ferito e dilapidato. È causa della sua rinascita, come della rigenerazione dell’uomo.

Nell’Eucarestia, ove Cristo si dona totalmente per amore del Padre e dell’uomo, ponendoci in comunione con Dio e tra di noi, ci autotrascendiamo, superiamo i nostri individualismi egoistici, infrangiamo l’isolamento delle nostre coscienze e la loro autoreferenzialità. Veniamo aperti, attraverso la comunione con Dio Trinità, alla condivisione, alla cura per gli altri e per l’ambiente. La coscienza di essere uniti all’opera di rinnovamento di Cristo si traduce in nuove relazioni ed abitudini, in nuove scelte e stili di vita, in una rete mondiale di popoli e movimenti ecologici. Risveglia una nuova riverenza per la vita, per la risolutezza nel raggiungere la sostenibilità, per l’accelerazione della lotta per la giustizia e la pace, per la gioiosa celebrazione della vita (cf Laudato sì , n. 207).

Più precisamente, l’Eucaristia ci fa compiere un salto verso il Mistero. E così, dall’immersione in Dio Trinità, sgorga l’etica ecologica – un’etica di condivisione e di responsabilità sociale -, di cui abbiamo urgente bisogno. Non solo ci offre informazioni importanti sul rapporto tra la persona, i popoli e il creato, che è stato dato da Dio a tutti gli uomini, non a pochi. Non solo ci dice, rispetto ad ecologismi immanentisti, l’eccedenza della persona sulla natura, ma ci ricorda anche i legami invisibili di solidarietà che ci uniscono in una sorta di famiglia universale. Inoltre, ci fornisce i mezzi culturali per superare i «miti» della modernità basati sulla ragione strumentale ed utilitarista, su un antropocentrismo piegato verso il consumismo e la tecnocrazia. Ci aiuta a recuperare i diversi livelli dell’equilibrio ecologico: quello interiore con sé stessi, quello solidale con gli altri, quello naturale con tutti gli esseri viventi, quello spirituale con Dio.

L’Eucaristia che celebriamo, e che guarisce i nostri occhi avidi, le relazioni che strumentalizzano e devastano il pianeta, ci sospinge verso uno stupore contemplativo, verso una spiritualità che alimenta la passione per la cura del creato. Ci fa vivere una mistica che anima, motiva, incoraggia e dà senso all’azione personale e comunitaria. Sollecita una conversione ecologica, implicante l’assunzione di nuove scelte, di nuovi atteggiamenti e stili di vita, di piccoli gesti di cura reciproca. Incrementa l’amore per la società e il bene comune.

Per l’esperienza cristiana, tutte le relazioni umane, tutte le istituzioni, tutte le creature dell’universo materiale trovano il loro senso nel Verbo incarnato. E ciò perché il Figlio di Dio ha incorporato nella sua persona sia l’umano e le relazioni interpersonali e comunitarie, sia la materia e la corporeità. In Cristo incarnato, morto e risorto, si ha il risanamento delle relazioni dell’uomo con Dio, con sé stessi, con gli altri e con il mondo.

Le persone, risanate nel loro essere relazionale e comunitario, contribuiscono al rinnovamento del creato mediante molteplici percorsi ed apporti, quali: il cambio del modello di sviluppo globale (non solo economico e tecnologico), la diversificazione produttiva con minore impatto ambientale, una finanza a servizio dell’ecologia integrale, un’economia circolare (o del riciclaggio), la transizione dalle energie fossili alle energie rinnovabili, politiche relative ai cambiamenti climatici e alla protezione dell’ambiente; movimenti ecologici dal basso, capaci di influenzare la politica in ordine alla riforma delle istituzioni pubbliche, di coordinarle e di dotarle di buone pratiche (cf LS nn. 179-183); movimenti di consumatori e stili di vita che intaccano i profitti delle imprese e le obbligano a produrre in altro modo; cooperative per lo sfruttamento delle energie rinnovabili che consentono l’autosufficienza locale e persino la vendita della produzione in eccesso (cf LS n. 179); la conversione, l’educazione e la cittadinanza «ecologiche», implicanti la riduzione del consumo dell’acqua, la differenziazione dei rifiuti, la cura degli altri esseri viventi, il risparmio della luce e dell’energia; in particolare una spiritualità avente il suo perno nella domenica, il “primo giorno” della nuova creazione, la cui primizia è l’umanità risorta del Signore, garanzia della trasfigurazione finale di tutta la realtà creata. Il giorno della domenica annuncia e celebra la festa della vittoria della vita sulla morte, come anche il riposo eterno dell’umanità in Dio. Diffonde la sua luce sull’intera settimana ed incoraggia a fare nostra la cura della natura e dei poveri.

Quanto detto sin qui ha elencato un insieme di scelte, di atteggiamenti e di stili di vita che rappresentano il nostro contributo alla rigenerazione di tutte le cose in Cristo, che san Paolo descrive come un parto (cf Romani 8,22), doloroso, ma necessario, che dà alla luce cieli nuovi e terra nuova. L’Eucaristia che ci fa partecipare alla redenzione integrale di Cristo, una redenzione di tutto l’uomo e di tutto il creato ci ricorda la nostra vocazione di annuncio del Vangelo all’umanità e alla creazione.

Il Vangelo da proclamare è la vita e la persona di Gesù, colui che ha vissuto in pienezza la presenza di Dio in lui come “essere per la vita”, essere dono di sé fino alla fine, fino al compimento, in un amore che neanche la morte può vincere.

+ Mario Toso

 


[gen 20] Omelia – San Sebastiano, patrono di Solarolo

Autorità civili, cari fratelli e sorelle, in questa santa Messa, festeggiamo san Sebastiano, patrono del vostro comune di Solarolo, ma venerato anche in alcune parrocchie limitrofe, appartenenti alla Diocesi di Imola.

Sappiamo che egli era un alto e stimatissimo ufficiale della guardia pretoriana di Diocleziano e Massimiano. E anche che, a loro insaputa, era cristiano. Si avvaleva della sua carica nella guardia del corpo imperiale per recare conforto ai fratelli perseguitati, rinsaldando la loro testimonianza di fede, fino all’accettazione del martirio. Come narra la sua Passio, un giorno due giovani cristiani, Marco e Marcelliano, figli di un certo Tranquillino, furono arrestati su ordine del prefetto Cromazio. Il padre fece appello a una dilazione di trenta giorni per il processo, per convincere i figli a desistere e a sottrarsi alla condanna sacrificando agli dei. I fratelli erano ormai sul punto di cedere quando Sebastiano fece loro visita, persuadendoli a perseverare nella loro fede e a superare eroicamente la morte. Mentre dialogava con loro, il suo viso fu irradiato da una luce miracolosa che lasciò esterrefatti i presenti, tra cui Zoe, la moglie di Nicostrato, capo della cancelleria imperiale, muta da sei anni. La donna si prostrò ai piedi del tribuno il quale, invocando la grazia divina, le pose le proprie mani sulle labbra e fece un segno di croce, ridonandole la voce.

Il prodigio di Sebastiano portò alla conversione un nutrito numero di presenti: Zoe col marito Nicostrato e il cognato Castorio, il prefetto romano Cromazio e suo figlio Tiburzio. Cromazio rinunciò alla propria carica di prefetto e si ritirò con altri cristiani convertiti in una sua villa in Campania. Quando Diocleziano, che aveva in profondo odio i fedeli a Cristo, scoprì che Sebastiano era cristiano, esclamò: «Io ti ho sempre tenuto fra i maggiorenti del mio palazzo e tu hai operato nell’ombra contro di me». Diocleziano aveva un’errata concezione della sua autorità. Riteneva che l’imperatore fosse Dio e che al di fuori di lui non ci fosse nessun altra autorità. L’insegnamento di Gesù Cristo che bisogna dare a Dio quello che è di Dio e a Cesare quello che è di Cesare non era ancora penetrato nella cultura romana. Sebastiano fu quindi da lui condannato a morire per mano degli arcieri in mezzo al Campo di Marte. Il suo corpo, trafitto dalle frecce, venne abbandonato, ma caso volle che non fosse stato colpito a morte. Pochi giorni dopo, Sebastiano si presentò dinanzi all’imperatore, rimproverandolo per il grande male che causava perseguitando i cristiani. L’imperatore diede ordine di frustarlo, sino a farlo morire. Il corpo venne poi gettato in una cloaca, onde evitare che divenisse oggetto di venerazione da parte dei cristiani.

Dalla sua vita e, in particolare, dalla narrazione del suo martirio, ricaviamo che Sebastiano stimò Gesù Cristo al di sopra di ogni autorità terrena, al di sopra di ogni onore civile o militare. L’esempio di san Sebastiano che aiuta i propri fratelli di fede alla fedeltà a Cristo, a non abiurare, ci fa pensare alla nostra vocazione e al nostro attaccamento a Lui.

Ancora oggi abbiamo bisogno di persone che sappiano fare la scelta radicale di Gesù Cristo, divenendo suoi annunciatori e testimoni credibili, sia in mezzo alla gente sia nelle istituzioni.

Il cammino sinodale che stiamo vivendo nella nostra Diocesi, in un momento di calo di presenze e di senso di appartenenza, ha come obiettivo quello di interrogarci: sia su come oggi stiamo camminando con Gesù e con i fratelli per annunciarlo; sia su cosa siamo chiamati a fare domani, tutti insieme, per crescere nel cammino con Gesù e con i fratelli per annunciarlo. Siamo comunità stanche, sedute e, quindi, statiche? Siamo, invece, come le prime comunità, ossia comunità missionarie, capaci di generare nuovi credenti, credibili perché autentici?

Per il cristiano autentico, Gesù Cristo non può venire in secondo ordine, assegnando il primato al successo, al potere, agli onori, al consenso, alle direttive di una opinione gridata e martellante che contrasta la libertà di coscienza, la vita nascente, la famiglia, l’ecologia integrale, il bene di tutti. È contradditorio dirsi cristiani e, nel contempo, coltivare la separazione tra fede e vita, professando in chiesa il Vangelo e rinnegandolo con il nostro comportamento appena usciti dalla porta. Occorre essere cristiani a tempo pieno, con tutta la propria persona. Occorre essere cattolici integrali, diceva Antonio Zucchini, sindaco di Faenza nei primi anni del Novecento. Tra fede e vita dev’esserci unità. Altrimenti la nostra persona rischia di essere dissociata, schizofrenica. La testimonianza dei santi, come san Sebastiano, ci dice che Gesù Cristo unifica la nostra vita. La sua presenza nelle coscienze crea una rivoluzione spirituale e morale, trasformando l’azione, le scale dei valori. Secondo il suo insegnamento, Chiesa e società civili sono chiamate entrambi, con le proprie specificità e nella diversità dell’apporto, al servizio dell’uomo, per il suo sviluppo integrale.

Seppure in mezzo a vari ostacoli e contrasti, la presenza di Gesù Cristo in noi, specie con il suo Spirito d’amore, ci fa sperare in una nuova primavera. Con Lui è possibile vincere l’egoismo, il peccato, l’odio, la violenza. Si rinnova in noi il gusto del bene, l’amore per l’altro, riconosciuto come nostro fratello o sorella. Cresce l’unità, la condivisione della verità, senza la quale è impossibile essere liberi.

Partecipando a questa Eucaristia, celebrata in onore di san Sebastiano, patrono del comune di Solarolo, rinnoviamo la nostra professione di fede in Cristo, Via, Verità e Vita, nostro cibo nel cammino quotidiano.

+ Mario Toso

Il 17 settembre la Diocesi di Faenza-Modigliana e l’Arcidiocesi di Ravenna-Cervia celebrano la Giornata del Creato

L’enciclica Laudato si’ di papa Francesco ha posto in primo piano il problema della salvaguardia del nostro pianeta.
I segnali di allarme sulla sua conservazione e tutela si moltiplicano ogni giorno. Gli scienziati lanciano avvertimenti sui pericoli imminenti: surriscaldamento terrestre, scioglimento dei ghiacciai con conseguente innalzamento del livello degli oceani, scomparsa di arcipelaghi sommersi dalle acque. C’è un forte problema di sensibilità su questo tema che deve impegnare prima di tutto i paesi maggiormente industrializzati, a partire dai governi per arrivare al sistema economico delle imprese.

L’Earth Overshoot Day, in italiano Giorno del Superamento Terrestre, indica il giorno nel quale l’umanità consuma interamente le risorse prodotte dal pianeta nell’intero anno. Nel 2021 questa data è caduta il 29 luglio e dal 30 luglio stiamo consumando risorse che la terra produrrà solo nel 2022.

Per questi motivi la Conferenza Episcopale Italiana, in sintonia con le altre comunità ecclesiali europee, ha istituito la Giornata per la custodia del Creato che consiste in una giornata annuale dedicata a riaffermare l’importanza, anche per la fede, dell’ambientalismo, con tutte le sue implicazioni etiche e sociali. La ricorrenza ufficiale è il primo settembre, ma alle singole Diocesi viene lasciata l’iniziativa di sviluppare attività locali lungo tutto il mese.
Da anni la Diocesi di Faenza- Modigliana e l’Archidiocesi di Ravenna-Cervia organizzano un evento comune, alternativamente in un territorio o nell’altro: quest’anno si svolgerà nella chiesa parrocchiale di Villa San Martino venerdì 17 settembre alle 18 e sarà gestita in collaborazione con la Coldiretti di Ravenna, i Carabinieri – Comando Gruppo Nucleo Forestale Ravenna, il Circolo Mcl di Villa San Martino, le Acli di Ravenna, il Cefal Emilia-Romagna e con la partecipazione delle Chiese Ortodosse.

Sarà un incontro di preghiera ecumenica presieduta da monsignor Mario Toso, vescovo di Faenza-Modigliana e con la partecipazione di monsignor Lorenzo Ghizzoni, arcivescovo di Ravenna-Cervia. Seguirà un momento di ristoro al parco della sede Cefal Emilia-Romagna di Villa San Martino, a poche centinaia di metri dalla chiesa parrocchiale, offerto dalla Coldiretti di Ravenna e da Cefal.

Al momento di ristoro hanno dato la loro collaborazione aziende che si sono distinte per aver applicato buone pratiche a salvaguardia dell’ambiente, in particolare tre cantine: la cantina del Bufalo di Sant’Agata sul Santerno, la cantina Zini di Bagnacavallo e la cantina Cooperativa agricola Bagnara. Da segnalare anche la cooperativa sociale il Mulino di Bagnacavallo, che con il progetto Ortinsieme realizzato a Russi ha coniugato una iniziativa di riqualificazione di un’azienda agricola avviando un percorso di conversione al biologico con un progetto di housing sociale, dove alcune persone in situazione di fragilità sociale sono protagonisti di questo progetto volto alla tutela ambientale ed alla produzione di ortaggi biologici.

Flavio Venturi
incaricato Pastorale Sociale


A mo’ di conclusione: costruzione di un mondo nuovo mediante una politica samaritana

Fratelli-tutti

Papa Francesco sollecita la nascita di un mondo nuovo. Il che richiede di portare avanti un progetto comunitario mondiale attraverso il lavoro della famiglia umana con tutta la sua diversità e complessità. Ciò implica che ci si pensi come un’unica umanità, avente un’unica anima, quella dell’amore fraterno. La parabola del buon samaritano mostra con quali atteggiamenti e stati d’animo le persone, i popoli, la politica, le comunità religiose, le culture sono chiamati a reagire e ad operare come fratelli, mossi dall’amore aperto a tutti. Essere persone, gruppi, popoli che fanno propria e sostengono la fragilità degli altri, che non permettono che sorga una società dell’esclusione, ma che si avvicinano – si fanno prossimo – e sollevano e curano chi è caduto, affinché il Bene sia Comune.

Il paradigma dell’inclusione o dell’esclusione del ferito ai bordi della strada connota tutti i progetti economici, politici, sociali, religiosi. Tutti ci troviamo ogni giorno di fronte alla scelta tra l’essere samaritani o gli indifferenti viaggiatori che si tengono alla larga. Il buon samaritano, dunque, viene indicato da papa Francesco come scelta di base per ricostruire il mondo ferito sotto tanti punti di vista. Il «mondo» è l’«umanità interrelata», al suo interno e con il creato (sovente dilapidato e devastato), con Dio. Non si tratta solo di considerare le povertà materiali, ma anche quelle spirituali, morali, culturali e religiose. L’esclusione o l’inclusione sono, dunque, da considerare non solo come parametri di riferimento alla destinazione universale dei beni della terra. Sono parametri da coniugare in vista della partecipazione, da parte di tutti, a un’umanità in pienezza: «umanità in pienezza» in Dio!

L’inclusione, in definitiva, come ha insegnato san Paolo VI, va attuata sulla base del criterio dell’universalità concreta e reale. Si tratta di un criterio davvero evangelico, infallibile nello smascherare ogni sorta di pensiero unico, unidimensionale: tutto l’uomo e tutti gli uomini. Rispetto all’ideale di uno sviluppo plenario, sociale, comunitario, aperto alla Trascendenza, inclusivo, papa Francesco propone, come opera collettiva, commisurata, una politica animata dalla carità, ovvero la migliore politica, accompagnata dall’impegno per la verità.

Si tratta di una prospettiva trascendente. L’attività politica diventa così una forma elevata di carità, di amore e, pertanto, si pone come una questione eminentemente teologica ed etica.[1] Ciò dovrebbe indurre i credenti a creare e a vivere una nuova cultura politica, perché ispirata al Vangelo. La migliore politica, quella che si esercita come la forma più alta della carità, ha bisogno di «migliori politici», tra i quali non possono mancare i cattolici, i quali dovrebbero essere, per definizione, i «buoni samaritani» della politica,[2] sul piano di un umanesimo trascendente.

                                                                 + Mario Toso

                                                       Vescovo di Faenza-Modigliana

Note

[1] Cf J. M. Bergoglio, Popolo, Edizione speciale per Corriere della Sera, Milano 2014, p. 74.

[2] Cf B. Sorge, Perché l’Europa ci salverà. Dialoghi al tempo della pandemia con Chiara Tintori, Edizioni Terra Santa, Milano 2020,  p. 123.

Il commento

1. Obiettivo e modalità della «Fratelli tutti»

2. Il discernimento proposto dalla «Fratelli tutti»

3. Il realismo teologico, antropologico e morale della parabola del buon Samaritano

4. La civiltà dell’amore fraterno

5. La fondazione trascendente della fraternità: Benedetto XVI e papa Francesco

6. Un approfondimento: Cristo «universale concreto della fraternità»

7. A mo’ di conclusione: costruzione di un mondo nuovo mediante una politica samaritana

Un approfondimento: Cristo «universale concreto della fraternità»

Fratelli-tutti

Come si è detto, rispetto all’impegno culturale e civile richiesto dalla realizzazione di un mondo aperto a tutti, papa Francesco non rinuncia a segnalare la peculiarità dell’apporto dato dalla fede e dal cristianesimo. È perfettamente cosciente degli ostacoli che, sul piano della ragione, delle remore psicologiche, delle fragilità morali e dei pregiudizi ideologici − talora ingigantiti dai mezzi di comunicazione odierni −, impediscono l’affermarsi dell’amore fraterno nelle relazioni interpersonali e nelle comunità. Proprio per questo, già nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2014 (=MGMP 2014) si domandava: «Gli uomini e le donne di questo mondo potranno mai corrispondere pienamente all’anelito di fraternità, impresso in loro da Dio Padre? Riusciranno con le loro sole forze a vincere l’indifferenza, l’egoismo e l’odio, ad accettare le legittime differenze che caratterizzano fratelli e sorelle?».[1]

A tali quesiti rispose indirettamente, invitando anzitutto a superare quello scetticismo antropologico ed etico a cui condanna unaragione di tipo illuminista, che − come aveva già segnalato nell’enciclica Lumen fidei [=LF] −, per la sua chiusura alla Trascendenza impedisce di vivere intensamente l’esperienza della paternità di Dio e, quindi, una chiara e gioiosa percezione della fraternità.[2] La fraternità, priva del riferimento alla Trascendenza, purtroppo non riesce a sussistere. Quando, come nel caso della cultura illuminista, in forza di una ragione sostanzialmente autarchica e non teonoma, Dio è considerato una presenza rarefatta e lontana dalle persone e dai loro problemi concreti, è inevitabile che la proclamazione della fraternità cada nel vuoto. Il trinomio nato con la rivoluzione francese – liberté, fraternité, égalité – ha gradualmente perso la sua forza evocativa e civilizzatrice, proprio a causa dell’inadeguatezza del suo fondamento teologico, antropologico ed etico. La ragione illuminista, che lo ha enucleato, è stata anche il tarlo che lo ha eroso, svuotandolo dall’interno. Le società e le persone, che emarginano Dio e non lo riconoscono vivente in mezzo a loro, difficilmente riescono a percepirsi e a vivere come figlie figlie di uno stesso Padre.[3] Anziché credere in una fraternità trascendente ripiegano, al più, su una fratellanza immanente. Fraternità non ha lo stesso senso di fratellanza, che è relativa ad un concetto immanente e dice appartenenza delle persone alla stessa specie o ad una data comunità di destino. La fraternità è un concetto che pone il suo fondamento nel riconoscimento della comune paternità di Dio. La fratellanza unisce gli amici, ma li separa dai non amici; rende soci (socio è «colui che è associato per determinati interessi»),[4] e quindi chiude gli uniti nei confronti degli altri. La fraternità, invece, proprio in quanto viene dall’alto, dalla paternità di Dio, è universale e crea fratelli, e dunque tende a cancellare i confini naturali e storici che separano persone e popoli. Non crea soci, gruppi sociali, che si aggrappano a un’identità che li separa dagli altri. Crea, invece dei «noi», delle identità comunitarie aperte agli altri.

Al pari della cultura illuminista, le etiche contemporanee proprie del neocontrattualismo, del neoutilitarismo e delle varie teorie dialogiche appaiono incapaci di produrre saldi vincoli di fraternità tra le persone. Non basta proporre la fraternità come un imperativo categorico astratto; non è sufficiente dire che si deve essere fratelli, senza spiegare perché si è chiamati ad esserlo ed agire di conseguenza.Se il cuore non si riscalda e non vive nell’empatia, non prova tenerezza per l’altro. Occorre spiegare perché siamo fratelli e sorelle e, quindi, perché dobbiamo comportarci come persone che appartengono ad una stessa famiglia e si accolgono nel dono reciproco di sé, prendendosi carico l’uno dell’altro. Così, non è ultimamente decisivo e dirimente proporre la fraternità come un bene-valore, fondato sul mero consenso sociale. Un simile fondamento, prettamente sociologico, è incapace di produrre nella volontà delle persone una vera e stabile cogenza morale.

In vista di un’esperienza autentica della nostra apertura profonda alla Trascendenza,  è fondamentale il recupero di una ragione integrale, capace di attingere la stessa dimensione metafisica dell’esistere, nonché di cogliere la tensione morale ad una pienezza umana connotata dalla fraternità. Un conto è percepirsi fratelli e sorelle, perché figli e figlie di uno stesso Padre, che è all’origine di tutti ed è anche il fine comune. Un altro conto è vivere tra persone che si riconoscono, sì, somiglianti in umanità, ma che non condividono la percezione e l’esperienza di un’unica paternità, dell’appartenenza ad una medesima famiglia connotata da uno stesso destino trascendente. Una cosa è la fraternità fondata su una figliolanza divina, che supera il legame umano rinsaldandolo. Un’altra cosa è la fraternità, poggiante solo su un vincolo di genere meramente temporale e terreno. In una prospettiva cristiana, le ragioni del rispetto e dell’amore vicendevole sono più forti e più alte. Sono ragioni che, se accolte, confutano ogni tentativo di ridicolizzare il messaggio cristiano sulla fraternità, considerandola una mera illusione o un sentimento naïf, proprio delle persone deboli, senza muscoli.

In secondo luogo, papa Francesco indica chiaramente che, per ogni uomo e per ogni società, l’accesso all’esperienza della paternità di Dio, e per conseguenza della fraternità, è facilitato dall’accoglienza di Gesù Cristo, il nuovo Adamo riconciliato con Dio, che redime ogni uomo nella sua integrità, ivi compresa la ragione, le cui facoltà vengono ampliate. La fraternità ha un fondamento paterno[5]e una rivelazione cristica. Proprio qui si può cogliere il nesso imprescindibile tra il principio della fraternità e l’impegno di una nuova evangelizzazione, della quale papa Francesco ha parlato nell’esortazione Evangelii gaudium, volta a favorire o a rinnovare l’incontro personale con Gesù Cristo. Mediante la sua incarnazione, morte e risurrezione, il Signore Gesù semina nella storia e nei cuori l’anelito ad un’umanità più fraterna, perché in piena comunione con Dio e, pertanto, più capace di riconoscere e vivere la fraternità con i propri simili e con il creato, anche se su un piano diverso. Il Cristo è lo «spazio» personale della riconciliazione dell’uomo con Dio e dei fratelli tra di loro. In Lui, l’altro viene accolto e amato come figlio e figlia di Dio, come fratello e sorella. Non può essere considerato come un estraneo, tantomeno come un antagonista o addirittura un nemico. Nella famiglia di Dio, ove tutti sono figli di uno stesso Padre e figli nel Figlio, perché innestati in Cristo, non possono esserci persone inutili, «vite di scarto». Tutti godono di un’eguale ed intangibile dignità. Tutti sono amati da Dio, tutti sono stati riscattati dal sangue di Colui che è morto in croce per ogni uomo, indistintamente. È questa la ragione per cui non si può rimanere indifferenti davanti alla sorte dei fratelli.

Cristo costituisce, dunque, il principio del compimento pieno della fraternità. Egli ne è l’universale concreto, non un’astrazione o un anelito velleitario. Dimorando in Cristo, vivendo Lui, è possibile, da parte di tutti, l’esperienza sia di una Paternità trascendente, sia della fraternità in tutto il suo spessore metafisico  e nel suo amore riboccante di sovrannaturale carità.[6] Cristo, «globalizzato» nel mondo, rappresenta la causa prima della fraternità universale, che non pone steccati a chi appartiene a un altro popolo, a un’altra razza, a un’altra fede. La fraternità, che Cristo innerva e stabilizza nell’umanità mediante il suo Spirito, accresce la responsabilità di ogni uomo e donna verso ogni altro. Mette tutti in marcia. Sospinge all’incontro, specie di coloro che, pur facendo parte della nostra stessa famiglia umana, non dispongono dei beni sufficienti per una vita dignitosa come uomini e come figli di Dio.

Qui risiede la novità dell’apporto del cristianesimo in seno all’odierna cultura secolarista ed immanentista, incline ad un umanesimo antropocentrico, che non percepisce la paternità di Dio e, con ciò stesso, genera orfani che vivono in un’estraneità reciproca.

Note

[1] Francesco, Messaggio per la Giornata mondiale della pace (1° gennaio 2014): Fraternità, fondamento e via per la pace, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2013, n. 3. Su questo Messaggio, che non è solo un testo di occasione, ma rappresenta quasi una carta costituzionaleche sta alla base della vita ecclesiale, della pastorale, della riflessione teologica, antropologica ed etica, della pedagogia, si veda il commento di M. TOSO, Il Vangelo della fraternità, Lateran University Press, Città del Vaticano 2014.

[2] Cf FT 54.

[3] Sul perché di un’eclissi della fraternità e, conseguentemente, della libertà e dell’uguaglianza si legga anche: R. Pezzimenti, Fraternità: il perché di una eclissi, in A. M. Baggio (a cura di), Il principio dimenticato. La fraternità nella riflessione politologica contemporanea, Città Nuova Editrice, Roma 2007, pp. 57- 77.

[4] Cf FT 102.

[5] La conferma viene dalla parabola del Padre misericordioso (Lc 15, 11-32). È la parabola delle due conversioni: quella del servo e quella del figlio; quella pensata dal figlio più giovane e quella pensata dal padre misericordioso; quella che accetta di essere servo pur essendo figlio nella casa del Padre e quella che in questa casa vuole solo figli; quella che ha come protagonista il figlio più giovane, ed è un ritorno, e quella che ha come protagonista il padre, ed è un ribaltamento, un cambio radicale del criterio della conversione; quella che il figlio più giovane non riusciva ad immaginare eppure corrispondeva alla sua attesa più profonda e quella che il padre dona con larghezza di cuore. Non ha veramente senso quindi discutere per un capretto in più o in meno, di fronte all’offerta di una completa e reale condivisione, se cioè «tutto ciò che è mio è tuo». Questa condivisione è tale nel mistero pasquale.

[6] Cf Paolo VI, Ogni uomo è mio fratello (01.01.1971), in Messaggi di pace di Paolo VI e Giovanni Paolo II per le Giornate Mondiali della Pace, Edizioni Paoline, Milano 1986, n. 4.

Il commento

1. Obiettivo e modalità della «Fratelli tutti»

2. Il discernimento proposto dalla «Fratelli tutti»

3. Il realismo teologico, antropologico e morale della parabola del buon Samaritano

4. La civiltà dell’amore fraterno

5. La fondazione trascendente della fraternità: Benedetto XVI e papa Francesco

6. Un approfondimento: Cristo «universale concreto della fraternità»

7. A mo’ di conclusione: costruzione di un mondo nuovo mediante una politica samaritana

La fondazione trascendente della fraternità: Benedetto XVI e papa Francesco

Fratelli-tutti

Papa Francesco, sulle orme di papa Benedetto XVI,[1] riconosce che la ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini, ma non riesce a fondare la fraternità.[2] Senza un’apertura trascendente al Padre di tutti non ci possono essere ragioni solide e stabili per l’appello alla fraternità. È la fedeche ci consente l’accesso alla conoscenza e alla realtà della paternità di Dio e della fraternità trascendente. Dio, mediante Maria, ci dona suo Figlio, il Verbo che si fa carne.Così, Maria è la madre della nostra fraternità, sia dal momento del suo all’invito dell’Angelo ad essere Madre di Dio, sia allorché ricevette sotto la Croce una maternità universale (cf Gv 19,26). Noi siamo chiamati ad accogliere Gesù Cristo come Colui nel quale siamo e viviamo figli nel Figlio, ossia come umanità fraterna. Vivendo in Gesù Cristo – che è lo «spazio», l’«ambiente» di una vita nuova – sperimentiamo sia una Paternità trascendente sia una fraternità universale, in tutto il loro spessore metafisico e il loro traboccante amore che viene dalla Trinità. Incarnandosi, Gesù Cristo innesta e stabilizza nella nostra umanità il principio divino dell’amore trinitario, un amore trascendente, che accresce la consapevolezza della paternità di Dio e la responsabilità fraterna di ogni uomo e di ogni donna nei confronti di tutti gli altri.

Come ha spiegato Benedetto XVI nella CIV, la fraternità trova la sua origine e, quindi, la sua fondazione più che razionale, a partire «da una vocazione trascendente di Dio Padre, che ci ha amati per primo, insegnandoci per mezzo del Figlio che cosa sia la carità fraterna».[3] L’unità nella carità del Cristo, che ci chiama tutti a partecipare in qualità di figli alla vita del Dio vivente, ci rivela sia  che Egli è Padre di tutti gli uomini, sia che è all’origine dell’unità del genere umano. In Cristo, vivendo Lui, siamo chiamati alla realizzazione di un’autentica fraternità.[4] «La comunità degli uominipuò essere costituita da noi stessi, ma non potrà mai con le sole sue forze essere una comunità pienamente fraterna – scrive Benedetto XVI – né essere spinta oltre ogni confine, ossia diventare una comunità veramente universale: l’unità del genere umano, una comunione fraterna oltre ogni divisione, nasce dalla con-vocazione della parola di Dio-Amore».[5]

Se si confrontano la CIV di Benedetto XVI con la FT di papa Francesco si può rilevare facilmente come il pontefice tedesco abbia precorsol’attuale successore di Pietro. Nella CIV si afferma chiaramente che è la carità a spingerci alla realizzazione di un’autentica fraternità. Questa va vissuta anche all’interno della attività economica e non soltanto fuori di essa o «dopo» di essa. La sfera economica, sottolinea papa Benedetto XVI, non è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale. Poiché appartenente all’attività dell’uomo e, quindi, perché è umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente, fraternamente. Facendo leva su un’antropologia relazionale, a impronta trinitaria, il pontefice giunge a proporre, sia a livello di pensiero sia a livello di prassi, un’economia con rapporti mercantili tutt’altro che alieni dai principi dell’etica sociale (trasparenza, onestà, responsabilità), della gratuità, dalla logica del dono, espressioni della fraternità.[6] Non è velleitario pensare, afferma Benedetto XVI, che nel mercato si aprano spazi per attività economiche realizzate da soggetti che liberamente scelgono di informare il proprio agire a principi diversi da quelli del puro profitto, senza per ciò stesso rinunciare a produrre valore economico. Essendo espressione delle persone, soggetti connotati dalla fraternità, la vita economica nazionale o globalizzata ha sicuramente bisogno del contratto, di leggi giuste e di forme di ridistribuzione guidate dalla politica, ma anche di opere che recano impresso lo spirito del dono. Sulle orme di Giovanni Paolo II che già aveva sottolineato come la vita economica nei suoi vari soggetti – mercato, Stato, società civile – si caratterizza anche per essere un’economia della gratuitàe della fratellanza, Benedetto XVI giunge ad affermare: «Oggi possiamo dire che la vita economica deve essere compresa come una realtà a più dimensioni: in tutte, in diversa misura e con modalità specifiche, deve essere presente l’aspetto della reciprocità fraterna. Nell’epoca della globalizzazione, l’attività economica non può prescindere dalla gratuità, che dissemina e alimenta la solidarietà e la responsabilità per la giustizia e il bene comune nei suoi vari soggetti e attori. Si tratta, in definitiva, di una forma concreta e profonda di democrazia economica. La solidarietà è anzitutto sentirsi tutti responsabili di tutti, quindi non può essere delegata solo allo Stato. Mentre ieri si poteva ritenere che prima bisognasse perseguire la giustizia e che la gratuità intervenisse dopo come un complemento, oggi bisogna dire che senza la gratuità non si riesce a realizzare nemmeno la giustizia. Serve, pertanto, un mercato nel quale possano liberamente operare, in condizioni di pari opportunità, imprese che perseguono fini istituzionali diversi. Accanto all’impresa privata orientata al profitto, e ai vari tipi di impresa pubblica, devono potersi radicare ed esprimere quelle organizzazioni produttive che perseguono fini mutualistici e sociali. È dal loro reciproco confronto sul mercato che ci si può attendere una sorta di ibridazione dei comportamenti d’impresa e dunque un’attenzione sensibile alla civilizzazione dell’economia. Carità nella verità, in questo caso, significa che bisogna dare forma e organizzazione a quelle iniziative economiche che, pur senza negare il profitto, intendono andare oltre la logica dello scambio degli equivalenti e del profitto fine a se stesso».[7]

In definitiva, secondo Benedetto XVI, la carità nella verità, principio vitale di cui Gesù Cristo si è fatto portatore, è forza propulsiva di una nuova economia, ove le varie attività economiche, la finanza, il libero mercato, le istituzioni private e pubbliche, l’imprenditorialità, al proprio interno e nei rapporti esterni, sono chiamate a strutturarsi in termini relazionali più equi, improntati anche alla logica della gratuità, della reciprocità fraterna.

Non va dimenticato che la prospettazione di Benedetto XVI di una figura germinale di teologia dello sviluppo e dell’economia, caratterizzata rigorosamente secondo dimensioni più agapiche e fraterne, non avviene aprioristicamente o deduttivamente, movendo esclusivamente dai contenuti rivelati, secondo cui le persone sono icone viventi della Trinità, circolazione di Verità e di infinito Amore. La riflessione del pontefice tedesco, in maniera analoga a quella di papa Francesco, si avvale anzitutto di un’attenta analisi esperienziale a valenza induttiva, la quale rivela come, nonostante il prevalere di un’economia e di una finanza orientate secondo linee neoliberistiche, si stia affermando progressivamente sia il cosiddetto terzo settore o privato sociale o economia civile, costituito da libere associazioni, volontariato, cooperative di solidarietà sociale, fondazioni e organizzazioni non profit, sia un’area economica intermedia tra il for profit e il non profit. Si tratta di imprese tradizionali, che però sottoscrivono dei patti parasociali di aiuto ai Paesi arretrati; di Fondazioni, espressione di singole imprese; di gruppi imprenditoriali aventi scopi di utilità sociale; e del variegato mondo dei soggetti della cosiddetta economia civile e di comunione.[8]

Facendo leva, dunque, sull’esistenza di istituzioni economiche caratterizzate da rapporti umani più autentici, dall’amicizia, dalla solidarietà fraterna; confortato dal fenomeno di una globalizzazione che, nonostante vari aspetti negativi, coinvolge popoli ed economie entro un dinamismo di maggior interdipendenza ed unificazione, Benedetto XVI giunge a configurare l’ideale storico concretodi un’economia mondiale, protesa alla realizzazione della sua essenza personalista e comunitaria, relazionale e fraterna.

Una tale essenza, colta dalla ragione, attende l’ordine della rivelazione, per completarsi secondo quella vocazione originaria che le è insita, ma è oscurata e indebolita dalla cupidigia, dalla sete di potere, in una parola, dal peccato.

Il pontefice evidenzia così la portata o rilevanza sociale e storica più adeguata di un’economia, di una finanza, di un mondo imprenditoriale, consapevoli di essere finalizzati alla costruzione, dinamica e progressiva, di una famiglia umana più fraterna, più solidale e più giusta.

La stessa impresa è chiamata a vivere il principio della fraternità. Che cosa significa in concreto? Significa, innanzitutto, strutturare l’impresa non solo quale luogo in cui si producono beni e servizi, si attua il principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati, ma anche quale istituzione umana in cui le persone si incontrano, interagiscono, stipulano contratti sulla base di una fiducia reciproca generalizzata. I protagonisti dell’impresa sono sollecitati ad agire non solo in quanto soggetti economici, ma anche nella loro qualità di personeinserite in una trama di relazioni sociali più vaste, come la famiglia, la propria Nazione, il mondo. Detto ancora più concretamente, le persone sono richieste di operare nell’impresa come esseri concreti e storici, non svestiti di quelle qualità umane di relazionalità, di solidarietà e di fiducia, che sono indispensabili all’impresa stessa per espletare la propria funzione economica. Proprio per questo, la CIV sollecita a pensare all’impresa – specie in un momento storico in cui si stava registrando un deficit  di fiducia tra persone e istituzioni finanziarie e in cui erano apparse con maggior evidenza le interdipendenze tra i settori economici – come un luogo in cui, oltre alla giustizia commutativa, va vissuta la giustizia socialeintesa soprattutto come giustizia contributiva e non solo distributiva, ossia giustizia che incrementa le forme di fiducia reciproca e di solidarietà. Senza queste espressioni di un particolare senso di fraternità, al mercato e all’impresa viene a mancare quella coesione sociale che è loro necessaria per essere se stessi.[9]

Il principio di fraternità dev’essere sale della vita dell’imprenditore, del manager, delle relazioni interne alle imprese e di quelle che intercorrono tra imprese nel mercato. Un tale principio deve divenire motivazione interna dell’azione in entrambi i campi. Oltre alla motivazione di produrre beni e servizi con il minor dispendio di energie; di perseguire il profitto, fine legittimo dell’impresa; di pagare l’operaio in base alla sua prestazione, ci dev’essere la motivazione che sospinge a dare lavoro, a pagare equamente i lavoratori, perché esseri umani uguali a me, esseri fraterni, esseri aventi responsabilità famigliari, ai quali spetta non solo il minimo sindacale, bensì una remunerazione che tenga anche conto del loro contributo al reddito nazionale e mondiale.

Il principio della fraternità, secondo Benedetto XVI, trova una declinazione privilegiata nell’area intermedia che si va costituendo tra profite non profit, in cui il profitto è perseguito come strumentoper realizzare finalità umane e sociali. Secondo il pontefice, quest’area va accresciuta, perché essa, con i suoi valori di fraternità e solidarietà, costituisce in certa maniera l’humus da cui si alimentano le stesse macroimprese. Proprio per questo, nella CIV si invoca che quest’area intermedia trovi ampia ed adeguata configurazione giuridica e fiscale in tutti i Paesi.[10]

La fraternità, così come è pensata da Benedetto XVI, ossia non come un vago sentimento, bensì come un farsi carico del proprio simile per rispondere alle sue esigenze e alla sua dignità, sollecita al rafforzamento di un’imprenditorialità plurale, plurivalente. Per rispondere ai molteplici bisogni dei cittadini e della società, per conseguire più efficacemente il bene comune, tutti debbono divenire più imprenditivi, attivi e creativi. Urge, come già accennato, dar vita a vari tipi di imprese, che vadano ben oltre il modello di quelle «private» e «pubbliche», con uno scambio e una formazione reciproca tra le diverse tipologie di imprenditorialità e un travaso di competenze dall’una all’altra. In tutto questo, la fraternità svolge la funzione di un potente incentivo: quanto più numerosi sono i bisogni della persona e della società, tanto più debbono essere moltiplicati i vari tipi di impresa; quanto più si vuole rendere il sistema imprenditoriale commisurato alla dignità delle persone e ai bisogni della famiglia, del bene comune, dello sviluppo dei Paesi più poveri, tanto più bisogna incrementare non solo quanto è prescritto dalla legge, ma anche quanto è suggerito dal nostro essere e percepirci un’unica famiglia umana, nella quale la crescita degli uni dipende da quella degli altri, nella quale vi sono doveri che, pur non essendo imposti per legge, sono ugualmente cogenti per il fatto che siamo tutti interdipendenti, partecipi di una stessa umanità fraterna.

Per quanto detto, è anche facile comprendere come la fraternità sia un movente essenziale nella configurazione di un nuovo Stato sociale, che intende produrre beni e servizi sempre più commisurati alle persone concrete, ai loro bisogni che spesso vanno al di là del puro bisogno materiale, perché sono di natura psicologica, affettiva, religiosa. Detto altrimenti, la fraternità diventa criterio di riforma e di innovazione del Welfare State in una Welfare Society, secondo cui il benessere è conseguito dalla società civile conformemente alla dignità della persona umana e al suo bene integrale.

Il principio di fraternità, secondo Benedetto XVI, deve trovare un’adeguata applicazione anche nelle imprese finanziarie,[11] oltre che nella tenuta morale delle società, nella famiglia umana e nei rapporti intergenerazionali, nella distribuzione planetaria delle risorse energetiche, nei rapporti tra i Paesi in via di sviluppo e i Paesi altamente industrializzati, nell’ecologia umana a cui è connessa l’ecologia ambientale,[12] nei rapporti tra credenti e non credenti.[13]

Nella FT, papa Francesco evidenzia giustamente che il principio di fraternità sollecita, come già accennato, la globalizzazione dei diritti e dei doveri, dei singoli e dei popoli, la riduzione del debito dei Paesi poveri, un’etica globale di solidarietà e cooperazione.[14] Il fatto che come esseri umani siamo tutti fratelli e sorelle obbliga a nuove prospettive e risposte quanto ai migranti e ai rifugiati (cf capitolo IV). In questo capitolo papa Francesco offre una sintesi più organica del suo pensiero sulle migrazioni e sui rifugiati.

Nel capitolo V, approfondendo il tema della migliore politica, indispensabile alla realizzazione del bene comune, papa Francesco porta la sua riflessione su un piano più elevato, chiaramente trascendente, pienamente cristiano. Perché sia  possibile lo sviluppo plenario di una comunità mondiale, capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale, il pontefice fa ultimamente appello alla carità, virtù teologale. Una tale virtù implica, ovviamente, la fede in Dio. Il che mette in luce come il pontefice argentino, senza alcuna esitazione, giunge a proporre per la vita politica e per i cittadini, come per i responsabili della cosa pubblica, un umanesimo trascendente, un’esistenza aperta alla vita cristiana, all’amore di Cristo. La maggior forza a servizio dello sviluppo e della politica a servizio del bene comune è un umanesimo cristiano, guidato da un amore pieno di verità. Solo la carità unifica le persone, è in grado di giungere ai fratelli e alle sorelle lontani, a quelli più ignorati. Per attuare il bene comune mondiale c’è, dunque, bisogno dell’amore più grande, ossia della carità. Il motivo? Perché sono realisti e non disperdono niente che sia necessario per una trasformazione della storia a beneficio degli ultimi. Il bene comune mondiale, a sua volta, esige un potere internazionale che da una parte limiti il superpotere finanziario, subordinante a sé la politica, e che dall’altra promuova la sovranità del diritto,[15] favorendo tra gli strumenti normativi gli accordi multilaterali.[16]

Non vi sono, pertanto, alternative all’amore politico – sia a livello nazionale, sia a livello internazionale e sovranazionale – e, in particolare, alla carità, afferma con convinzione papa Francesco. Il che equivale a dire, se siamo ben consci, che per i credenti, che si impegnano nel sociale e nella politica, l’annuncio di Cristo e del suo Amore, è primo e principale fattore della migliore politica. E tutto questo perché ciò è un’esigenza intrinseca sia al riconoscere ogni essere umano come un fratello o una sorella, ossia come figlio o figlia di Dio, sia al ricercare un’amicizia sociale che includa tutti. Ne consegue, ovviamente, che qualunque impegno che decida le cose e trovi percorsi efficaci in tale direzione diventa un esercizio alto della carità. Quando ci si unisce ad altri per dare vita a processi sociali di fraternità e di giustizia per tutti, si entra, rimarca papa Francesco, nel campo della più vasta carità politica,[17] una delle forme più alte della carità, in quanto ricerca il bene comune.

Facendo tesoro delle affermazioni di Benedetto XVI, reperibili nella enciclica avente come incipit l’espressione Caritas in veritate, papa Francesco ribadisce che la carità sociale, che anima la costruzione di un mondo più fraterno, giusto e pacifico, è un amore che si accompagna indissolubilmente all’impegno per la verità. Proprio il rapporto con questa favorisce l’universalismo della carità, preservandola dall’essere relegata in un ambito ristretto e privato di relazioni.[18] Senza la verità, l’emotività si vuota di contenuti relazionali e sociali. Senza di essa, la fraternità non è riconosciuta, il dialogo pubblico e interreligioso si interrompono, vengono meno il retto esercizio dell’autorità, il fondamento del consenso politico,[19] la realizzazione del bene comune,[20] la giustizia e la misericordia.[21]

L’amore politico, amore congiunto alla verità e alla fraternità, si concretizza secondo molteplici direttrici. È diretto verso persone e popoli (amore elicito), a creare istituzioni più sane, ordinamenti più giusti, strutture più solidali (amore imperato), alla preferenza degli ultimi (persone e popoli), a globalizzare i diritti umani essenziali,[22] a eliminare la fame e lo scandalo dello scarto di tonnellate di alimenti, a favorire l’incontro e l’inclusione, a lottare contro l’intolleranza fondamentalista e i fanatismi,[23]a praticare la tenerezza,[24] ad avviare nuovi processi, a sperare.[25]

Note

[1] Cf FT272.

[2] Cf CIV, 19.

[3] Cf CIV19.

[4] Cf ib., 20.

[5] Ib., 34.

[6] Cf ib., 36.

[7] Ib., 38.

[8] Cf CIV46. Terzo settore, non profit, profitsono espressioni oramai di uso comune che entrano per la prima volta in un’enciclica sociale. Sul modo in cui nell’economia si possa essere mossi non solo da interessi personali e dal profitto ma anche dal desiderio di aiutare gli altri, dalla solidarietà e dalla gratuità  si leggano, fra gli altri, L. Bruni-S. Zamagni, Economia civile, Il Mulino, Bologna 2004;L. Becchetti, Oltre l’homo oeconomicus. Felicità, responsabilità, economia delle relazioni, Città Nuova, Roma 2009; L. Bruni, L’impresa civile, Egea, Milano 2009.

[9] Cf CIV35.

[10] Cf ib., 46.

[11] Su questo si legga M. TOSO, La speranza dei popoli. Lo sviluppo nella carità e nella verità. L’enciclica sociale di Benedetto XVI, LAS Roma 2010, pp. 53-54.

[12] Cf CIV51. Per salvaguardare la natura è necessaria l’ecologia umana e con essa l’ecologia ambientale. «È una contraddizione  – scrive Benedetto XVI –  chiedere alle nuove generazioni il rispetto dell’ambiente naturale, quando l’educazione e le leggi non le aiutano a rispettare se stesse. Il libro della natura è uno e indivisibile, sul versante dell’ambiente come sul versante della vita, della sessualità, del matrimonio, della famiglia, delle relazioni sociali, in una parola dello sviluppo umano integrale. I doveri che abbiamo verso l’ambiente si collegano con i doveri che abbiamo verso la persona considerata in se stessa e in relazione con gli altri. Non si possono esigere gli uni e conculcare gli altri. Questa è una grave antinomia della mentalità e della prassi odierna, che avvilisce la persona, sconvolge l’ambiente e danneggia la società» (Ib.).

[13] Cf CIV57.

[14] Cf FT121-127.

[15] Cf ib., 174. Anche con riferimento al tema del potere internazionale e la sua configurazione, in ordine a salvaguardare la fraternità e la giustizia mondiali, si può scorgere continuità di pensiero tra Benedetto XVI e papa Francesco. In un contesto mondiale in cui dominano strategie orientate ad un maggior individualismo, in cui esiste l’urgenza di creare un sistema giuridico di regolamentazione delle rivendicazioni e degli interessi più forti, delle pretese di falsi diritti, in cui si assiste a una perdita di potere degli Stati nazionali, soprattutto perché la dimensione economico-finanziaria, con caratteri transnazionali, tende a predominare sulla politica, diventa indispensabile lo sviluppo di istituzioni internazionali più efficacemente organizzate, con autorità designate in maniera imparziale mediante accordi tra i governi nazionali e dotate del potere di sanzionare. «Quando si parla della possibilità di qualche forma di autorità mondiale regolata dal diritto – scrive papa Francesco riferendosi proprio a Benedetto XVI e spiegandone il pensiero -non necessariamente si deve pensare a un’autorità personale. Tuttavia, dovrebbe almeno prevedere il dare vita a organizzazioni mondiali più efficaci, dotate di autorità per assicurare il bene comune mondiale, lo sradicamento della fame e della miseria e la difesa certa dei diritti umani fondamentali» (FT 172). Sempre muovendosi sulla scia di Benedetto XVI, papa Francesco aggiunge: «In questa prospettiva, ricordo che è necessaria una riforma “sia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che dell’architettura economica e finanziaria internazionale, affinché si possa dare reale concretezza al concetto di famiglia di Nazioni”» (FT 173).Ciò presuppone limiti giuridici precisi, per evitare che si tratti di un’autorità cooptata solo da alcuni Paesi e, nello stesso tempo, impedire imposizioni culturali o la riduzione delle libertà essenziali delle nazioni più deboli a causa di differenze ideologiche. Infatti, quella internazionale è una comunità giuridica fondata sulla sovranità di ogni Stato membro, senza vincoli di subordinazione che ne neghino o ne limitino l’indipendenza. Ma il compito delle Nazioni Unite, a partire dai postulati del Preambolo e dei primi articoli della sua Carta costituzionale, può essere visto come lo sviluppo e la promozione della sovranità del diritto, sapendo che la giustizia è requisito indispensabile per realizzare l’ideale della fraternità universale. Bisogna assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni Unite, vera norma giuridica fondamentale. Occorre evitare che questa Organizzazione sia delegittimata, perché i suoi problemi e le sue carenze possono essere affrontati e risolti congiuntamente.

[16] Da papa Francesco viene l’invito di un cambio radicale anche nelle relazioni internazionali. Per avere maggiore certezza della destinazione comune dei beni della terra, della realizzazione della giustizia e della fraternità planetarie non appaiono più sufficienti le forme dei rapporti bilaterali tra gli Stati e i popoli. Paesi potenti e grandi imprese preferiscono trattare con altri Paesi più piccoli o poveri al fine di trarne vantaggi superiori. Francesco auspica rapporti multilaterali, ossia che si raggiungano «accordi regionali con i vicini, che permettano loro di trattare in blocco ed evitare di diventare segmenti marginali e dipendenti dalle grandi potenze» (FT 153).

[17] Cf FT 180.

[18]Cf FT 184.

[19] Cf FT 206: «Il relativismo non è la soluzione. Sotto il velo di una presunta tolleranza, finisce per favorire il fatto che i valori morali siano interpretati dai potenti secondo le convenienze del momento. Se in definitiva “non ci sono verità oggettive né principi stabili, al di fuori della soddisfazione delle proprie aspirazioni e delle necessità immediate, […] non possiamo pensare che i programmi politici o la forza della legge basteranno. […] Quando è la cultura che si corrompe e non si riconosce più alcuna verità oggettiva o principi universalmente validi, le leggi verranno intese solo come imposizioni arbitrarie e come ostacoli da evitare”».

[20] Cf FT 202.

[21] Cf ib.,227.

[22] Cf ib.,189.

[23] Cf ib.,191.

[24] Cf ib.,193-195.

[25] Cf ib.,196. A proposito di nuovi processi e vie di speranza giova la lettura di Francesco, Ritorniamo a sognare, in conversazione con Austen Ivereigh, Piemme, Trebaseleghe (PD) 2020.

Il commento

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La civiltà dell’amore fraterno

Fratelli-tutti

Papa Francesco, come già accennato, propone la costruzione di un mondo nuovo poggiante sui pilastri della fraternità e dell’amicizia sociale. Ma, a loro volta, dove trovano la loro fonte ontologica e morale tali pilastri? Secondo il pontefice essi trovano la loro origine nell’amore aperto a tutti, nell’amore che si estende al di là delle frontiere. Ecco perché, prima di parlare più diffusamente della fraternità e dell’amicizia sociale, papa Francesco nel capitolo terzo della sua enciclica, si ferma a riflettere sull’amore umano edivino, mediante una ragione ispirata cristianamente. L’amore è radice originante della fraternità e dell’amicizia sociale, in quanto dall’intimo di ogni cuore crea legami e allarga l’esistenza facendo uscire la persona da se stessa verso l’altro. E ciò perché siamo fatti per l’amore, perché c’è in ognuno di noi una specie di legge di «estasi»: uscire da se stessi per trovare negli altri un accrescimento di essere.[1]

In tal maniera, il pontefice argentino, cogliendo la tensione morale che struttura le persone, in analogia a san Paolo VI, giunge a proporre la «civiltà dell’amore»,[2] quale anima del mondo nuovo che egli sogna, come mondo aperto a tutti.

È bene sottolineare che inizialmente Papa Francesco nella sua riflessione sull’amore procede noncon un metodo deduttivo o aprioristico, bensì muovendo dall’analisi dell’esperienza  della stessa esistenza umana, ossia con un metodo induttivo. Scrutando dentro i dinamismi psicologici e morali della vita umana giunge a comprendere che il «sogno» di un mondo nuovo, più fraterno, deriva dalla struttura morale della persona stessa, la quale si realizza in pienezza solo attraverso la libertà, il dono sincero di sé. L’umanità raggiunge il proprio compimento umano quando le persone e i popoli vivono relazioni vere, legami di fedeltà, comunione di sentimenti, fratellanza.[3] Ciò è possibile grazie all’amore, quel valore che, come spiegava Tommaso d’Aquino, consente una vita ricca di virtù. Solo l’amore vero orienta adeguatamente gli atti delle varie virtù, rendendoli capaci di costruire sia la vita personale sia la vita in comune. Il semplice amore umano, però, non è in grado, sempre come illustrava l’Aquinate, ma anche san Bonaventura, di garantire da solo una vita virtuosa piena. Occorre la carità che Dio infonde nelle persone. L’amore umano, amore fragile a motivo del peccato originale, dev’essere guarito, integrato e rafforzato dall’amore di Dio, donato e ricevuto. Questo amore trascendente  rafforza il dinamismo di apertura e di unione verso altre persone, perseguendo con determinazione e perseveranza il loro bene in Dio.[4] L’amore trascendente non contraddice le esigenze dell’amore umano, ma le perfeziona. Lo stesso amore donato da Dio, rivelato e realizzato da Cristo, riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, ci aiuta a conoscere meglio il dinamismo interno dell’amore umano. Perché?

Perché la struttura della vita spirituale e morale delle persone  si comprende meglio se si capisce in che cosa consiste quell’esperienza d’amare che Dio rende possibile con la sua grazia, ossia con il dono del suo amore, a cui l’essere umano aspira. Sempre san Tommaso d’Aquino spiegava una tale esperienza come un movimento che pone l’attenzione sull’altro considerandolo come «un’unica cosa con se stesso». L’attenzione affettiva che si presta all’altro provoca un orientamento a ricercare gratuitamente il suo bene. Tutto ciò parte da una stima, da un apprezzamento, che in definitiva sta dietro la parola «carità»: l’essere amato è per me «caro», vale a dire che lo considero di grande valore. L’amore virtuoso è qualcosa di più che una serie di azioni benefiche. Le azioni derivano da un’unione che inclina sempre più verso l’altro considerandolo prezioso, degno, gradito e bello, al di là delle apparenze fisiche o morali. L’amore all’altro per quello che è ci spinge a cercare il meglio per la sua vita, ossia un compimento umano pieno. Solo un amore virtuoso, ossia un amore umano redento e potenziato dall’amore sorgivo del Padre per il Figlio, nello Spirito Santo, rende possibile l’amicizia sociale che non esclude nessuno e la fraternità aperta a tutti.[5] Detto altrimenti, la pratica delle virtù, quali la fraternità e l’amicizia sociale, ma anche delle altre virtù umane, nella fragilità della condizione umana non sono possibili senza l’aiuto di Dio.[6]

Come si potrà notare, è in  questo punto della sua riflessione che  papa Francesco, sempre seguendo un metodo di analisi esperienziale, rende più palese il legame esistente tra l’amore e la fraternità. La fraternità sboccia dal dinamismo dell’amore stesso. È inscritta nella tensione dell’amore che porta ad una progressiva apertura verso l’altro, facendo riconoscere che c’è una reciproca appartenenza tra le persone. Papa Francesco, senza appellarsi direttamente ai contenuti di fede – lo farà subito più avanti –, giunge a concludere: «Nei dinamismi della storia, pur nella diversità delle etnie, delle società e delle culture, vediamo seminata così la vocazione a formare una comunità composta da fratelli che si accolgono reciprocamente, prendendosi cura gli uni degli altri».[7] Nella stessa storia umana è inscritto, in concreto, l’anelito alla costruzione di una civiltà dell’amore fraterno, la quale è assicurata a tutti i popoli dall’accoglienza – qui, invece, il pontefice si appella direttamente ai contenuti di fede – dell’amore divino o carità.

Cosa che – è bene precisarlo – può avvenire quanto più Gesù Cristo e il suo amore sono accolti, celebrati, annunciati e testimoniati nel mondo. L’instaurazione di una solida civiltà dell’amore fraterno presuppone l’evangelizzazione, l’annuncio di Gesù Cristo, primo e principale fattore di tale civiltà, per usare il linguaggio che ci ha insegnato papa Benedetto XVI nella sua enciclica Caritas in veritate.[8] Quanto detto evidenzia il particolare impegno pastorale e pedagogico che dev’essere assunto e vissuto da parte delle comunità cristiane, delle associazioni, delle aggregazioni, dei movimenti cattolici o di ispirazione cristiana.

Note

[1] Cf ib., 88.

[2] Su Paolo VI e la civiltà dell’amore rimandiamo a M. TOSO, Paolo VI e la costruzione della civiltà dell’amore, in Aa.Vv., Paolo VI. Fede, cultura, università, a cura di M. Mantovani e M. Toso, LAS, Roma 2003, pp. 153-174.

[3] Cf FT 87.

[4] Cfib., 91.

[5] Cf ib., 94.

[6] Sulla pratica delle virtù umane e sulla vita buona nella fragilità della condizione umana si leggano le considerazioni di G. Abbà, Le virtù per la felicità, LAS, Roma 2018, specie pp. 672-680.

[7] Cf FT 96.

[8] Cf ad es. Benedetto xvi, Caritas in veritate (=CIV), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009, 8.

Il commento

1. Obiettivo e modalità della «Fratelli tutti»

2. Il discernimento proposto dalla «Fratelli tutti»

3. Il realismo teologico, antropologico e morale della parabola del buon Samaritano

4. La civiltà dell’amore fraterno

5. La fondazione trascendente della fraternità: Benedetto XVI e papa Francesco

6. Un approfondimento: Cristo «universale concreto della fraternità»

7. A mo’ di conclusione: costruzione di un mondo nuovo mediante una politica samaritana

Il realismo teologico, antropologico e morale della parabola del buon Samaritano

Fratelli-tutti

La parabola del buon Samaritano è impiegata da papa Francesco quale strumento ermeneutico della realtà umana contemporanea, nella complessità di tutte le sue ombre e luci. Secondo il pontefice argentino, una tale parabola interpella chiunque, credente o non credente. Infatti, in essa ci si riferisce sia all’esperienza delle relazioni interpersonali su un piano precipuamente umano sia su un piano di fede. Per i credenti, la relazionalità è umana, ma anche più che umana. È relazionalità trascendente, avente una connotazione divina, ossia una relazionalità quale compete ai figli e alle figlie di Dio, a persone che sono viventi in Cristo. La parabola del buon Samaritano, come insegna la lettura che ne ha fatto nei secoli la Chiesa, e che papa Francesco ripropone nell’oggi, non solo illumina le relazioni tra gli esseri umani in quanto tali, ma anche consente di riconoscere in colui che aiuta il giudeo ferito, Cristo stesso. Incarnandosi si china sull’umanità ferita dal peccato e se ne prende cura salvandola, redimendola. Anche noi, al pari del buon samaritano, suggerisce il pontefice argentino, dobbiamo mostrare prossimità nei confronti delle persone o dei popoli feriti della terra.[1]

Dobbiamo, però, essere non solo buoni samaritani, ma anche quell’umanità che, assunta e vissuta da Cristo, propria dei figli nel Figlio, si fa «vicina» e si prende cura di chi è nel bisogno, con lo stesso amore di Gesù, indipendentemente da dove è nato e da dove viene. Il buon samaritano, fattosi prossimo del giudeo ferito, superando barriere culturali e storiche, per papa Francesco rappresenta sia l’umanità misericordiosa nei confronti dei più fragili sia lo stesso Gesù, Figlio di Dio, che si incarna per amore e viene in soccorso di ogni malcapitato, derubato e picchiato. In sostanza, siamo sollecitati da papa Francesco a superare la dimensione semplicemente umana dell’episodio del buon samaritano. Dobbiamo andare oltre, per coglierne la dimensione trascendente, sino a scorgere nel samaritano, come già accennato, Cristo stesso. Ciò è evidente ove, alla fine del secondo capitolo, il pontefice scrive: «Per i cristiani, le parole di Gesù hanno anche un’altra dimensione, trascendente. Implicano il riconoscere Cristo stesso in ogni fratello abbandonato o escluso (cfr Mt 25,40.45)».[2] Gesù va riconosciuto, dunque, sia come il buon samaritano che aiuta l’umanità ferita dal peccato redimendola, sia come il giudeo ferito, ovvero come ogni persona che è derubata e maltrattata, abbandonata sul ciglio della strada.

A questo punto diventa facile osservare che la parabola del buon samaritano nella FT mette a disposizione non solo delle categorie ermeneutiche terrene per interpretare la realtà, per individuare dei principi di riflessione e dei criteri di giudizio, per avere a disposizione una progettualità germinale in vista della costruzione di un mondo più fraterno, ma consente di comprendere come l’impegno dei credenti nella trasfigurazione delle relazioni e delle istituzioni trova categorie ermeneutiche trascendenti nella comunione con la vita stessa di Cristo, che è venuto per fare nuove tutte le cose, ricapitolandole in sé, mediante l’incarnazione, la morte e la risurrezione. Una tale comunione mette a disposizione le sue radici e le sue coordinate, la sua anima agapica e trasfigurante, derivanti dalla stessa esperienza originaria e primaria della comunità di fede, che fa memoria della salvezza integrale di Cristo e cammina nella storia, accogliendola, celebrandola, annunciandola, testimoniandola.

In ultima analisi, papa Francesco pensa che il segreto della capacità innovatrice dei credenti, che la loro capacità efficace nel servire i poveri e il bene comune, nella costruzione di un mondo nuovo, è da ricercare nella partecipazione ontologica e sacramentale alla vita dell’Uomo nuovo, alfa ed omega, cuore della storia umana, fonte di una vita aperta al dono e alla fraternità. Senza coltivare l’appartenenza alla comunità cristiana, senza una vita partecipata e condivisa nella comunione-comunità, che è la Chiesa, viene meno la capacità di rigenerare e di alimentare, mediante un amore agapico e fraterno, i nostri  molteplici «noi», quali la famiglia, la scuola, la società politica, la famiglia umana, le associazioni. La professionalità, richiesta a ogni persona, perde la sua anima spirituale ed etica. La realtà sociale smarrisce il suo paradigma di relazionalità nella comunione e nel dono reciproco.

In definitiva, la parabola del buon Samaritano che, nella costruzione di un mondo nuovo, induce a riflettere su un «prossimo» senza frontiere, su un amore fraterno universale, aperto a tutti, spalanca uno scenario teologico ed ecclesiologico, in cui per il credente emerge chiaramente che Gesù Cristo, mediante la sua Incarnazione, è comunicazione imprescindibile con una fraternità e una paternità trascendenti, che trova il suo rimando ultimo nelle missioni trinitarie e nel ruolo fontale del Padre che invia il Figlio affinché gli uomini siano tutti fratellifigli nel Figlio, uniti in un’unica famiglia e comunione, tra loro e con il Padre. Quando si comprenda e si viva tutto questo si viene preservati dalla frattura tra fede ed impegno, un virus pericoloso che oggi colpisce non pochi cristiani.

Sull’origine teologica e trinitaria della fraternità si avrà modo di ritornare più avanti.

Note

[1] Cf ib., 79.

[2] Ib., 85.

Il commento

1. Obiettivo e modalità della «Fratelli tutti»

2. Il discernimento proposto dalla «Fratelli tutti»

3. Il realismo teologico, antropologico e morale della parabola del buon Samaritano

4. La civiltà dell’amore fraterno

5. La fondazione trascendente della fraternità: Benedetto XVI e papa Francesco

6. Un approfondimento: Cristo «universale concreto della fraternità»

7. A mo’ di conclusione: costruzione di un mondo nuovo mediante una politica samaritana