Omelia per la Solennità della Madre di Dio e Giornata della Pace

01-01-2018

All’inizio di questo Nuovo anno solare festeggiamo la divina maternità di Maria. Nell’espressione “Dio mandò il suo Figlio nato da donna” si trova condensata la verità fondamentale su Gesù come Persona divina che ha pienamente assunto la nostra natura umana. Egli è il Figlio di Dio, è generato da Lui, e al tempo stesso è figlio di una donna, Maria. Viene da lei. È da Dio e da Maria. Per questo la Madre di Gesù si può e si deve chiamare Madre di Dio.

Festeggiare Maria, Madre di Dio, è festeggiare Colei che ha dato alla luce il Salvatore del mondo, che è anche l’Uomo Nuovo. Il Verbo di Dio che prende carne trasforma dall’interno l’esistenza umana, partecipando a noi il suo essere Figlio del Padre. Si è fatto come noi per farci come Lui: figli nel Figlio, uomini liberi dalla legge del peccato, uomini che ricevono lo stesso Spirito del Figlio di Dio e sono chiamati a vivere con il suo amore (cf Gal 4, 4-7). In tal modo, Maria è donna che pone nel mondo il principio di una potente rivoluzione religiosa e civile. La capacità di bene dell’uomo è moltiplicata perché gli è donata la stessa capacità di amare del Figlio di Dio. Il male può essere vinto, come anche colui che ne è il seminatore e lo sparge come zizzania nel campo della storia umana. È l’inizio di cieli e terra nuovi, di un mondo più giusto e pacifico. Il Figlio di Dio, nato per noi, è autore di una vita in pienezza, è Principe della pace.

Proprio per questo, la Chiesa, sin dai tempi del beato Paolo VI, ha preso l’abitudine di celebrare la Giornata mondiale della pace il 1° gennaio, all’inizio di un nuovo anno civile. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres ha ieri lanciato un «allarme rosso». La sua dichiarazione di fine anno e di auguri per il 2018 è stato un avvertimento sulle sfide cruciali che l’insieme dell’umanità deve affrontare e vincere, senza perdere tempo. Non sto facendo un appello, ha detto, «sto emettendo un avviso, un allarme rosso per il nostro mondo. I conflitti si sono incancreniti ed emergono nuovi pericoli. Le ansie globali sulle armi atomiche sono anche più gravi dell’epoca della guerra fredda e il cambiamento climatico viaggia più velocemente di noi. Le disuguaglianze crescono e assistiamo a orrende violazioni dei diritti umani. Nazionalismo e xenofobia sono in aumento». Lo stesso papa Francesco più di una volta ha parlato di una terza guerra mondiale in corso, sebbene a pezzi, diffusa in più punti del globo. Quest’anno il pontefice ha sottolineato con il suo Messaggio per la celebrazione della giornata mondiale della pace che questa sarà consolidata se l’umanità riuscirà a valorizzare l’apporto dei migranti e dei rifugiati, venendo incontro ai loro bisogni, realizzando i loro diritti. I migranti sono oltre 250 milioni, dei quali 22 milioni e mezzo sono rifugiati. Nel suo Messaggio li presenta come «uomini e donne in cerca di pace». Il mondo globalizzato, ove le migrazioni sono e saranno ormai un evento strutturale, non potrà godere della pace quando tante, troppe persone sono costrette a fuggire e a lasciare le loro terre e case a motivo di discriminazioni, persecuzioni, povertà e degrado ambientale. Secondo papa Francesco, la pace viene realizzata nel mondo se un simile problema verrà affrontato non solo aprendo i cuori alla sofferenza altrui, ma soprattutto operando, affinché migranti e rifugiati possano trovare una casa sicura, mediante il riconoscimento e la promozione dei loro diritti e doveri, venendo accolti, protetti ed integrati. Ciò dovrà avvenire – quest’aspetto è, a scanso di equivoci, subito precisato da papa Francesco, onde evitare fraintendimenti ed inutili polemiche – senza che siano dimenticati o danneggiati doveri e diritti dei cittadini dei Paesi ospitanti. Ecco quanto esattamente scrive il pontefice nel Messaggio, con riferimento ai responsabili della cosa pubblica: «Praticando la virtù della prudenza, i governanti sapranno accogliere, promuovere, proteggere e integrare, stabilendo misure pratiche, “nei limiti consentiti dal bene comune rettamente inteso, [per] permettere quell’inserimento”. Essi hanno una precisa responsabilità verso le proprie comunità, delle quali devono assicurare i giusti diritti e lo sviluppo armonico, per non essere come il costruttore stolto che fece male i calcoli e non riuscì a completare la torre che aveva cominciato a edificare» (MGMP n. 1).

Nel Discorso in occasione degli auguri del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede (11 gennaio 2016), fermandosi sul massiccio fenomeno migratorio, in vista delle soluzioni e del superamento della paura a fronte di un fenomeno così massiccio e imponente, papa Francesco sollecitava i vari Paesi e gli uomini di buona volontà: 1) ad un impegno comune che rovesciasse decisamente la «cultura dello scarto» e dell’offesa alla vita umana; 2) come anche ad un insieme di politiche che andassero oltre l’emergenza, nella direzione anzitutto della prevenzione: «Gran parte delle cause delle migrazioni – rimarcava il pontefice – si potevano affrontare già da tempo. Si sarebbero così potute prevenire tante sciagure o, almeno, mitigarne le conseguenze più crudeli». «Anche oggi, e prima che sia troppo tardi – aggiungeva-, molto si potrebbe fare per fermare le tragedie e costruire la pace. Ciò significherebbe però rimettere in discussione abitudini e prassi consolidate, a partire dalle problematiche connesse al commercio degli armamenti, al problema dell’approvvigionamento di materie prime e di energia, agli investimenti, alle politiche finanziarie e di sostegno allo sviluppo, fino alla grave piaga della corruzione. Siamo consapevoli poi che, sul tema della migrazione, occorra stabilire progetti a medio e lungo termine che vadano oltre la risposta di emergenza. Essi dovrebbero da un lato aiutare effettivamente l’integrazione dei migranti nei Paesi di accoglienza e, nel contempo, favorire lo sviluppo dei Paesi di provenienza con politiche solidali, che però non sottomettano gli aiuti a strategie e pratiche ideologicamente estranee o contrarie alle culture dei popoli cui sono indirizzate».

Al fine di offrire ai richiedenti asilo, ai rifugiati e ai migranti e vittime di tratta la possibilità di trovare quella pace che stanno cercando, nel Messaggio di quest’anno suggerisce una strategia capace di combinare quattro azioni: accogliere, proteggere, promuovere ed integrale. Tutto ciò sarà, però, possibile, se credenti, uomini di buona volontà e governanti sapranno assumere uno sguardo contemplativo, che vede in profondità e non si ferma ai problemi immediati, pur gravi. Le difficoltà, le tragedie dei migranti potranno essere affrontate meglio se con la sapienza della fede si riuscirà a guardare oltre al momento contingente. Bisogna saper vedere nei migranti e nei rifugiati non tanto dei concorrenti, quanto piuttosto dei fratelli e delle sorelle che fanno parte della grande famiglia umana, della famiglia di Dio, e che non arrivano da noi a mani vuote: portano un carico di coraggio, capacità, energie e aspirazioni, oltre ai tesori delle loro culture native, per cui arricchiscono la vita delle nazioni che li accolgono. Con ciò il pontefice non invita a praticare un’accoglienza senza limiti, come già accennato all’inizio. Sul volo di ritorno da Lund, Svezia, ove si era recato per partecipare alla commemorazione dei 500 anni della Riforma luterana, dal 31 ottobre al 1° novembre 2016, rispondendo alla domanda di un giornalista svedese sull’accoglienza dei rifugiati in Svezia e nel resto di Europa, ha affermato: «… in teoria non si può chiudere il cuore a un rifugiato, ma ci vuole anche la prudenza dei governanti: devono essere molto aperti a riceverli, ma anche fare il calcolo di come poterli sistemare, perché un rifugiato non lo si deve solo ricevere, ma lo si deve integrare. E se un Paese ha una capacità di venti, diciamo così, di integrazione, faccia fino a questo. Un altro di più, faccia di più. Ma sempre il cuore aperto: non è umano chiudere le porte, non è umano chiudere il cuore, e alla lunga questo si paga. Qui, si paga politicamente;  come anche si può pagare politicamente una imprudenza nei calcoli, nel ricevere più di quelli che si possono integrare. Perché, qual è il pericolo quando un rifugiato o un migrante – questo vale per tutti e due – non viene integrato, non è integrato? Mi permetto la parola – forse  è un neologismo – si ghettizza, ossia entra in un ghetto. E una cultura che non si sviluppa in rapporto con l’altra cultura, questo è pericoloso».

E, dunque, non un’accoglienza comunque, senza limiti, senza il rispetto della dignità umana, bensì un’accoglienza controllata, accompagnata da politiche di prevenzione e di collaborazione internazionali, di ragionevole contenimento del fenomeno migratorio.

Per quei Paesi che si impegnano ad accogliere e ad integrare rimane l’impegno di lavorare con coloro che avranno ricevuto il permesso di soggiorno e la cittadinanza in modo che gradualmente, pacificamente, venga costruita una nuova società, ove i vari gruppi non si contrappongono ma si armonizzano. Mediante un incontro di dialogo tra più esperienze umane vissute, che camminano assieme verso il futuro, sarà plasmata un’identità comunitaria più ricca e dinamica, attraverso uno scambio di doni. L’integrazione degli immigrati dovrà compiersi entrando tutti, ospitanti ed ospiti, in una ricerca comune di una futura identità, che non cancella le sane tradizioni e la ricchezza culturale e civile del Paese ospitante. Il dialogo per essere vero importa che non si rinunci alla identità di nessuno, che vi sia il rispetto reciproco delle diverse fedi, che ognuno si impegni per il bene comune. Per quanto concerne il dialogo, quale via alla civiltà dell’incontro, tornano utili le recenti indicazioni offerte da papa Francesco nel suo Discorso di Presentazione degli auguri della Curia romana (Sala Clementina, 21 dicembre 2017): «Il dialogo – afferma il pontefice – è costruito su tre orientamenti fondamentali: «il dovere dell’identità, il coraggio dell’alterità e la sincerità delle intenzioni. Il dovere dell’identità, perché non si può imbastire un dialogo vero sull’ambiguità o sul sacrificare il bene per compiacere l’altro; il coraggio dell’alterità, perché chi è differente da me, culturalmente o religiosamente, non va visto e trattato come un nemico, ma accolto come un compagno di strada, nella genuina convinzione che il bene di ciascuno risiede nel bene di tutti; la sincerità delle intenzioni, perché il dialogo, in quanto espressione autentica dell’umano, non è una strategia per realizzare secondi fini, ma una via di verità, che merita di essere pazientemente intrapresa per trasformare la competizione in collaborazione».

Da parte della comunità ecclesiale, oltre al proprio specifico contributo perché vi sia accoglienza, protezione, promozione ed integrazione dei migranti e dei rifugiati sulla base di valutazioni prudenziali – non solo i governanti devono praticare la virtù della prudenza, ma anche la Chiesa -, dovrà esserci un impegno di ripensamento e di riprogrammazione della pastorale per aiutare i fedeli a vivere una fede autentica nel nuovo contesto multiculturale e multi-religioso. Con l’aiuto di operatori sociali e pastorali sarà necessario far conoscere agli autoctoni i complessi problemi delle migrazioni e contrastare sospetti infondati e pregiudizi offensivi verso gli stranieri.

La celebrazione dell’Eucaristia in onore della santissima Madre di Dio, Madre di una nuova umanità, ci aiuti a coltivare uno sguardo contemplativo, ad operare nei termini di una prudenza ricca di speranza, a vedere quei nuovi germogli di pace che già stanno spuntando nei cantieri di pace che sono, sia pure a fatica, le nostre città. Maria, regina della pace, ci aiuti.