Omelia per la solennità della Epifania

06-01-2018

La solennità dell’Epifania significa rivelazione e manifestazione di Cristo come salvatore non solo del popolo di Israele ma di tutti i popolo della terra (cf Ef 3, 2-3a.5-6).

Il profeta Isaia (Is 60, 1-6) sollecita il popolo di Israele ad alzarsi, a rivestirsi di luce, a essere luce, accogliendo il Signore. Simile invito, dopo l’incarnazione di Cristo nell’umanità col Natale, viene rivolto anche a noi. Siamo chiamati ad essere luce in un mondo di tenebre, a rischio di collasso, per le guerre, per la crisi ecologica, per i 250 milioni di migranti, per la persistenza della piaga della fame. Come possiamo essere popolo di luce oggi? Rivestendoci di Cristo o, meglio, vivendo Cristo, l’Uomo Nuovo. Egli è luce perché Dio, perché Via, Verità e Vita, perché umanità unita a Dio. Noi popolo cristiano possiamo essere luce, segno di speranza, in un mondo in preda spesso al non-senso, sull’orlo dell’autodistruzione se rimaniamo uniti a Cristo come il tralcio alla vite; se, come i Magi, lo riconosciamo principio di vita nuova, chiave interpretativa dell’esistenza umana, nei suoi aspetti positivi ma anche in quelli tragici: come quelli del male che strappa dal bene e della morte che ci sradica dalla vita terrena.

L’invito di Isaia ad essere luce, ossia persone solari, trasparenti, è incoraggiamento a vivere bene, immacolati, senza compromessi. Noi credenti siamo persone positive, costruttive, cariche di entusiasmo, allorché apparteniamo a Cristo, siamo completamente suoi e lo annunciamo a tutte le genti. Chi vive e sperimenta la vita di Cristo supera la confusione dentro l’anima e nella testa. Non è disorientato o demotivato. Sa dove andare. Sa perché vivere. Non si vende. E, quindi, non appartiene alle cose materiali, al denaro, al successo, al potere, alla tecnologia, pur importante per il progresso economico e sociale. Non si accontenta delle semplici soddisfazioni umane, del benessere economico, delle molte opportunità di scelta che gli sono offerte. Sente che il suo cuore è fatto per Dio ed è inquieto, come affermava sant’Agostino, finché non lo incontra e non riposa in Lui. Senza riconoscere il Signore si cade nell’incertezza, nel degrado morale, perché Cristo è il fine della vita, la meta, alla cui luce mettiamo ordine nei nostri desideri, nelle aspirazioni, nella nostra condotta. Senza lo Sposo del nostro spirito, senza incontrarlo ogni giorno, il nostro rapporto con gli altri diventa, in definitiva, solo ricerca di noi stessi, pretendendo di essere il loro dio. Si esige, paradossalmente, che l’altro si inginocchi per adorarci.

Quando si è poveri di Gesù Cristo diventiamo anche umanità povera, siamo pali secchi che non germogliano nulla. Gli altri non ci appartengono, diventano nostri antagonisti. Per tradurre la Parola di Dio in fonte di ispirazione del nostro vissuto, è utile chiederci: siamo convinti che Cristo è la luce, siamo capaci di essere grazie a Lui, con Lui, luce per gli altri? Davvero siamo in grado di indicarlo come strada della Verità e della Vita per tutti? Pensiamo che Cristo e il suo Vangelo hanno qualcosa di rivoluzionario da proporre ad una società che spesso disprezza la vita dei nascituri ed è ripiegata sul consumismo, è segnata da diseguaglianze e nuove povertà, dall’umiliazione della dignità dell’uomo e della donna? Quei credenti che, con le prossime elezioni, intendono candidarsi in politica, ritengono – come pensavano i cattolici del secolo scorso, non ultimo lo stesso Alcide de Gasperi e, prima, Henri Bergson – che la democrazia è per essenza evangelica, ha cioè come ragion d’essere la fraternità, come impulso interiore l’amore? I christifideles laici ritengono vero che proprio il cristianesimo sviluppa nelle persone il senso della dignità, lo slancio verso la perfezione umana, quale aspirazione dei figli di Dio che, come spiegava bene san Tommaso d’Aquino, agiscono da uomini liberi e non da schiavi? Secondo noi cattolici è ancora vero che per realizzare la preziosa sintesi tra libertà politica e giustizia sociale è imprescindibile la pazienza misericordiosa della fede nonostante il male presente nell’uomo, che indurrebbe a prendere scorciatoie, a assumere la violenza come mezzo di soluzione rapida dei problemi?

Come fare per trovare un senso pieno per la vita e per l’impegno sociale, per diventare popolo di luce, luce che indica Cristo come Salvatore e Redentore? Per essere costantemente popolo di luce, stella che indica il cammino di un umanesimo integrale, aperto alla Trascendenza, occorre non perdere la coscienza di essere popolo di Dio, popolo di Cristo, di avere una missione di salvezza perché suoi. Il male più grave è la mancata coscienza di essere popolo di Dio. Senza una tale coscienza non si è in comunione con l’Umanità nuova, non si è uniti tra noi, si è frammentati. Non si formano comunità compatte, capaci di incidere sulle istituzioni umanizzandole. Non si può fermentare convenientemente gli atteggiamenti e gli stili di vita. Non si mantiene l’unità morale che converge sui beni-valori fondamentali, quali la vita, la famiglia, la libertà di insegnamento, la libertà religiosa, l’obiezione di coscienza, il lavoro, l’ecologia integrale, la libertà di emigrare e di non emigrare. Non si può essere comunità creativa. Oltre che riconoscere Gesù Cristo che si rivela a noi, occorre adorarlo, come fecero i Magi venuti da popoli lontani (cf Mt 2, 1-12). Tutti gli uomini, anche oggi, nella profondità del loro essere, cercano, desiderano, vogliono adorare il Signore. Bisogna consegnarsi a Lui, superando l’estraniazione da noi stessi, le mille futilità che ne soffocano il desiderio. Solo così si vince l’alienazione, la schizofrenia spirituale. Solo prostrandoci e adorando il Missionario per eccellenza diveniamo autentici missionari e testimoni, possiamo gridare a tutti i popoli che in Lui c’è salvezza.