Messaggio per la celebrazione della Giornata Mondiale della Pace

28-12-2017

MESSAGGIO PER LA CELEBRAZIONE DELLA GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

Premessa: migranti e rifugiati, uomini e donne in cerca di pace

Il Messaggio per la celebrazione della Giornata mondiale della pace 2018 (=MGMP) pone al centro dell’attenzione il problema di oltre 250 milioni di migranti nel mondo, 22 milioni e mezzo dei quali hanno ottenuto lo status di rifugiati.1 Secondo papa Francesco, sul nostro pianeta la pace potrà realizzarsi se si affronterà tale problema non solo aprendo i cuori alla sofferenza altrui, ma soprattutto operando attivamente, affinché migranti e rifugiati possano trovare una casa sicura mediante il riconoscimento e la promozione dei loro diritti e doveri. Solo così si sentiranno accolti, protetti ed integrati. A scanso di equivoci, il pontefice precisa subito questo aspetto, onde evitare fraintendimenti ed inutili polemiche, e cioè che ciò dovrà avvenire senza che siano dimenticati o danneggiati doveri e diritti dei cittadini dei Paesi ospitanti. Ecco le parole del pontefice: «Praticando la virtù della prudenza, i governanti sapranno accogliere, promuovere, proteggere e integrare, stabilendo misure pratiche, “nei limiti consentiti dal bene comune rettamente inteso, [per] permettere quell’inserimento”. Essi hanno una precisa responsabilità verso le proprie comunità, delle quali devono assicurare i giusti diritti e lo sviluppo armonico, per non essere come il costruttore stolto che fece male i calcoli e non riuscì a completare la torre che aveva cominciato a edificare» (MGMP n. 1).

Il MGMP si concentra sul tema dei migranti e dei rifugiati specie riferendosi al loro difficile percorso di uscita dai Paesi sino al loro arrivo o approdo in altri Paesi. Rimane piuttosto fuori campo un’adeguata considerazione del fatto che le persone, oltre ad avere il diritto ad emigrare e, quindi, il diritto a fuggire da situazioni spesso tragiche, per una migliore realizzazione delle proprie aspirazioni e capacità, dei propri progetti (contestualmente, però, al diritto di ogni Paese a gestire una politica migratoria che corrisponda al bene comune), hanno anche il diritto a non emigrare, cioè ad essere nelle condizioni di realizzare i propri diritti ed esigenze legittime nel Paese d’origine.

La considerazione del diritto a non emigrare, che è ben presente nel Magistero sociale, consentirebbe di allargare lo sguardo sulla complessità del fenomeno migratorio e dei profughi, nonché sulle possibili politiche di riduzione o di contenimento. Tuttavia, allargare la riflessione anche al diritto a non emigrare e alle connesse politiche avrebbe, forse, reso il MGMP troppo articolato e, pertanto, poco incisivo. A livello politico, sul piano nazionale ed internazionale, per non dire sovranazionale, resta, tuttavia, l’obbligo di affrontare la questione migratoria anche dal punto di vista della prevenzione e, pertanto, degli aiuti, della solidarietà internazionale, delle misure economiche e politiche necessarie per meglio risolvere le molteplici problematiche implicate, al fine di contenere un fenomeno che ha assunto dimensioni davvero rilevanti, e ricondurlo entro dimensioni più accettabili.

  1. Le cause delle tante migrazioni e dei tanti rifugiati

In verità, il MGMP non rinuncia a fissare del tutto l’attenzione su quegli aspetti che debbono essere presi in considerazione soprattutto dai politici, per prevenire le migrazioni da una parte all’altra del mondo. Lo si legge nel secondo paragrafo, ove si cerca di rispondere – anche qui in maniera piuttosto stringata – alla domanda sul perché oggi si danno così consistenti flussi di migranti e rifugiati.

Per comprendere e, di conseguenza, contenere il consistente flusso delle migrazioni e dei rifugiati, diventa imprescindibile individuarne le cause. Tra queste, papa Francesco menziona: a) l’accentuarsi di un’interminabile ed orrenda sequela di guerre, conflitti, genocidi e di cosiddette «pulizie etniche»; b) il desiderio di una vita migliore, al fine di lasciarsi alle spalle la «disperazione» di un futuro impossibile da costruire; c) il desiderio di ricongiungersi alla propria famiglia, e di trovare opportunità di lavoro e di istruzione; d) la fuga da una miseria, aggravata dal degrado ambientale (cf MGMP n. 2).

In altri contesti, ad esempio nel Discorso in occasione degli auguri del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede (11 gennaio 2016), fermandosi sull’emergenza migratoria, in vista delle soluzioni e del superamento della paura a fronte di un fenomeno così massiccio e imponente, papa Francesco presentava un elenco più esauriente delle sue cause, che ne comprendeva anche un approfondimento, fino ad individuare quelle che si potrebbero chiamare più precisamente cause ultime, come la «cultura dello scarto», comandata dagli idoli del profitto e del consumo. La cultura dello scarto, afferma papa Francesco, non sente più le persone come un valore primario da rispettare e tutelare, specie se povere e disabili, se «non servono ancora», come i nascituri, o «non servono più», come gli anziani. Rende insensibili ad ogni forma di spreco, a partire da quello alimentare, che è tra i più deprecabili, in presenza di molte persone e famiglie che soffrono per mancanza del cibo e/o malnutrizione. E così, i più deboli, spesso strumentalizzati, ridotti dall’arroganza dei potenti ad «oggetti» per fini egoistici o per calcoli strategici e politici, sono costretti ad emigrare in maniera irregolare. Sovente possono solo rivolgersi a chi pratica la tratta o contrabbando di esseri umani, pur essendo consapevoli del pericolo di perdere durante il viaggio i beni, la dignità e perfino la vita.

In questo contesto, papa Francesco sollecita i vari Paesi e gli uomini di buona volontà ad un impegno comune, che rovesci decisamente la cultura dello scarto e dell’offesa della vita umana, come anche ad un insieme di politiche, in una visione che vada oltre l’emergenza, anzitutto nella direzione della prevenzione: «Gran parte delle cause delle migrazioni – rimarca il pontefice – si potevano affrontare già da tempo. Si sarebbero così potute prevenire tante sciagure o, almeno, mitigarne le conseguenze più crudeli. Anche oggi, e prima che sia troppo tardi, molto si potrebbe fare per fermare le tragedie e costruire la pace. Ciò significherebbe però rimettere in discussione abitudini e prassi consolidate, a partire dalle problematiche connesse al commercio degli armamenti, al problema dell’approvvigionamento di materie prime e di energia, agli investimenti, alle politiche finanziarie e di sostegno allo sviluppo, fino alla grave piaga della corruzione. Siamo consapevoli poi che, sul tema della migrazione, occorra stabilire progetti a medio e lungo termine che vadano oltre la risposta di emergenza. Essi dovrebbero da un lato aiutare effettivamente l’integrazione dei migranti nei Paesi di accoglienza e, nel contempo, favorire lo sviluppo dei Paesi di provenienza con politiche solidali, che però non sottomettano gli aiuti a strategie e pratiche ideologicamente estranee o contrarie alle culture dei popoli cui sono indirizzate».

Sicuramente, tra le cause delle odierne migrazioni, a nostro modo di vedere vanno annoverate anche: a) la carenza di un nuovo ordine economico e politico internazionale e sovranazionale per una più equa distribuzione dei beni della terra, in vista di una comunità mondiale come famiglia di popoli, con l’applicazione del Diritto internazionale. Di fronte a un fenomeno migratorio così generalizzato, e dai risvolti profondamente diversi rispetto al passato, a poco servirebbero azioni circoscritte al livello meramente nazionale. Le migrazioni internazionali, che debbono considerarsi un’importante componente della realtà sociale, economica e politica del mondo contemporaneo e la loro consistenza numerica rendono necessaria una sempre più stretta collaborazione tra i Paesi generatori di migrazioni e i Paesi ricettori, oltre che la presenza di adeguate normative, in grado di armonizzare i diversi assetti legislativi. E così, al fine di salvaguardare le esigenze e i diritti delle persone e delle famiglie emigrate e, al tempo stesso, quelli delle società di approdo; b) la mancanza di una profonda riforma del sistema monetario e finanziario internazionale; c) il primato dell’economia e della finanza sulla politica, generatore di diseguaglianze ed ulteriori povertà; d) la debolezza dei movimenti popolari mondiali, ossia l’insufficiente organizzazione delle società civili a fronte dei problemi globali e la difesa dei beni collettivi; e) la crisi, pressoché generalizzata, della democrazia rappresentativa, partecipativa e deliberativa; f) il deficit di politica, spesso in balia di oligarchie e di populismi, che la orientano verso particolarismi pilotati da coloro che controllano i mass media e la finanza; g) l’indifferenza nei confronti dell’altro e di Dio; h) il fanatismo e il fondamentalismo religiosi; i) le varie forme di terrorismo; l) un pluralismo culturale frammentato o divaricato sino a perdere l’unità, essenziale pur nella diversità; m) l’incertezza del diritto, a motivo del prevalere di un individualismo libertario ed utilitarista.

  1. La retorica, che enfatizza i rischi per la sicurezza nazionale, e l’onere dell’accoglienza dei nuovi arrivati

Perché papa Francesco parla di retorica? Vive, forse, fuori dalla storia? Egli ne parla non perché non veda la cruda realtà delle migrazioni, le dimensioni bibliche del fenomeno, i rischi, gli oneri e i gravi limiti dell’accoglienza da parte dei vari Paesi. Tutt’altro. Nello stesso MGMP, come già qui sottolineato, evidenzia che i governanti hanno il dovere di creare le condizioni necessarie, finalizzate ad accogliere, promuovere, proteggere ed integrare, per quanto possibile e nei limiti consentiti dal bene comune, ossia dal bene di tutti, migranti, rifugiati e cittadini dei Paesi ospitanti. Ciò implica un’adeguata conoscenza dei problemi, un discernimento in termini di prudenza e di giustizia, nonché collaborazione internazionale. Sul volo di ritorno da Lund, Svezia, ove si era recato dal 31 ottobre al 1° novembre 2016 per partecipare alla commemorazione dei 500 anni della Riforma luterana, rispondendo alla domanda di un giornalista svedese sull’accoglienza dei rifugiati in quel Paese e nel resto dell’Europa, ha affermato: «[…] in teoria non si può chiudere il cuore a un rifugiato, ma ci vuole anche la prudenza dei governanti: devono essere molto aperti a riceverli, ma anche fare il calcolo di come poterli sistemare, perché un rifugiato non lo si deve solo ricevere, ma lo si deve integrare. E se un Paese ha una capacità di venti, diciamo così, di integrazione, faccia fino a questo. Un altro di più, faccia di più. Ma sempre il cuore aperto: non è umano chiudere le porte, non è umano chiudere il cuore, e alla lunga questo si paga. […] si paga politicamente;  come anche si può pagare politicamente una imprudenza nei calcoli, nel ricevere più di quelli che si possono integrare. Perché, qual è il pericolo quando un rifugiato o un migrante – questo vale per tutti e due – non viene integrato, non è integrato? Mi permetto la parola – forse  è un neologismo – si ghettizza, ossia entra in un ghetto. E una cultura che non si sviluppa in rapporto con l’altra cultura, questo è pericoloso».

Papa Francesco, rispondendo al giornalista, in sostanza ha fatto capire di non essere avulso dalla realtà, bensì un pontefice che ragiona con realismo e concretezza. Ha cioè ribadito che: a) l’accoglienza è certamente una questione di umanità, ma deve essere accompagnata dall’integrazione, perché un migrante o un rifugiato non integrato si emargina e può diventare pericoloso per la società; b) si deve distinguere tra migrante e rifugiato: l’accoglienza del primo è regolata da norme ben precise ed è diversa da quella del secondo; c) l’accoglienza non deve diventare uno slogan demagogico, ma deve essere accompagnata dal prudente discernimento di chi accoglie: c’è chi può accogliere e integrare poco, chi di più.

Nel MGMP il pontefice stigmatizza, dunque, quella retorica che enfatizza i problemi sino a far perdere le misure reali del fenomeno migratorio, delle sue conseguenze negative e positive, fomentando paure e chiusure, vale a dire, creando ulteriori problemi, che seminano violenza, discriminazioni razziale e xenofobia. A fronte di un fenomeno indubbiamente vasto, poco controllato e, pertanto, piuttosto caotico e poco gestito, che vede i Paesi di arrivo impreparati e scoordinati, desidera fugare i timori esagerati, affinché la questione venga affrontata con maggior lucidità ed efficacia. Per non considerare le migrazioni solo come una minaccia o un’invasione dannosa, sollecita a guardarle con uno sguardo fiducioso, come un’opportunità per costruire un futuro di pace (cf MGMP n. 2). L’arrivo massiccio di migranti e di richiedenti asilo, le tragedie connesse con lo sviluppo disordinato dei flussi migratori, non sono occasione per compiere manipolazioni populiste, alterare dati o fomentare emotività esasperate. Sono, invece, il momento di affrontare ad occhi aperti un problema così complesso, senza creare cortine di fumo che impediscono di valutarlo nelle sue giuste proporzioni e nei suoi contorni precisi. Le migrazioni sono un problema con cui ci si dovrà confrontare a lungo. Esse sono, infatti, un aspetto strutturale non solo della moderna globalizzazione, ma dell’evoluzione stessa della nostra storia mondiale. E, pertanto, richiedono di esercitare un serio discernimento.

Prendendo in considerazione, in particolare, la situazione italiana, si dovrà riflettere sui seguenti aspetti: a) l’Italia è un Paese che in passato è stato soggetto a molteplici episodi migratori sia in entrata che in uscita. Questo, semmai, l’ha sollecitata a ripensarsi e a riprogettarsi secondo la prospettiva – specie in questi ultimi tempi –, di una società multiculturale e multireligiosa; b) secondo le percentuali di stranieri presenti nei Paesi dell’Unione Europea, l’Italia, con il suo 9,8%, viene dopo Svezia, Norvegia, Germania, Cipro, Irlanda, Estonia, Austria, le cui percentuali vanno dal 15% al 18%; viene anche dopo Spagna, Croazia, Grecia, Francia, Inghilterra, Olanda, Malta, Belgio, che registrano percentuali dal 10% al 13 %; c) sembra difficile sostenere che sia in atto un’invasione di richiedenti asilo e di immigrati, perché l’ACNUR (Alto Commissariato della Nazioni Unite per i Rifugiati, chiamato ad assicurare la protezione internazionale dei rifugiati) ricorda che più dell’85% dei richiedenti asilo sono accolti nei Paesi più poveri o in via di sviluppo. Si pensi al Libano, grande poco meno del Trentino-Alto Adige, che, con una popolazione di 4 milioni e mezzo di abitanti, accoglie 1 milione e 200.000 profughi, più dell’intera Europa, che conta più di 510 milioni di abitanti; d) dalle migrazioni provengono anche benefici culturali ed economici per tutti; e) il progressivo invecchiamento della popolazione italiana trova, di fatto, una compensazione provvidenziale nei nuovi arrivi di immigrati e nel nuovo popolo che sta lentamente formandosi mediante l’accoglienza e l’0integrazione degli stranieri.2

Stando alle statistiche, dunque – nonostante nell’immaginario europeo e non solo italiano, per molti, l’ondata recente di richiedenti asilo si tradurrebbe in più terrorismo e meno posti di lavoro disponibili – non pare si debba porre alla base della crisi socio-economica dell’Europa e della stessa Italia l’arrivo di immigrati e la concorrenza sul piano del lavoro, quanto piuttosto un insieme di concause culturali, sociologiche, economiche, tecnologiche, tra le quali la diminuzione della fertilità, il declino morale a favore di un individualismo libertario ed utilitarista, la finanziarizzazione dell’economia e il primato del profitto a breve termine, la digitalizzazione e la robotizzazione incontrollate del lavoro.

  1. Un discernimento guidato dalla sapienza della fede

È interessante notare come papa Francesco, a fronte del fenomeno migratorio e dei rifugiati, segnali l’importanza di un discernimento che deriva dall’esperienza della fede cristiana, ma anche dalla sollecitudine secolare della Chiesa per i migranti e i rifugiati. Lo sguardo della fede aiuta a vedere oltre certi aspetti negativi derivanti dalle migrazioni, ma in modo particolare quelli positivi. Sollecita alla conversione. Alla luce della fede si colgono le dimensioni teologiche, ecclesiologiche, missionarie e pastorali delle migrazioni stesse. Queste offrono l’opportunità provvidenziale per realizzare il piano di Dio di una comunione universale, di una sola famiglia ove tutti, migranti e popolazioni locali che li accolgono, sono chiamati a vivere nella solidarietà e nella condivisione, a partire dalla fraternità e dalla destinazione universale dei beni.

La famiglia umana è vocata a realizzare la nuova Gerusalemme, ossia una città con le porte sempre aperte, per lasciare entrare le genti di ogni nazione (cf Isaia cap. 6 e Apocalisse cap. 21). La pace è il «sovrano» che la guida, e la giustizia, il principio che governa la convivenza al suo interno (cf MGMP n. 3).

In forza dello sguardo contemplativo della fede, giungiamo a scoprire quel Dio che, grazie all’Incarnazione di Cristo, abita nelle persone, nelle case, nelle strade, nelle piazze. Proprio Lui è all’origine della fraternità, della solidarietà, della giustizia, del desiderio di vero, di bene e di pace che si trova in ogni persona, credente o non credente. La presenza di Dio nei singoli, nei popoli, nella loro storia, consentirà di osservare i migranti e i rifugiati con uno sguardo favorevole, positivo. In loro, poiché l’umanità è fecondata dalla divinità, abita una ricchezza insospettata. Non arrivano a mani vuote: portano un carico di coraggio, capacità, energie e aspirazioni, oltre ai tesori delle loro culture native. In questo modo beneficano la vita della Nazioni che li accolgono.

Lo sguardo contemplativo della fede – secondo papa Francesco –, può aiutare anche gli uomini responsabili della cosa pubblica (evidentemente, specie i credenti) a promuovere la politica di accoglienza fino al massimo dei limiti consentiti dal bene comune rettamente inteso. Con questo sguardo, potremo essere in grado di riconoscere i germogli di pace che già spuntano, e di prenderci cura della loro crescita. Potremo trasformare in cantieri di pace le nostre città, spesso divise e polarizzate da conflitti che riguardano proprio la presenza di migranti e di rifugiati (cf MGMP n. 3).

  1. Direttive per l’azione

Il discernimento, comprensivo dell’analisi della situazione e di una valutazione del fenomeno migratorio alla luce dei grandi principi biblici e morali, secondo papa Francesco, sfocia in una strategia che combina quattro azioni fondamentali e complementari: accogliere, proteggere, promuovere, integrare. Il MGMP le illustra brevemente, rimandando la precisazione della loro articolazione nazionale ed internazionale a due futuri Patti globali (Global Compacts), che dovranno essere approvati dalle Nazioni Unite alla fine del 2018: uno, riguardante le migrazioni sicure, ordinate e regolari; l’altro, i rifugiati. Qui passiamo in rassegna le quattro azioni, utilizzando le 20 proposte, avanzate dalla Sezione Migranti e Rifugiati del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale, per meglio illustrarle e vederne la possibile concretizzazione storica, come suggerito dallo stesso MGMP. Questi 20 Punti sono il risultato della consultazione con varie Conferenze episcopali e ONG cattoliche, impegnate nel settore migranti e rifugiati. Sono stati approvati da papa Francesco.

Nel contesto del nostro incontro a Roma come Fraternità Francescana Frate Jacopa, è bene sottolineare che la Sezione Migranti e Rifugiati, guidata come sappiamo dallo stesso papa Francesco, incoraggia le Conferenze episcopali nazionali a prodigarsi affinché la natura dei Global Compact e i 20 Punti vengano spiegati a tutte le parrocchie e alle organizzazioni ecclesiali. L’obiettivo è quello di promuovere una solidarietà più efficace verso i migranti e i rifugiati. Ogni Conferenza potrà dare priorità a quei Punti che ritenesse più rilevanti nel proprio contesto, per poi portarli all’attenzione del proprio governo, sensibilizzando soprattutto i responsabili dei negoziati.

Per quanto detto, viene utile riportare qui i 20 Punti di azione (pastorale), suddivisi secondo i quattro verbi sovraelencati:

I – Accogliere: richiama l’esigenza di aumentare le vie sicure e legali per migranti e rifugiati

La decisione di emigrare deve essere libera e volontaria. La migrazione deve prodursi ordinatamente nel rispetto delle leggi di ciascun Paese interessato. A tal fine la Chiesa insiste sui punti sotto elencati.

1. Non si possono effettuare espulsioni arbitrarie e collettive di migranti e rifugiati. Bisogna sempre rispettare il principio di “non refoulement”, ossia non si possono rimandare indietro migranti e rifugiati in paesi considerati non sicuri. Tale principio si basa sulla sicurezza che può essere effettivamente garantita alla persona e non su una valutazione sommaria della sicurezza generale del paese. Per questo la composizione di liste di “paesi sicuri” non risulta di alcuna utilità, in quanto non considera i bisogni reali di protezione dei rifugiati.

2. Le vie legali per una migrazione sicura e volontaria, così come per il ricollocamento di rifugiati, devono essere ampliate attraverso l’uso maggiore di visti umanitari e di visti per studenti e apprendisti, l’adozione di corridoi umanitari per le persone più vulnerabili,3 l’adozione di programmi di sponsorship privata e comunitaria, l’adozione di programmi di ricollocamento di rifugiati, l’uso maggiore di visti per ricongiungimento familiare (includendo nonni, fratelli e nipoti), l’adozione di visti temporanei speciali per le persone che scappano dai conflitti nei paesi confinanti, l’adozione di programmi di accoglienza diffusa.

3. La prospettiva della sicurezza della persona deve sempre prevalere su quella della sicurezza nazionale, nel profondo rispetto dei diritti inalienabili di migranti, richiedenti asilo e rifugiati. Questo può essere ottenuto attraverso una formazione adeguata degli agenti di frontiera, la garanzia di accesso a servizi basici a tutti i migranti, richiedenti asilo e rifugiati, l’assicurazione di protezione a chiunque scappi da guerre e violenze e la preferenza di soluzioni alternative alla detenzione per coloro che entrano nel territorio nazionale senza essere autorizzati.

II – Proteggere: ricorda il dovere di riconoscere e di difendere i diritti e la dignità dei migranti e dei rifugiati

La Chiesa sottolinea la necessità di un approccio integrale alla questione migratoria, che metta al centro la persona umana in tutte le sue dimensioni, nel profondo rispetto della sua dignità e dei suoi diritti. Tra di essi, il diritto alla vita è fondamentale, e il suo esercizio non può dipendere dallo status migratorio di una persona. A tal fine la Chiesa insiste sui punti sotto elencati.

4. Gli emigranti devono essere protetti dalle autorità dei loro paesi di origine attraverso l’offerta di informazioni certe e certificate prima della partenza, la certificazione e normazione delle agenzie di emigrazione, la costituzione di un dipartimento ministeriale dedicato alla diaspora e l’offerta di assistenza e protezione consolare all’estero.

5. Gli immigrati devono essere protetti dalle autorità del paese di arrivo onde prevenire il loro sfruttamento, il lavoro forzato e la tratta. Questo può essere ottenuto attraverso la proibizione ai datori di lavoro di trattenere i documenti di identità dei lavoratori, la garanzia di accesso alla giustizia per tutti i migranti indipendentemente dal loro status e senza conseguenze negative per la loro permanenza, l’assicurazione della possibilità di aprire conti bancari personali e la determinazione di un salario minimo da pagarsi almeno una volta al mese.

6. I migranti, i richiedenti asilo e i rifugiati devono essere messi nella condizione di poter utilizzare al meglio le loro capacità e competenze così da contribuire al loro benessere e a quello della comunità. Questo si può ottenere attraverso la garanzia di libertà di movimento all’interno del paese, la concessione di permessi di lavoro, il coinvolgimento delle comunità locali nell’accoglienza di richiedenti asilo, l’accesso ampio ai mezzi di telecomunicazione e lo sviluppo di programmi di reintegrazione lavorativa e sociale per coloro che decidono di ritornare in patria.

7. Le situazioni di vulnerabilità di minori non accompagnati o separati dalla loro famiglia devono essere trattate in accordo ai dettami della Convenzione internazionale sui Diritti dell’infanzia. Questo può essere ottenuto attraverso l’identificazione di soluzioni alternative alla detenzione per migranti minorenni in situazione irregolare, l’offerta di custodia temporanea o affidamento per minori non accompagnati o separati e l’istituzione di centri di accoglienza diversi per famiglie, minori e adulti.

8. Tutti i migranti minorenni devono essere protetti in accordo ai dettami della Convenzione internazionale sui Diritti dell’infanzia. Questo può essere ottenuto attraverso la garanzia che i migranti minorenni non diventino irregolari al compimento della maggiore età e possano continuare con i loro studi e la registrazione e certificazione obbligatoria di tutte le nascite.

9. Bisogna assicurare l’accesso all’istruzione a tutti i minori migranti, richiedenti asilo e rifugiati garantendo loro accesso alla scuola primaria e secondaria di tutti indipendentemente dallo status migratorio con uno standard uguale ai cittadini.

10. Bisogna assicurare ai migranti e ai rifugiati un accesso adeguato al welfare garantendo il loro diritto alla salute e all’assistenza sanitaria di base, indipendentemente dallo status migratorio, assicurando l’accesso ai schemi pensionistici nazionali e garantendo la portabilità dei contributi in caso di rimpatrio.

11. Bisogna evitare che migranti e rifugiati diventino apolidi garantendo il diritto a una nazionalità secondo le convenzioni internazionali e assicurando la cittadinanza a tutti i bambini al momento della nascita (ius soli).

III – Promuovere: rimanda al dovere di favorire lo sviluppo umano integrale dei migranti e rifugiati.

La Chiesa evidenzia la necessità di promuovere lo sviluppo umano integrale dei migranti, richiedenti asilo e rifugiati, assieme a quello delle comunità locali. Tutti i Paesi devono includerli nei loro piani di sviluppo nazionale. A tal fine, la Chiesa insiste sui punti sotto elencati.

12. Bisogna garantire il riconoscimento e lo sviluppo delle competenze dei migranti, richiedenti asilo e rifugiati nel Paese di arrivo attraverso la garanzia di accesso all’istruzione terziaria, ad altri corsi di perfezionamento, ad apprendistati e programmi di stage alla pari dei cittadini e attraverso processi di valutazione e convalidazione dei titoli di studio ottenuti altrove.

13. Bisogna promuovere l’inserimento socio-lavorativo dei migranti, richiedenti asilo e rifugiati nelle comunità locali attraverso il riconoscimento della loro libertà di movimento e di scelta del luogo di residenza, garantendo la possibilità di lavorare a richiedenti asilo e rifugiati, offrendo a tutti corsi di lingua locale, corsi su usi e costumi locali e producendo materiale informativo nelle loro lingue originali.

14. Bisogna sempre promuovere e preservare l’integrità e il benessere della famiglia, indipendentemente dallo status migratorio. Questo può essere ottenuto favorendo un ricongiungimento familiare ampliato (nonni, fratelli e nipoti) e slegato da requisiti economici, concedendo la possibilità di lavorare ai familiari ricongiunti, promuovendo il ritrovamento dei famigliari dispersi, proibendo ogni abuso lavorativo perpetrato su minori e assicurando che il coinvolgimento di questi ultimi in attività lavorative non vada a scapito della loro salute e del loro diritto all’istruzione.

15. Bisogna assicurare ai migranti, richiedenti asilo e rifugiati con bisogni speciali e vulnerabilità lo stesso trattamento riservato ai cittadini nelle medesime condizioni, garantendo loro l’accesso agli ausili per disabili indipendentemente dal loro status migratorio e promuovendo l’inclusione di minori non accompagnati o separati in situazione di disabilità nei programmi educativi speciali previsti per i cittadini.

16. È necessario aumentare la quota di cooperazione internazionale allo sviluppo e di aiuti umanitari inviata ai paesi che ricevono ingenti flussi di rifugiati e migranti in fuga da conflitti armati, in modo che tutti ne beneficino indipendentemente dallo status migratorio. Questo può essere ottenuto finanziando lo sviluppo di strutture e infrastrutture di assistenza medica, educativa e sociale nei luoghi di arrivo e includendo tra i destinatari degli aiuti e dei programmi di assistenza le famiglie locali che si trovano in situazione disagiata.

17. Deve essere sempre garantita la libertà religiosa, sia in termini di professione che di pratica, a tutti i migranti, richiedenti asilo e rifugiati, indipendentemente dal loro status migratorio.

IV – Integrare: significa arricchire le comunità locali attraverso una maggiore partecipazione di migranti e rifugiati

La presenza di migranti, richiedenti asilo e rifugiati rappresenta un’opportunità di crescita per tutti, tanto per i locali quanto per gli stranieri. L’incontro di culture diverse è fonte di mutuo arricchimento. L’inclusione partecipativa di tutti contribuisce allo sviluppo delle nostre società. A tal fine la Chiesa insiste sui punti sotto elencati.

18. Bisogna favorire l’integrazione, intesa come processo bidirezionale che riconosce e valorizza la ricchezza della cultura dell’altro. Questo può essere ottenuto riconoscendo la cittadinanza alla nascita (ius soli), concedendo rapidamente la nazionalità a tutti i rifugiati, slegando la nazionalizzazione da criteri economici e di conoscenza linguistica (almeno per gli over 50), ampliando i canali di ricongiungimento familiare e concedendo regolarizzazioni straordinarie per migranti che abbiamo risieduto nel territorio nazionale per lunghi periodi.

19. È necessario promuovere una narrativa positiva sulla solidarietà verso migranti, richiedenti asilo e rifugiati attraverso il finanziamento di attività di scambio interculturale, la documentazione e diffusione delle “buone pratiche” relative all’integrazione di migranti e rifugiati, assicurando che gli annunci pubblici siano fatti almeno nelle lingue parlate dalla maggior parte dei migranti e dei rifugiati e promuovendo programmi di integrazione nelle comunità locali.

20. Agli stranieri costretti a scappare a causa di crisi umanitarie sorte in terra di emigrazione e inseriti nei programmi di evacuazione e/o rimpatrio assistito devono essere assicurate le condizioni per la reintegrazione nel paese d’origine. Questo può essere ottenuto attraverso l’aumento dei fondi dedicati allo sviluppo di infrastrutture nei luoghi di ritorno e all’assistenza temporanea dei lavoratori vittime di una crisi umanitaria all’estero e attraverso il riconoscimento dei titoli e delle professioni acquisite all’estero dagli stessi lavoratori e il loro rapido inserimento nel mercato del lavoro del paese di origine.

I 20 Punti di azione, oltre che come contributo alla stesura, alla negoziazione e all’adozione dei Global Compacts per Migranti e Rifugiati, come già accennato, devono essere considerati quale strumento di animazione pastorale nelle nostre comunità, associazioni ed aggregazioni. Pertanto, devono diventare oggetto di studio e di diffusione.

  1. Dimensione pastorale delle migrazioni

Il MGMP contiene un breve ma significativo cenno alla dimensione pastorale delle migrazioni (cf MGMP n. 5). Trattandosi di una dimensione importante per le nostre comunità ed associazioni, è bene fermarsi ad elencare alcune questioni ad essa relative.4 Tra quelle che si impongono a livello di pastorale ecclesiale dei migranti e dei rifugiati, c’è senz’altro l’organizzazione nelle varie Diocesi e comunità parrocchiali – specie laddove non sia ancora stato fatto – di una serie specifica di iniziative di accoglienza, di evangelizzazione e di educazione alla fede, a favore di coloro che, per propria scelta o per necessità, lasciano il loro luogo di residenza abituale. Inoltre, di seguire con attenzione i problemi sociali, economici e culturali, che di solito sono all’origine di tali spostamenti.

Nell’impegno di accoglienza, evangelizzazione ed educazione alla fede, occorre porre attenzione alla necessaria «inculturazione», al crescente pluralismo culturale e religioso, a contesti richiedenti un’attività ecumenica. La fluidità culturale rende indispensabile l’inculturazione, perché non si può evangelizzare senza entrare in profondo dialogo con le varie culture. Insieme a popoli con radici diverse, bussano alla nostra porta altri valori e modelli di vita. Se ogni cultura tende a ripensare il contenuto del Vangelo nel proprio ambito di vita, occorre che la Chiesa guidi tale tentativo e ne giudichi la validità. L’inculturazione incomincia con l’ascolto, con la conoscenza di coloro ai quali si annuncia il Vangelo. L’ascolto e la conoscenza devono collocarsi all’interno dell’esperienza del mistero pasquale di morte e di risurrezione di Cristo Signore. Solo così, sarà possibile un adeguato discernimento dei valori e dei disvalori delle varie culture. Per compiere tale discernimento sono fondamentali la simpatia, e il rispetto, per quanto possibile, dell’identità culturale degli interlocutori.

Al lato pratico, la cura pastorale dei migranti e dei rifugiati potrà richiedere, a seconda delle situazioni:

  • la cura di un determinato gruppo etnico o rituale, tesa a promuovere un vero spirito cattolico (cf Lumen gentium n. 13);

  • una pastorale specifica, che possibilmente affidi i migranti e i rifugiati a presbiteri, a cappellani, a missionari, della loro lingua, senza pregiudicare universalità ed unità della comunità cristiana, mantenendo una stretta unione col parroco e col vescovo diocesano;

  • la valorizzazione, sempre per quanto possibile, della lingua materna dei migranti nella partecipazione alla liturgia comune;

  • una pastorale che contribuisce a rendere visibile l’autentica fisionomia di una Chiesa, che comprende popoli di diverse Nazioni ed etnie e, nello stesso tempo, valorizza la valenza ecumenica e dialogico-missionaria della migrazione;

  • e, infine, che le scuole cattoliche non debbano rinunciare, in presenza di figli di migranti di altra fede, alle loro caratteristiche peculiari, al loro progetto educativo, cristianamente orientato. Ciò implicherà, però, il rispetto per il credo religioso altrui, senza indebite pressioni di tipo confessionale.

Come, più in concreto, deve comportarsi la comunità cristiana che accoglie?

Innanzitutto, sarà suo dovere crescere tutti i credenti in un maggior senso di appartenenza alla Chiesa universale, al di là di ogni particolarità. In secondo luogo, le comunità non riterranno esaurito il loro dovere verso i migranti, compiendo semplicemente gesti di aiuto fraterno o anche sostenendo leggi settoriali che promuovano un loro dignitoso inserimento nella società, che rispetti l’identità legittima dello straniero. Bisogna che i cristiani siano promotori di una vera e propria cultura dell’accoglienza fraterna. In terzo luogo, la Chiesa del Paese di accoglienza dovrà ripensare e riprogrammare la pastorale per aiutare i fedeli a vivere una fede autentica nel nuovo contesto multiculturale e multireligioso. Con l’aiuto di operatori sociali e pastorali, sarà necessario far conoscere agli autoctoni i complessi problemi delle migrazioni e contrastare sospetti infondati e pregiudizi offensivi verso gli stranieri. In quarto luogo, nell’insegnamento della religione e nella catechesi, si dovrà trovare il modo adeguato di creare nella coscienza cristiana il senso dell’accoglienza, specie dei più poveri ed emarginati, come spesso sono i migranti: un’accoglienza fondata sull’amore a Cristo riconosciuto nelle persone. Tale catechesi non potrà non riferirsi ai gravi problemi che precedono ed accompagnano il fenomeno migratorio, quali la questione di una globalizzazione non adeguatamente governata, il lavoro e le sue condizioni (con il fenomeno del lavoro nero o schiavizzato), la malavita, lo sfruttamento, il traffico e il contrabbando di esseri umani. In quinto luogo, se l’accoglienza di primo grado (si pensi alle «case dei migranti» specie nei Paesi di transito verso quelli ricettori) è importante (mettendo a disposizione mense, dormitori, ambulatori, aiuti economici vari, centri di ascolto), pure decisivi sono gli interventi di «accoglienza vera e propria», finalizzati alla progressiva integrazione e all’autosufficienza dello straniero. Basti qui ricordare l’impegno per il ricongiungimento famigliare, l’educazione dei figli, l’alloggio, il lavoro, l’associazionismo, la promozione dei diritti civili e le varie forme di partecipazione nella società di arrivo. Le associazioni religiose, socio-caritative e culturali di ispirazione cristiana dovranno badare a coinvolgere gli immigrati nelle loro stesse strutture.

Da ultimo, non è da escludere l’istituzione di comunità che appartengono ad una determinata Chiesa sui iuris, con proprio diritto. Ai tanti sradicamenti dalla terra d’origine, dalla famiglia, dalla lingua, ecc., a cui l’espatrio sottopone forzatamente, non si dovrebbe infatti aggiungere anche quello dal rito o dall’identità religiosa del migrante. In presenza di gruppi particolarmente numerosi ed omogenei – si pensi ai migranti cattolici di rito orientale – essi vanno incoraggiati a mantenere la propria specifica tradizione ecclesiale. In particolare, si dovrà cercare di procurare l’assistenza religiosa, in forma organizzata, da parte di sacerdoti della lingua, della cultura e del rito degli immigrati.

  1. Questioni aperte: quale dialogo e quale libertà religiosa?

In questi ultimi tempi è andato sempre più rafforzandosi, in Paesi di antica tradizione cristiana, la presenza di immigrati di altre religioni. Anche per i non cristiani, la Chiesa si impegna nella promozione umana e nella testimonianza della carità, che ha già di per sé una valenza evangelizzatrice, atta ad aprire i cuori all’annuncio esplicito del Vangelo, fatto con la dovuta prudenza e il pieno rispetto della libertà religiosa altrui. La Chiesa è chiamata ad entrare in dialogo con loro, nella convinzione di essere la via ordinaria di salvezza e la sola a possedere la pienezza dei mezzi di salvezza.

Il dialogo, oltre che, per quanto possibile, sul piano religioso, dovrà avvenire specialmente sulla base di cose pratiche, oneste e buone, come l’impegno per la giustizia, la pace, la salvaguardia e la cura del creato; per l’acqua, elemento essenziale della vita; per la destinazione universale dei beni; per il bene comune della comunità politica. A proposito di quest’ultimo punto, occorre riconoscere che esistono molteplici diversità su molti aspetti della vita religiosa ma anche della convivenza civile e politica. Tuttavia, essendo necessario, per vivere concordemente nella stessa società civile e politica, condividere una piattaforma di beni-valori fondamentali, senza di cui non si avrebbe l’unità morale di tale società, occorre praticare la via del dialogo in maniera continua, con il rispetto del principio della reciprocità.5

Per quanto concerne il dialogo, quale via alla civiltà dell’incontro, tornano utili le recenti indicazioni offerte da papa Francesco nel suo Discorso di Presentazione degli auguri della Curia romana (Sala Clementina, 21 dicembre 2017): «Il dialogo – afferma il pontefice – è costruito su tre orientamenti fondamentali: «il dovere dell’identità, il coraggio dell’alterità e la sincerità delle intenzioni. Il dovere dell’identità, perché non si può imbastire un dialogo vero sull’ambiguità o sul sacrificare il bene per compiacere l’altro; il coraggio dell’alterità, perché chi è differente da me, culturalmente o religiosamente, non va visto e trattato come un nemico, ma accolto come un compagno di strada, nella genuina convinzione che il bene di ciascuno risiede nel bene di tutti; la sincerità delle intenzioni, perché il dialogo, in quanto espressione autentica dell’umano, non è una strategia per realizzare secondi fini, ma una via di verità, che merita di essere pazientemente intrapresa per trasformare la competizione in collaborazione».

La strada verso l’integrazione completa, dunque, passa sí attraverso l’apprendimento della lingua nazionale, l’accettazione di tradizioni e costumi locali che contribuiscono a definire l’identità nazionale, l’accesso al lavoro con la possibilità di avviare piccole imprese o avere un lavoro autonomo, ma soprattutto attraverso la scoperta e l’appropriazione dei valori fondanti ogni comunità, il riconoscimento di quel nucleo essenziale di doveri e di diritti ragionevolmente universali quali: la pari dignità dell’uomo e della donna; la libertà di coscienza e di credo; l’accettazione di un sano pluralismo nella società; la distinzione netta, ma non la separazione di politica e religione (cf Ecclesia in Europa, n. 109); l’uguaglianza dei cittadini di fronte allo Stato; uno Stato di diritto; la democrazia rappresentativa, partecipativa e deliberativa.

I flussi migratori dal mondo arabo e africano verso l’Europa obbligano oramai le nostre democrazie a porre al centro la discussione sui valori fondanti del vivere civile e democratico. Tale discussione non dovrà avvenire mediante uno scontro distruttivo di una o di tutte le parti coinvolte. Dovrà svolgersi come incontro di dialogo tra più esperienze umane vissute, che camminano assieme verso il futuro e costruiscono un’identità comunitaria più ricca e dinamica attraverso uno scambio di doni. L’integrazione degli immigrati dovrà compiersi entrando tutti, ospitanti ed ospiti, in una ricerca comune di una futura identità. Nel dialogo si dovrà trovare, grazie alla comune capacità di vero, di bene e di Dio esistente in ogni persona, indipendentemente dal suo credo, la giustificazione che supporta le regole e i valori fondanti della convivenza. Al dialogo pubblico non potrà giovare né l’individualismo libertario, connesso ad un soggettivismo che assolutizza il relativismo etico, né l’utilitarismo, per il quale il soggetto sociale è sostanzialmente refrattario all’etica.

In un contesto di integrazione sono fondamentali una laicità non neutrale – secondo la quale l’etica pubblica si fonderebbe sull’etsi Deus non daretur –, ma positiva, ossia non indifferente verso il vero, il bene e Dio: una libertà religiosa radicata nella capacità comune di conoscere e di scegliere il vero, il bene e Dio. L’etica della vita pubblica trova, sì, il suo fondamento nella coscienza sociale, ma soprattutto in una coscienza personale, ove, grazie all’apertura connaturale al vero, al bene e all’amore di Dio, e non alla sua marginalizzazione come vorrebbe una cultura postmoderna e secolaristica, si costruisce una condotta secondo il compimento umano in Dio.

Nemici della vera libertà religiosa, ma anche di una vera integrazione, sono il fanatismo, il fondamentalismo, il laicismo. Questi «ismi» sono forme speculari ed estreme di rifiuto del principio di pluralità e di laicità. Il fanatismo e il fondamentalismo pretendono di imporre la verità. Il laicismo di Stato, invece, la nega. In particolare, non è da sottovalutare il progredire del laicismo strisciante, ma sempre più aggressivo, dell’Occidente. Anch’esso può portare gradualmente, e pertanto quasi impercettibilmente ai più, a violenze contro la vita dei credenti di ogni fede. In molti casi, sta già sfociando nell’«uccisione» invisibile delle coscienze, nel loro ottundimento morale. È questo un fatto non meno esiziale per la dignità delle persone, che può essere premessa di persecuzioni e uccisioni. Ciò avviene, ad esempio, quando uno Stato, quello spagnolo, vorrebbe imporre a tutte le scuole, comprese quelle cattoliche, di presentare obbligatoriamente l’aborto e l’indifferenziazione dei sessi come un fatto normale ed innocuo; oppure quando un vescovo viene denunciato alla polizia per aver difeso nell’omelia l’istituto del matrimonio, come è avvenuto nel Regno Unito. Tutto ciò crea gradualmente insensibilità per la vita, ostilità verso coloro che, per la loro fede, credono e professano questi valori.

Ciò premesso, merita che ci si fermi a considerare meglio le ragioni per cui il fondamentalismo e il laicismo sono forme speculari ed estreme di rifiuto del legittimo pluralismo e del principio di laicità.

Le posizioni del fanatismo e del fondamentalismo finiscono per attribuire il diritto alla libertà religiosa solo ad alcuni soggetti e gruppi autoreferenziali e, nel contempo, vorrebbero imporre ad altri le proprie concezioni, anche con l’uso della forza. Per questa via, negano l’universalità, l’intangibilità e la reciprocità della libertà religiosa. Al lato pratico, rifiutano la verità di un Dio, Padre di tutti – peraltro voler uccidere in nome di Dio è bestemmiarlo e offendere l’umanità –, l’uguaglianza di dignità delle persone e la figura di uno Stato laico, aconfessionale, nonché la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, peraltro sancita nella Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo. Talora fomentano un atteggiamento di discriminazione, che provoca azioni irrazionali, sino a veri e propri atti di violenza, attentati contro luoghi di culto ed abitazioni, persecuzioni ed uccisioni, come documenta, relativamente ai cristiani, il recente volume di René Guitton.6

Il laicismo secolaristico, maggiormente presente nei Paesi occidentali, giunge al rifiuto del pluralismo religioso e di una laicità positiva per la via singolare della negazione non solo del cristianesimo, ma di qualsiasi altra religione o tradizione, nel tentativo di promuovere una radicale emancipazione dell’uomo da Dio. Ciò viene fatto mediante un atteggiamento chiaramente prometeico, che considera la religione un fattore destabilizzante la società o di oppressione della libertà umana.7 La marginalizzazione, ad esempio, del Dio cristiano o delle più volte menzionate «radici cristiane» non è espressione di una superiore tolleranza che rispetta in egual modo tutte le religioni, per non privilegiarne alcuna, bensì è spesso l’assolutizzazione di una posizione che si contrappone a ogni credo e cultura religiosi, giungendo in taluni casi, purtroppo, all’estremo del cinismo.

L’opposizione ai segni religiosi o, meglio, al cristianesimo, che in ultima analisi è opposizione a Gesù Cristo, può prendere a pretesto il rispetto per i mussulmani, i quali però, più che essere feriti nei loro sentimenti religiosi per un’eventuale inserzione delle «radici cristiane» nella Costituzione europea, restano scandalizzati da una cultura secolarizzata che nega le proprie basi.8

Esistono oramai veri e propri dossier, che testimoniano la discriminazione non solo delle religioni «importate» dai flussi migratori, ma anche del cristianesimo in Europa, regione che pur è a riconosciuta maggioranza cristiana.9 Si tratta, il più delle volte, di un’intolleranza sottile, strisciante, quasi invisibile, concernente la libertà di coscienza e di espressione.

Tutto ciò conferma la crisi culturale dell’Europa. Essa appare in preda ad una scissione identitaria, che pregiudica il suo futuro e crea mille difficoltà nelle relazioni con le religioni «importate». Un soggetto schizofrenico – lo insegna la scienza psicologica – non è in grado di gestirsi e di relazionarsi con l’esterno.

7. Dialogo tra religioni: il cammino compiuto dalla Chiesa

In una società multireligiosa, in cui le religioni, in vista della pace, sono chiamate ad essere non un problema bensì una risorsa al servizio del bene comune, la Chiesa – come risulta dal Messaggio –, giunge ad un appuntamento di civiltà, come portatrice di una religione che, mediante una sapiente autocritica alla luce del Vangelo, ha saputo purificarsi da aspetti ostativi del dialogo. Fondando il diritto alla libertà religiosa sulla dignità trascendente di ogni uomo e donna, la Chiesa lascia alle sue spalle visioni parziali, come quella di un diritto alla libertà religiosa fondato su una fede vera (prima del Concilio Vaticano II) o su una coscienza retta, come avveniva nell’enciclica Pacem in terris di San Giovanni XXIII.10

Oggi, sulla base della loro fede e di un bene comune razionalmente individuabile, i credenti sono chiamati a vagliare il proprio impegno di vita entro un contesto di pluralismo religioso. Non è la strada del relativismo o del sincretismo, come potrebbe essere paventato da più di qualcuno. È, piuttosto, camminare verso quella verità religiosa in pienezza che è Gesù Cristo e che è possibile guadagnare – sia pure per vie diverse e secondo gradi differenti – giacché in ogni uomo è insita la capacità di conseguirla.

Mentre dalle svariate culture religiose dev’essere abbandonato tutto ciò che è contro la dignità dell’uomo e della donna, occorre favorire ciò che esse operano di positivo nelle convivenze civili. Ci si deve interessare della verità e della bontà delle religioni dal punto di vista sociale, del bene comune mondiale. Come ha insegnato lo stesso Benedetto XVI, ciò è praticabile solo sulla base di un giudizio etico che si struttura grazie ad una ragione non imprigionata nell’empirico, bensì aperta all’integralità della verità e al Trascendente.

Una tale razionalità sussiste e si esercita solo entro un discernimento basato e centrato sulla carità e sulla verità.11 L’esperienza conoscitiva, propria della carità nella verità, fa emergere dal suo grembo il criterio «Tutto l’uomo e tutti gli uomini», che consente di giudicare e di purificare tutte le culture e tutte le religioni.

Lo spazio pubblico, che la Comunità internazionale renderà disponibile per le religioni e per la loro proposta di «vita buona», farà emergere una misura condivisibile di verità e di bene, come anche un robusto consenso morale, fondamentali per una convivenza giusta e pacifica.

  1. Conclusione: una terra promessa da raggiungere

In un mondo globalizzato e caratterizzato da una mobilità accentuata, siamo, in certo modo, invitati a superare i concetti di emigrazione e di immigrazione. È giunto il momento di concentrare l’attenzione sulla prospettiva di una città globale, abitata da una cittadinanza altrettanto globale. In un simile contesto, la persona concreta, con la sua dignità, i suoi diritti e doveri, viene a porsi al centro di tutto. La tutela e promozione della sua dignità antecede la tutela e la promozione della sua identità culturale, etnica, territoriale. Non è più possibile fingere che ci siano persone invisibili, clandestine. Siamo chiamati alla relazione, all’incontro, al dialogo, e non al rifiuto, all’allontanamento o, peggio ancora, allo scontro. La vera sicurezza della città è data dalla relazione, che è arricchimento reciproco, ricerca dell’altro, scambio del dono, in umanità.

Il presente cambiamento d’epoca , caratterizzato dalla mobilità, richiede – non ci si stancherà mai di ripeterlo – una nuova cultura, la cultura dell’incontro e del dialogo. E, prima ancora, del riconoscimento e dell’ascolto reciproco, per giungere ad un mutuo potenziamento mediante il dono disinteressato di se stessi. Il nuovo clima sollecita a camminare verso un’identità nuova, più completa, come frutto di una serie di incontri, di esperienze e di relazioni, guardando in avanti, verso un punto più alto, che non nega ciò che precede. La propria identità viene preservata e rafforzata mediante la ricerca dell’altro, camminando insieme, praticando il tirocinio del «tu» in un «noi-di-persone» che migliora noi stessi, soprattutto il nostro spirito, i nostri modi di pensare e di agire, autotrascendendoci nel superamento del nostro io verso l’altro. È nell’incontro con il tu, che diveniamo incessantemente più uomini, e la nostra dignità si rafforza in una identità che ci qualifica senza separarci dall’altro, specie dal totalmente Altro che è Dio, comunità di Persone nella Trinità.

Si impongono vari cammini di lavoro pastorale: educare all’incontro, aiutando ad andare verso le persone immigrate; educare all’identità cristiana, mediante la conoscenza delle culture straniere, il dialogo ecumenico ed interreligioso; promuovere l’inserimento degli immigrati cattolici, provenienti da altre Chiese, dentro le nostre comunità cristiane (nei nostri Consigli pastorali, nell’Azione Cattolica, nella Caritas parrocchiale, in altre Associazioni, nei Sindacati e nei Partiti di ispirazione cristiana); collaborare tutti insieme – autoctoni, migranti, rifugiati – per la vita, la famiglia, la pace, l’ecologia integrale, oltre che per la difesa, la tutela e la promozione dei diritti e dei doveri umani.12

La sfida più urgente delle nostre città, comunque sia, è imparare a vivere accanto a persone «diverse», fino a renderle partecipi degli stessi ideali della vita democratica, senza distruggersi, senza ghettizzarsi e disprezzarsi a vicenda, come ha sostenuto papa Francesco nel Messaggio mondiale del Migrante e del Rifugiato del 2014. La debolezza culturale più rischiosa è la tentazione di cedere alla paura. In uno dei suoi ultimi scritti, lo ricordava Mons. Luigi Di Liegro, fondatore e direttore della Caritas di Roma: «Non lasciamoci ispirare dalla paura. I migranti non sono un pericolo, ma degli uomini con la nostra stessa dignità. Esigiamo senz’altro il rispetto delle nostre regole di convivenza, ma allo stesso tempo superiamo il rischio di contrapposizione, accettiamone la diversità, rispettiamone la cultura e la religione, accogliamo quelli della nostra stessa fede, favoriamone l’associazionismo, valorizziamone l’apporto, prendiamo per primi l’iniziativa del dialogo, costruiamo insieme la città dell’uomo in un contesto europeo più aperto a tutti i popoli. Solo così le migrazioni potranno diventare per tutti un’occasione di crescita».13

«Non è facile – ha affermato papa Francesco nella sua omelia di domenica 14 gennaio 2018, in occasione della Giornata mondiale per il Migrante e il Rifugiato – entrare nella cultura altrui, mettersi nei panni di persone così diverse da noi, comprenderne i pensieri e le esperienze. E così spesso rinunciamo all’incontro con l’altro e alziamo barriere per difenderci. Le comunità locali, a volte, hanno paura che i nuovi arrivati disturbino l’ordine costituito, “rubino” qualcosa di quanto si è faticosamente costruito. Anche i nuovi arrivati hanno delle paure: temono il confronto, il giudizio, la discriminazione, il fallimento. Queste paure sono legittime, fondate su dubbi pienamente comprensibili da un punto di vista umano. Avere dubbi e timori non è un peccato. Il peccato è lasciare che queste paure determinino le nostre risposte, condizionino le nostre scelte, compromettano il rispetto e la generosità, alimentino l’odio e il rifiuto. Il peccato è rinunciare all’incontro con l’altro, all’incontro con il diverso, all’incontro con il prossimo, che di fatto è un’occasione privilegiata di incontro con il Signore. Da questo incontro con Gesù presente nel povero, nello scartato, nel rifugiato, nel richiedente asilo, scaturisce la nostra preghiera […]. È una preghiera reciproca: migranti e rifugiati pregano per le comunità locali, e le comunità locali pregano per i nuovi arrivati e per i migranti di più lunga permanenza».

1 Sul fenomeno migratorio in tempi di globalizzazione può tornare utile la lettura di M. AMBROSINI, Migrazioni, Egea S.p.A., Milano 2017, ove è possibile trovare una bibliografia essenziale. Ma si veda anche: FONDAZIONE MIGRANTES, Rapporto italiani nel mondo 2017, Editrice Tau, Todi (PG) 2017.

2 Cf Silvano Tommasi, Crisi dell’integrazione europea fra accoglienza e rifiuto, testo dattiloscritto di una conferenza tenuta presso l’Istituto di Scienze Sociali “Nicolò Rezzara”, Vicenza, 16-17 settembre 2016.

3 Sappiamo che, con riferimento alla soluzione dei corridoi umanitari, si è impegnata anche la CEI, la quale è scesa in campo, definendo dei protocolli d’intesa con la collaborazione del Ministero degli Esteri, ritenendola per ora unica via di accesso sicuro e legale verso l’Europa per i profughi in fuga da guerre e da persecuzioni. In questa direzione si è mossa pure la Comunità di sant’Egidio con la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia e la Tavola Valdese, con progetti completamente autofinanziati. Una simile iniziativa ha come obiettivi principali: evitare i viaggi con barconi nel Mediterraneo, che hanno già provocato un numero altissimo di morti, tra cui molti bambini; impedire lo sfruttamento da parte dei trafficanti di esseri umani, che si arricchiscono sulla pelle di chi fugge dalle guerre; concedere a persone in condizioni di vulnerabilità (ad esempio, oltre a vittime di persecuzioni, torture e violenze, famiglie con bambini, anziani, malati, persone disabili) un ingresso legale sul territorio italiano con visto umanitario e la possibilità di presentare successivamente domanda di asilo.

4 In vista di ciò, utilizziamo qui come traccia l’Istruzione del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, ora Sezione del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, Erga migrantes caritas Christi (La carità di Cristo verso i migranti) del 3 maggio del 2004.

5 «Nelle relazioni tra cristiani e aderenti ad altre religioni – si legge nell’Istruzione Erga migrantes caritas Christi al n. 64 – riveste infine grande importanza il principio della reciprocità, intesa non come un atteggiamento puramente rivendicativo, ma quale relazione fondata sul rispetto reciproco e sulla giustizia nei trattamenti giuridico‑religiosi. La reciprocità è anche un atteggiamento del cuore e dello spirito, che ci rende capaci di vivere insieme e ovunque in parità di diritti e di doveri. Una sana reciprocità spinge ciascuno a diventare “avvocato” dei diritti delle minoranze dove la propria comunità religiosa è maggioritaria. Si pensi in questo caso anche ai numerosi migranti cristiani in Paesi con maggioranza non cristiana della popolazione, dove il diritto alla libertà religiosa è fortemente ristretto o conculcato».

6 Cf R. Guitton, Cristianofobia. La nuova persecuzione, Lindau, Torino 2010.

7 Nel suo discorso al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Benedetto XVI elenca una serie di casi in cui si tende a considerare la religione, ogni religione, come un fattore senza importanza, estraneo alla società moderna o addirittura destabilizzante, e si cerca con diversi mezzi di impedirne ogni influenza nella vita sociale (cf Benedetto XVI, Discorso al corpo diplomatico della Santa Sede (10 gennaio 2011), in «L’Osservatore romano» [lunedì-martedì 10-11 gennaio 2011], p. 8). Occorre invece riflettere sull’importanza della religione nella società sulla sua rilevanza pubblica.

8 Cf J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture. Introduzione di Marcello Pera, Libreria Editrice Vaticana-Edizioni Cantagalli, Roma-Siena 2005, pp. 39-40.

9 Cf Observatory on Intolerance and Discrimination against Christians in Europe, Rapporto sull’intolleranza e la discriminazione contro i cristiani in Europa 2005-2010. Un tale rapporto è stato presentato a Vienna presso la Sede dell’OSCE l’11 dicembre 2010. Ma si vedano anche, per uno sguardo su tutto il mondo: Aiuto alla Chiesa che Soffre, Libertà religiosa nel mondo. Rapporto 2010, Aiuto alla Chiesa che soffre (ACS), Roma 2010; United States Commission on International Religious Freedom, Annual Report 2009, United States Commission on International Religious Freedom, Washington 2009.

10 Cf Giovanni XXIII, Lettera enciclica Pacem in terris, in AAS 55 (1963) 299.

11 Cf Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, n. 55.

12 Su questo, cf anche il volumetto G. Perego, Sono uomini e donne come noi. L’Europa, la Chiesa e le migrazioni, La Scuola, Brescia 2015.

13 L. Di Liegro, L’altro oggi e la Chiesa Italiana, in «Parole, Spirito e Vita», 27 (1993), p. 291.