Omelia per la Consegna del Credo ai cresimandi

17-10-2017

Cari cresimati e genitori, è ormai una tradizione della nostra Diocesi di Faenza-Modigliana venire qui presso la tomba di san Pietro, per pregare, per imparare da lui ad amare Gesù Cristo con tutto il cuore, fino alla morte.

È anche l’occasione per pregare più intensamente per papa Francesco, successore di Pietro. Il pontefice, che incontreremo domani, è stato recentemente in Romagna e ha sollecitato i giovani ad essere apostoli dei giovani. Che cosa vuol dire? Significa che i battezzati e i cresimati debbono considerarsi missionari, ossia persone che non tengono nascosto e prigioniero lo Spirito santo, ma sono capaci di donarlo e farlo conoscere ai propri amici, a coloro che non lo hanno ancora incontrato e, quindi, non lo amano.

Gesù si dona a noi per renderci persone felici di essere figli del Padre e fratelli tra di noi. Come può un fratello trattenere per sé la gioia di essere di Gesù Cristo? Come può non comunicarla al proprio fratello? Chi è felice non tiene la gioia solo per sé. Il bene, dicevano gli antichi, tende a diffondersi. Così, chi è di Gesù Cristo e possiede il suo Spirito d’amore non riesce a viverlo solo per sé senza donarlo. Viene spontaneo condividerlo con gli amici, con gli altri.

Proprio per questo, molti giovani e molti adulti della nostra Diocesi sono partiti come missionari, non ultimo padre Daniele Badiali, e sono andati in Latinoamerica, in Africa, in altri Paesi lontani per annunciarvi Gesù Cristo, per portarlo agli abitanti di quei continenti e di quelle Nazioni.

Nel suo Messaggio per la Giornata missionaria di quest’anno, papa Francesco gioisce perché i giovani, molti dei quali sono già generosamente impegnati a prendersi cura di tanti fratelli bisognosi, sono la speranza della missione della Chiesa. Essi hanno in sé l’attitudine ad essere «viandanti della fede». Sono lieti di portare Gesù in ogni strada, in ogni piazza, in ogni angolo della terra. I giovani, quando conoscono Gesù e gli parlano assiduamente sino a divenirne familiari, sono ricchi di un grande amore, che è contagioso, e rompe ogni barriera di razza, di religione, costruisce ponti di fraternità e di amicizia universali.

Oggi, nella santa Messa facciamo memoria di un grande santo dei primi tempi della Chiesa: sant’Ignazio di Antiochia. Leggendo le Lettere che egli scrisse alle comunità cristiane di allora, mentre veniva trascinato a Roma per essere dato in pasto alle fiere, comprendiamo il suo grande amore per Gesù Cristo, il suo entusiasmo di essere tutto suo. Non a caso venne denominato «teoforo», ossia portatore di Dio e di Gesù Cristo. Fu il secondo vescovo di Antiochia, dopo san Pietro apostolo, primo vescovo della stessa città, che oggi si trova in Turchia.

È davvero istruttivo riflettere sui primi successori degli apostoli, sulla freschezza della loro fede. Si scopre come l’amore per Gesù Cristo infiammasse i loro cuori, come fossero legati tra loro da un’amicizia e da un anelito missionario straordinari. Lo stesso san Paolo – l’abbiamo sentito poco fa – condivideva l’entusiasmo dei primi apostoli. Difatti scrive: «Fratelli, io non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco» (Rm 1, 16-25).

Coloro che sono amici di Gesù, lo frequentano nella preghiera, e ne sono innamorati, al punto da offrirgli la propria vita, non hanno paura di essere e di dirsi cristiani, di professare Gesù Cristo, al punto da morire per Lui.

Sappiamo che Ignazio, vescovo di Antiochia, la città in cui per la prima volta i discepoli furono chiamati «cristiani» (cf At 11, 26), durante il suo viaggio verso il martirio, non apparve pauroso e nemmeno intimorito da ciò che l’attendeva. Tant’è che giunto a Roma supplicò i cristiani di non impedire il suo martirio. Egli era, invece, impaziente di unirsi a Gesù Cristo. Ardeva dal desiderio di incontrarlo faccia a faccia. Di fronte alla gioia di vederlo, di stare con Lui, tutto il resto, comprese le sofferenze atroci del martirio, sparivano, non contavano. Ecco che cosa scrisse ai fratelli credenti di Roma che tentavano di evitargli la morte: «Lasciate che io sia pasto delle belve, per mezzo delle quali mi sia dato di raggiungere Dio. Sono frumento di Dio e sarò macinato dai denti delle fiere per divenire pane puro di Cristo. Supplicate Cristo per me, perché per opera di queste belve io divenga ostia per il Signore. […] Io cerco colui che é morto per noi, voglio colui che per noi é risorto. È vicino il momento della mia nascita. […] Lasciate che io sia imitatore della Passione del mio Dio!» (Lettera ai Romani di sant’Ignazio di Antiochia).

Che esempio e che testimonianza d’amore per Gesù Cristo! Proprio per il suo intenso amore per Gesù, Ignazio si distinse anche per un forte attaccamento alla Chiesa, per il servizio generoso alla comunità, per lo slancio missionario.

Cari amici cresimati è l’amore a Gesù, è l’unione intima con l’inviato del Padre, che ci costituiscono missionari. È crescendo nel possesso dello Spirito di Gesù che ci sentiamo chiamati ad annunciare il Vangelo. Qui, presso la tomba di Pietro, al quale Cristo disse «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt 16, 18), rinnoviamo gli impegni del Battesimo, confermati il giorno della Cresima. Rinnoviamo la professione di fede.

Più della nostra immagine esteriore, coltiviamo la vita interiore, come ci ha appena raccomandato il Vangelo di Luca (Lc 11, 37-41). Liberiamola dalla cattiveria, dal dominio del male. Dissodiamo il terreno. Vanghiamo il campo del nostro animo per togliere i sassi e le erbacce. Altrimenti, il seme della Parola non affonderà le radici e non germoglierà. Facciamo crescere in noi la potenza dello Spirito di Dio e di Gesù.